lunedì 23 luglio 2012

CENTO PAGINE AL GIORNO


In uno scambio di battute sul “coso” (cioè sulla mia pagina fan su Facebook), Melissa Camerani ha così commentato un mio post a propoosito degli e-book: “Sarò antiecologica, ma io ho una forte dipendenza da carta”. Al che le ho risposto: “eh, dillo a me che me ne faccio una dose al giorno. Ed essendo assuefatto, sono arrivato a circa cento pagine per volta”. Lì per lì mi è sembrata una battuta. Invece, mi rendo conto che si tratta di una stima per difetto. Già leggersi un albo Bonelli vuol dire assumere 94 pagine di carta, e talvolta di albi Bonelli se ne leggono anche due o tre al giorno. A questi vanno aggiunti i libri veri e propri. Ovviamente, al di fuori dal contesto lavorativo e solo parlando di letture per diletto. In conclusione, mi chiedo, qual è la mia dose media quotidiana? Suppongo che sia sulle duecento pagine, Bonelli compresi. Per fortuna le reggo bene. In ogni caso, se siete curiosi di sapere che cosa ho letto (fumetti da edicola a parte) durante lo scorso mese di giugno, ecco qui le mie consuete recensioni.



La profezia dell'armadillo
di Zerocalcare 

(Graficart, 2011)

Il principale difetto di questo libro a fumetti è che "nel rispetto dell'animo ecologista dell'Autore, è stato stampato su carta ecologica", come spiega una dicitura in quarta di copertina. Il che significa che fa schifo a toccarlo, e che, se uno lo sfoglia con le mani sudate, gli resta una pappetta sui polpastrelli. Siamo tutti ecologisti, però i libri sono sacri e andrebbero stampati sempre su carta patinata e rilegati con filo refe. Ma è un difetto, questo della carta ecologica, che a Zerocalare si perdona facilmente perché il libro è divertente. E poi non è per la carta, che le sue storie sono pensare. L'autore ha infatti un suo sito, dove ogni quindici giorni pubblica i suoi lavori, destinati al pubblico in rete (non ho mai capito come fanno a campare i fumettari che pubblicano in rete i loro lavori, ma ci sono tante cose che non capisco). Meno male, grazie a Makkox che l'ha prodotto, 136 tavole di Zerocalcare sono passate anche dalla tipografia, e spero che presto altre ne passeranno. Cresciuto nei centri sociali (ce lo dice lui), figlio degli anni Ottanta, metropolitano al cento per cento, afflitto da ideologici sensi di colpa (su cui per fortuna riesce a scherzare su) se va a mangiare da MacDonald's, Zerocalcare oltre a essere l'autore è anche il protagonista delle sue storie, che parlano di lui stesso, delle sue ansie, delle sue paturnie, dei suoi scazzi, dei suoi complessi. L'armadillo del titolo è un amico immaginario che funge da sua coscienza critica, da super-Io talvolta ossessivo e talvolta comprensivo, ma sempre rompicoglioni come il Grillo di Pinocchio. A me ha fatto venire in mente i tre personaggi (Caliendo, Lucrezia e Scintillone) proiezioni psichiche del Napoleone di Carlo Ambrosini, ma potrebbe anche essere nato dalla lettura di Watterson. Anche il fatto di dare sembianze simboliche, talvolta di animali (un cinghiale è un suo compagno di classe), ad alcuni personaggi, mi fa scattare una similitudine con il "Maus" di Art Spiegelman. E, in generale, la lettura di Zerocalcare mi riporta alla mente il Buddy Bradley protagonista di "Odio!", di Peter Bagge, un fumetto grunge della scena underground americana, trasferito a Roma dalla nativa Seattle. Il fumetto può essere tutto e dunque può essere anche Zerocalcare, che dimostra una istintiva padronanza dei codici e riesce a sfruttarne le potenzialità espressive: alcune trovate sono molto efficaci. Il libro è tenuto insieme dall'esile trama del recupero dei ricordi dopo che il protagonista ha appreso la notizia della morte di una sua amica, Camille, di cui in passato è stato innamorato (senza molta fortuna). Così, andando a ritroso in modo saltellante, riemergono fatti e fatterelli in cui talvolta Camille compare, e altri in cui non compare ma servono a descrivere la complessa (e complessata) figura dell'io narrante. Il tutto, mescolando citazioni multimediali (da Star War ai fumetti giapponesi, passando per Kurt Cobain), e riferimenti a un mondo giovanilistico e a modi di fare e di essere che è divertente scoprire per chi, come me, vive sulla Luna. Alla fine, che cos'è la "Profezia dell'armadillo"? E' un libro serio o faceto? Si potrebbe aprire un dibattito. Io, che non sono mai stato (per mia colpa) in un centro sociale e non ho complessi nel mangiare da MacDonald's (dove non mangio solo perché non mi piace il cibo che c'è nel menu), probabilmente ho riso soltanto alla metà delle battute, ma sono state sufficienti per farmelo apprezzare. Makkox dice, nella sua introduzione, che Zerocalcare è un grande. Alla fine, mi sento di convenire.



