domenica 4 settembre 2011

IL FIGLIO DI TROIA

Mi è capitato, alcune settimane fa, di citare la famosa filastrocca goliardica "L'uccello in chiesa", quella del prete che, cercando di individuare chi ha catturato un passero ferito rifugiatosi nei pressi del suo confessionale, crea un malinteso dopo l'altro rivolgendosi ai fedeli, come in questo passaggio: "Già dissi e torno a dire /che chi prese l'uccello deve uscire /ma mi rivolgo a voce chiara e estesa / soltanto a chi l'uccello ha preso in chiesa".

Raccontai, in quella circostanza, di essermi divertito anch’io a scrivere rime del genere, ai tempi di liceo. Al che, ovviamente, sono giunte le richieste perché ne pubblichi qualcuna su questo blog. Premetto che non ho composto niente di cui possa andare fiero e che, anzi, si tratta, temo, di componimenti triviali di cui dovrei vergognarmi. Però, è vero che da quei miei esercizi di gioventù sono nate le tante “canzoncine” di Cico che ho inserito nelle mie sceneggiature: di alcune di quelle, in effetti, sono assolutamente orgoglioso (ed ecco un altro argomento di cui, magari, potrei tornare a parlare). Del resto, è vero anche che se qualcuno si cimenta nella poesia goliardica non può non essere triviale, inserendosi in un genere che ha le sue regole ben precise e che risale al Medioevo, avendo tra i suoi padri nobili Cecco Angiolieri (ma anche Dante Alighieri, in alcuni versi dell’Inferno, è volutamente goliardico).

La goliardia ha trovato sfogo naturale nelle canzoni da osteria, ma ha anche conservato tratti più letterari quando è stata praticata in ambito scolastico, talvolta perfino universitario. In questi casi, la trivialità è stata messa al servizio della parodia di opere classiche, con versi pieni di riferimenti colti che fanno la gioia di chi riesce a coglierli. Una fra le tragedie goliardiche più note (e già il fatto che si tratti di una “tragedia” testimonia la letterarietà dell’ispirazione) è la celebre “Ifigonia in Culide”, composta da un gruppo di studenti negli anni Venti. Nonostante il titolo rimandi all’Ifigenia in Aulide di Euripide, si tratta in realtà di una parodia della Turandot di Carlo Gozzi. Per far capire il tenore dell’opera, basteranno i primi versi messi in bocca alla protagonista al suo primo apparire: “Padre io, padre mio / sono presa dal desio. / Ho già un dito che fa male / per l’abuso del ditale”. Di fronte a questi esempi e a questa tradizione, sicuramente le mie rime non potrebbero scandalizzare nessuno degli eventuali lettori.

La mia opera goliardica più ambiziosa, scritta negli anni in cui frequentavo il Liceo Classico “Cicognini” di Prato (lo stesso di D’Annunzio e Malaparte, per capirci), è una parodia dell’ Eneide virgiliana intitolata “Eneode”, dal nome del protagonista che si chiamava per l’appunto Eneo, essendo a suo dire “Enea” un nome da donna, portando il quale sarebbe stato facilmente preso in giro dai compagni. Mi cimentai in un’impresa titanica riuscendo a comporre un poema in venti canti di endecasillabi, che mettevano in burla la trama di Virgilio, seguendola passo per passo. Ricordo ancora i versi in cui Didone chiede ad Eneo, giunto a Cartagine con i troiani in fuga, di narrare le sue gesta: “Le tue avventure voglio con gioia / quivi ascoltare, o figlio di Troia”. Al che l’eroe si risente, credendo di cogliere una allusione ai facili costumi di sua madre, Venere, e la regina deve spiegargli che intendeva riferirsi al fatto che era nato a Troia. Il poema ebbe un certo successo tra i miei compagni di scuola e adesso giace dimenticato nei miei cassetti.