La vendetta del diavolo
di Joe Hill 
(Sperling & Kupfer, 2012)

Due sono i motivi per cui ho deciso prima di comprare il libro e poi di divorarlo subito interrompendo le altre letture in corso. Il primo motivo, dispiace dirlo dato che ogni autore dovrebbe essere scelto per quel che è e non per quello a cui assomiglia, consiste nel fatto che Joe Hill è il figlio di Stephen King (il suo nome per esteso è Joseph Hillstrom King). Va detto che gli fa onore aver scelto uno pseudonimo che lo differenzia dal padre e aver rivelato la sua identità solo dopo il successo dei suoi primi lavori. Nei ringraziamenti de "La vendetta del diavolo", Stephen King non è neppure rammentato. Eppure il racconto grida trasuda kinghianità da tutte le virgole: romanzo di formazione, mito dell'infanzia, amori adolescenziali, scontro con la realtà crudele del mondo degli adulti, continuo flashback tra passato e presente, presenza della magia e degli incantesimi di forze arcane, cattive amicizie con coetanei crudeli che crescendo diventano infidi ancora di più: sembra di leggere "It", "Carrie" o "A volte ritornano". Hill non riesce a staccarsi dall'immaginario del padre (anche su uno dei personaggi del romanzo ha la casa piena dei libri di Dean Koontz). C'è persino, in giro, un racconto scritto a quattro mani, comparso in una antologia nata come omaggio a Richard Matheson (l'autore di "Io sono leggenda"). Il secondo motivo per cui ho comprato "La vendetta del diavolo" è che in una conversazione con un amico, questi mi ha decantato la bellezza di un altro titolo della (per ora esigua) bibliografia hilliana: "La scatola a forma di cuore". E' proprio questo il libro che, in realtà, mi ero messo a cercare. Ma dopo aver girato quattro o cinque librerie senza trovarlo, ho ripiegato su "Horns" (questo il titolo originale de "La vendetta del diavolo"). Fa un po' sorridere il tentativo della Sperling & Kupfer di spacciare per "thriller" (così dice la scritta in copertina) un romanzo horror che comincia così: "Ignatius Martin Perrish vide il proprio riflesso nello specchio sopra il lavabo e si rese conto che durante il sonno gli erano spuntate le corna. Dalla sorpresa fece un balzo all'indietro e si pisciò sui piedi". Come incipit, lo trovo straordinario: impossibile, almeno per me, non andare avanti e scoprire il perché di quella trasformazione e come il protagonista decide di affrontarne le conseguenze. La prima parte del libro mostra appunto la scoperta da parte di Ig Perrish (una persona fino al giorno prima assolutamente normale, e con un passato di ragazzo buono e irreprensibile) della sua nuova condizione di demone umano dotato di sconvolgenti poteri, il più disturbante dei quali è l'incapacità di chiunque, di fronte a lui, di mentire e l'assoluta necessità di confidargli, anzi, tutti i più inconfessabili segreti. Così, Ig si rende conto di come nessuno dica realmente quello che pensa e come tutti condividano, appunto perché umani, ipocrisie, bassezze, debolezze e turpitudini: per la gioia di Freud, molte delle confessioni riguardano pulsioni sessuali e istinti di sopraffazione. Ma Ig non si sta trasformando in un diavolo per caso: c'è un motivo, legato a una casa su un albero da lui scoperta nel bosco quando era poco più che un ragazzo insieme alla fidanzatina Merrin, l'amore della sua vita. Una casa in cui i due fecero l'amore giurandosi che sarebbero rimasti insieme tutta la vita, e che però, dopo, scomparve: o almeno, non furono più in grado di ritrovarla. Un altro forte personaggio del romanzo è Lee, l'amico del cuore di Ig, a cui il giovane Perrish si sente legato per sempre perché l'altro, una volta, lo ha salvato dalle acque del fiume in cui lui stava per annegare. In apparenza, Lee è solo un ragazzo strano: in realtà è sociopatico e psicopatico, abituato a fingere e mentire, in grado di manipolare chi gli è vicino e fargli credere qualunque cosa. E' Lee il vero diavolo della storia, mentre Ig è un angelo ingenuo. Le cose cambiano quando Merrin, improvvisamente, tronca la storia con Ig che dura da anni e Ig litiga di brutto con lei per andarsene disperato a ubriacarsi. La ragazza sembra avere una storia con un altro. Il mattino successivo, Merrin viene trovata morta, uccisa dopo uno stupro. Ig è il rampollo di una famiglia facoltosa e gli avvocati pagati dal padre lo scagionano dopo che è stato accusato del'omicidio della ragazza. Ma, come il giovane Perrish scopre dopo che gli sono spuntate le corna e tutti gli dicono la verità, non c'è persona in città e nella sua famiglia che non lo ritenga un colpevole che l'ha fatta franca. Grazie ai suoi nuovi poteri, tenendosi nascosto come un reietto, Ig comincia a indagare per proprio conto, scoprendo come sono andate veramente le cose. E alla fine le corna che gli sono cresciute in testa si rivelano ciò che serve per saldare i conti con i veri assassini. Non solo: ci si rende conto come l'opera dell'apparente diavolo sia positiva non solo perché vendica Merrin (che aveva deciso di lasciare Ig covando un segreto ben diverso da quello che si poteva immaginare), ma perché aiuta a trovare la giusta strada e la giusta soluzione ai loro problemi a diverse persone travagliate e imprigionate in una vita che non è quella che vorrebbero: l'aspetto demoniaco non è necessariamente collegato al male assoluto, anzi. Il racconto è ipnotico e coinvolgente, anche se la prima parte è migliore della seconda e, alla fine, la posta in gioco è minimale: alla base di tutto c'è un solo omicidio da risolvere (anche se ci sono altre morti abbastanza sconvolgenti che restano sullo sfondo). Insomma: bravo Joe Hill, ma ne hai di strada da fare prima di poter competere con il tuo papà.





Un fatto umano - Storia del Pool Antimafia
di Manfredi Giffone (testi), Fabrizio Longo e Alessandro Parodi (disegni)
Einaudi (2011)



E' stata una lettura impegnativa, non soltanto per il numero di pagine (370 a fumetti del graphic novel, più un'altra decina fra prefazione, postfazione, bibliografia, dedica e citazioni), ma anche per la densità di nomi, personaggi, avvenimenti, collegamenti e rimandi. Tuttavia, alla fine, ne sono uscito con le idee un po' più chiare sulle torbide vicende italiane (e non solo italiane) tra la fine degli anni Settanta e l'inizio dei Novanta. Questo significa che il libro, documentatissimo, rappresenta di per se stesso, al di là di essere disegnato anziché scritto, una vera e propria inchiesta giornalistica tesa a ricostruire fatti e situazioni, ed è, prima che un "romanzo a fumetti" (come viene definito in quarta di copertina), un saggio di storia e di cronaca. Le parti romanzate, infatti, sono poche: qualche dialogo ricostruito per verosimiglianza essendo avvenuto in camera caritatis, qualche stralcio di vita privata dei protagonisti, qualche scena dietro le quinte. Ma non si indulge nel poliziesco o nel poliziottesco, come sarebbe stato facile (e forse preferibile, se si fosse voluto realizzare appunto un "romanzo"). Per il resto, e cioè per la maggior parte, si mostrano la trama e l'ordito di una realtà storica così come è stata raccontata da atti giudiziari, interviste, inchieste, filmati d'archivio, fotografie. Di nuovo (non è la prima volta che lo dico, ma qui mi se ne offre un'altra occasione) si dimostra come il fumetto sia non una forma di comunicazione in grado di veicolare qualsiasi tipo di contenuto, e dunque abbia nel suo codice espressivo gli strumenti per mettersi al servizio non solo di ogni storia ma anche di ogni idea che si voglia diffondere. Manfredi Giffone sposa, com'è inevitabile, alcune interpretazioni dei fatti a vantaggio di altri (per esempio, non assolve Giulio Andreotti), ma si trattiene sempre prima di diventare fazioso, e sembra suggerire al lettore quelli che sono stati i suoi elementi di giudizio, piuttosto che imporglieli a fondamento di una ricostruzione spacciata come l'unica possibile, e questo è un merito del volume. Su tutti i personaggi spiccano, com'è ovvio ed evidente fin dalla copertina, le figure di Falcone e Borsellino, gli ideatori, con Antonino Caponnetto, del "Pool Antimafia". Dei due si fornisce anche un ritratto umano, mentre di quasi tutti i tantissimi altri protagonisti si dà una raffigurazione più cronachistica. Tra quelli che ci fanno bella figura, e ne sono contento, c'è Claudio Martelli. Meno bene ne esce Leonardo Sciascia, e di questo sono meno contento (secondo me, è ingiusto attribuire allo scrittore una colpa nella delegittimazione e nel conseguente isolamento di Falcone e Borsellino che portò alla loro uccisione: sono ben altre, e di altri, le vere responsabilità). Marginale, ma non mancano i riferimenti, il ruolo di Silvio Berlusconi in alcuni dei passaggi. Lo sceneggiatore sceglie di far raccontare la sua storia un narratore d'eccezione, Mimmo Cuticchio, cantastorie e puparo siciliano, attore e regista teatrale, unico personaggio raffigurato con il suo vero volto in tutto il libro, mentre gli altri hanno le fattezze di animali (Falcone, per esempio, è un gatto; Borsellino, un cane; Andreotti, un pipistrello; Leoluca Orlando, un rinoceronte), come se fossero pupazzi di un teatrino di marionette, o protagonisti di una favola di Esopo. Senza che questo sminuisca di una virgola i meriti dell'opera, mi sento di contestare la scelta: trattandosi di fatti di cronaca con protagonisti dotati di nomi e cognomi, meglio sarebbe stato dare loro anche delle facce. I disegni di Longo e Parodi si mettono comunque con abilità al servizio della scelta zoomorfica e l'assecondano anche graffiando il lettore con loro il bianco e nero a mezzatinta da da giornale d'epoca senza nessuna ricerca dell'effetto fumettistico da comic book: nessuno si aspetti di vedere scene da Punisher o da Nick Raider, nonostante che la mattanza palermitana degli anni Ottanta si prestasse a questo tipo di rappresentazione. Peraltro, sarebbe bello poter vedere un vero e proprio "romanzo a fumetti", magari di quelli targati Bonelli, che raccontino una storia ambientata in quel contesto da un punto di vista appunto romanzesco e avventuroso, perché tutto, anche la fiction, contribuisce alla memoria. Come dice Cuticchio nel finale del volume, finché c'è qualcuno che la vuole ascoltare, una storia non è mai finita.