Qualche anno dopo, Virgilio si è vendicato facendomi incappare nella più imbarazzante situazione della mia carriera di studente universitario. Frequentavo il seminario di una celebre latinista, la professoressa Rosa La Macchia (il cui nome mi ha sempre divertito). A un certo punto, l’illustre docente (o forse qualcuno dei suoi assistenti) ebbe l’idea di assegnare a ogni discente un canto dell’Eneide perché lo approfondissimo verso per verso, traducendo dal latino, anche riportando le chiose di celebri commentatori della tradizione. A turno, ognuno di noi veniva invitato a sedere in cattedra e tenere lui stesso una sorta di lezione agli altri studenti. Com’è, come non è, a me capitò il canto ottavo. Ora, che cosa succede nel canto ottavo? C’è una scena in cui proprio la dea Venere va dal dio Vulcano e, strusciandosi ben bene, gli fa perdere la testa, lo seduce e in pratica gliela promette purché egli si metta a forgiare delle armi per il figlio Enea. Vulcano ovviamente accetta e Virgilio si sbizzarrisce nel descrivere l’amplesso fra lui e Venere, usando versi come: “la divina con le nivee braccia lo scalda con un morbido abbraccio, e lui subito si sente pervaso dalla fiamma di un ben noto calore che gli corre per tutto il midollo”.
E questo è solo l’inizio, per cui si giunge poi all’atto sessuale vero e proprio. Per quanto Virgilio possa essere stato audace, i commentatori dell’epoca, che scrissero le note con cui lo spiegavano parola per parola, si cimentarono nell’impresa di illustrare con dovizia di particolari che cosa fosse il “ben noto calore” e che cosa volessero dire tutti gli altri versi dedicati all’amplesso. Così, il giorno in cui venne il mio turno, mi toccò sedermi in cattedra e riferire a mia volta i dettagli del match erotico, confrontando fra loro le opinioni dei chiosatori riguardo a ogni passaggio. Cercavo ovviamente di usare parafrasi e giri di parole, ma l’argomento quello era e i miei colleghi sui banchi sghignazzavano a ogni pié sospinto.

Essendo sopravvissuto a quell’esperienza, eccomi perciò oggi a proporvi senza pudore alcuno un canto della mia Eneode, l’unidicesimo. Vi assicuro che non serve nessuna particolare cultura classica per leggere i quaranta versi (suddivisi in dieci quartine) che seguono. Basterà conoscere i precedenti: Eneo è ospite di Didone a Cartagine, e vi si trattiene dato che la regina si è invaghita di lui. Venere, però, vuole che il figlio riparta con gli altri troiani per raggiungere l’Italia, là dove è destinato a dare origine alla stirpe dei fondatori di Roma. La dea cerca dunque di convincere il profugo troiano a chiedere alla regina una flotta con cui riprendere il mare. Ma Eneo, che a Cartagine viene servito e riverito e fa vita da vacanziere, non ne vuol proprio sapere: non gli importa una mazza del fulgido destino della sua stirpe. Vediamo perciò com’è che, improvvisamente, si convince a togliere le tende. E che Virgilio mi perdoni.

CANTO UNDICESIMO

NEL QUALE ENEO ABBANDONA PRECIPITOSAMENTE CARTAGINE


Eneo dimorava nel regio palazzo
e ci provava notevol sollazzo,
per cui la madre dal ciel si mosse
scese a Cartagine e il figlio scosse:

- Or che su Dido hai infine ascendente
perché poltrisci, perché non fai niente?
Mentre che giaci, amante, nel letto
chiedi le navi in segno d'affetto! -

Avendo la mamma udito ammonire,
questo in risposta l'Eneo volle dire:
- Or te lo dico e non mi vergogno:
di ripartire nemmeno mi sogno!

Perché dovrei farlo? Qui faccio bisboccia:
ci mangio, ci bevo, ci ho donna belloccia!
Ci sto proprio bene, porca d'un' Eva:
io sono qui, e nessun mi ci leva!

Se vuoi saperlo, Didone i battelli
di già m'ha dato, perché dai corbelli
io mi levassi i compagni troiani
che fo partire e mando lontani.

Lor vadan via, qui resto da solo
nel letto di Dido mi tuffo, ci volo!
Ripartano loro in viaggio per mare,
io resto qua, con Dido a trombare. -

Vener sparì irata nel cielo,
ed entrò Dido avvolta in un velo.
- Gran deficiente! - disse convinta -
Sai cos'hai fatto? Tu m' hai messa incinta!

Ho fatto gli esami e son positivi
perché tu non usi i preservativi!
Pezzo d'idiota, solenne imbranato,
guarda che guaio tu m'hai combinato!

Bisogna sposarci, e in fretta, troiano:
domani stesso ti do la mia mano! -
Eneo le disse: - Sposarti? Sei grulla?
Io non ti sposo manco per nulla!

E poi dovrei sorbirmi il figliolo?
Povera scema! Io corro sul molo! -
E detto fatto l'Eneo fuggì
e coi troiani in nave partì.