Vita su un altro pianeta
di Will Eisner 

(Kappa Edizioni, 2004)

Come spiega lo stesso autore nella sua introduzione all'edizione italiana, si tratta del suo secondo esperimento alle prese con il formato "graphic novel", di cui Eisner è stato un precursore. Il primo "romanzo a fumetti" eisneriano su "Contratto con Dio", del 1978. Sembra che, però, il termine "graphic novel" si debba attribuire a Richard Corben, che lo utilizzò nel 1975 per il suo "Bloodstar", mentre il primo esempio di un racconto del genere potrebbe essere, secondo alcuni, addirittura italiano, risalendo al 1967 con "Una ballata del mare salato" di Hugo Pratt. C'è anche da tener conto del "Poema a fumetti" di Dino Buzzati, che è del 1969. Scrive Eisner, a proposito di "Vita su un altro pianeta", datato anch'esso 1978: "costituiva un tentativo di dimostrare che un 'normale' romanzo aderente alla disciplina più ortodossa della letteratura in prosa potesse essere sviluppato sotto le forme di ciò che io chiamo 'arte sequenziale'. Erano i primissimi anni dei romanzi a fumetti e vi era il bisogno assoluto di qualcosa che attirasse l'attenzione dell'accademia e dei critici letterari. Fortunatamente, l'esperimento funzionò". La tensione sperimentale eisneriana è evidente nel continuo scombinamento della tradizionale tavola fumettistica, con inserti di testi scritti (a volte anche lunghi da leggere) che vengono posti all'attenzione del lettore mentre è un personaggio della scena che prende in esame le pagine di un libro, con le sequenze didascaliche che si alternano a quelle d'azione, con il ricorso a tutti i trucchi narrativi tipici dell'autore fin dai tempi di Spirit: scardinamento delle "gabbie", intarsi di immagini sovrapposte, rinuncia ai bordi delle vignette o loro utilizzo a seconda dei casi. Il senso del racconto, che si svolge a tratti come una spy-story, a tratti come un classico romanzo di fantascienza, a tratti come una fiction metaforica o apocalittica, a tratti come una vicenda di passione, amore, morte e follia, è la rinuncia dell'umanità al contatto con una possibile civiltà exterrestre che invia un segnale alla Terra, a causa delle beghe interne e della rivalità fra le superpotenze. Ci sono anche spunti divertenti, come la secessione di uno Stato terrestre che si dichiara colonia spaziale degli alieni. Tuttavia, il continuo cambiamento di registro non giova alla narrazione, che finisce per non appartenere né a un genere né a un altro e si risolve come un apologo. Siamo sempre su livelli altissimi, sia grafici che letterari, ma "Contratto con Dio" o altri graphic novel successivi sono decisamente migliori.







Branchie
di Niccolò Ammaniti 

(Einaudi, 1997)

Di solito, scrivo queste mie piccole recensioni parlando bene, o abbastanza bene, dei libri le leggo. Primo, perché in generale scelgo i titoli sulla base delle mie preferenze; secondo, perché comunque non sono un talebano e mi piace davvero di tutto; terzo, perché sono ben disposto verso il mondo e cerco di compensare quel che non mi va in un libro con i lati positivi che di solito ugualmente ci sono. In realtà, mi è capitati di segnalare una volta un romanzo che mi era rimasto un po' indigesto, "L'amante", di Marguerite Duras, ma anche in quel caso non avevo potuto fare a meno di notare come l'ambientazione esotica, la ricostruzione di una affascinante epoca storica e l'argomento politicamente scorretto costituivano dei punti di merito. Invece, con "Branchie", faccio fatica a trovare qualcosa di positivo a parte la copertina di Tullio Pericoli e Perluigi Cerri. E sì che ero partito con le migliori intenzioni. Di Ammaniti avevo letto "Io non ho paura" (Einaudi, 2001) e mi era sembrato bellissimo. Più di recente, mi ha lasciato un po' perplesso "Che la festa cominci" (Einaudi, 2009), in cui pur avendo ammirato il talento di brillante affabulatore dell'autore mi era sembrato che da metà romanzo in poi la trama bene imbastita e i personaggi interessanti svaccassero nel non-sense e del grottesco, che non mi aspettavo. Tuttavia, alla fine ho dovuto ammettere di essermi divertito, sia pure con il retrogusto amaro di chi avrebbe preferito che la grande festa nel grande parco non finisse in modo apocalittico-canzonatorio ma conservasse una parvenza di credibilità (come del resto erano rimasti credibilissimi fino all'ultimo i personaggi di "Io non ho paura"). Adesso, recupero questo testo, che risale in realtà non al 1997, anno in cui è uscita l'edizione Einaudi, ma al 1994, ed è dunque l'opera prima di Ammaniti pubblicata presso un piccolo editore romano, Ediesse, e comprata (come spiega lo scrittore) solo dagli amici e dai parenti. Anche in questo caso, fino a pagina 60 ho creduto che la storia fosse seria, e cioè che Marco Donati, allevatore di pesci ed esperto di acquari, fosse davvero un malato terminale e partisse per l'India per fare l'ultimo viaggio della sua vita. Invece, giunto a pagina 65, con l'incontro con la BAP (Banda dell'Ascolto Profondo, che suona nelle fogne di Nuova Delhi), mi è stato subito chiaro che si svaccava anche in questo caso e che il romanzo era soltanto un divertissement senza senso (del resto, nell'introduzione, Ammaniti spiega che le sue pagine erano nate come un "tumore" all'interno della sua tesi di laurea, essendosi lui messo a scrivere a ruota libera quel che gli veniva in mente, dimenticandosi il titolo dell'elaborato accademico). Il talento dello scrittore, resta. Il suo spirito beffardo e il sense dell'humour, pure. Ma che la storia abbia un minimo interesse o significhi qualcosa, per quanto mi riguarda, no. Quando si arriva alla descrizione del "pesce padulo", ecco, credo di aver pensato di "Branchie" la stessa cosa che Fantozzi pensa della Corazzata Kotiomkin.



Salsicce e rapine
 a cura di Sebastiano Mondadori
Del Bucchia (2012)


Qualche giorno fa mi è capitato di pranzare con Luca Crovi, che da buon figlio d'arte (suo papà era il grande Raffaele Crovi) organizza dibattiti culturali, conduce programmi radiofonici, scrive sui giornali, presenta libri, frequenta scrittori e conosce come le sue tasche le dinamiche dell'editoria italiana. Luca mi dice che se uno scrittore prova a proporre una antologia di racconti a una Casa editrice, viene regolarmente guardato di traverso. Pare che, salvo rari casi (come quelli di Camilleri, di cui di recente è uscito "Il diavolo, certamente"), i racconti non godano di molta popolarità presso i curatori di collane, gli editor o comunque i responsabili dei principali editori. In effetti, non si vedono molte antologie in libreria. Eppure, i racconti dovrebbero essere una lettura ideale: brevi, non impegnativi dal punto di vista del tempo preventivabile, vari e assortiti, spesso più ricchi di idee di certi romanzi tirati per le lunghe, talora fulminati. Se dovessi dire quali sono le opere migliori di Asimov, direi i suoi racconti. Raymond Carver non ha scritto altro che racconti e poesie, a ben guardare. Hemingway è stato uno straordinario autore di tales, e ugualmente (giusto per fare un altro nome) Edgar Allan Poe. Le novelle sono un genere letterario di tutto rispetto della letteratura italiana. Verga e Pirandello hanno scritto racconti memorabili. Di fronte a dei giovani autori, la formula del racconto potrebbe essere una carta da giocare per metterli alla prova. Eppure, le Case editrici storcono il naso. In ogni caso, ho qui davanti a me un libro di racconti, intitolato "Salsicce e rapine" (c'è un evidente gioco di parole che lascio ai più arguti cogliere al volo), edito da Del Bucchia. Si tratta della terza antologia della Scuola di Scrittura Creativa Barnabooth, tenuta a Lucca dallo scrittore Sebastiano Mondadori. Al'interno, quindici racconti scritti dagli allievi. Anzi, soprattutto dalle allieve, visto che dieci firme sono al femminile e, a lettura ultimata, mi sento di mettere le autrici un gradino sopra, quanto a qualità di scrittura, ai colleghi maschietti, comunque bravi. E' di un maschietto, peraltro, l'aforisma più fulminante, contenuto nelle note biografiche: "Ucciderei per un buon incipit" (Matteo Pieri). Il racconto più inquietante è di Annalisa Chelotti e si intitola "La fata scalza": crudo e tagliente, descrive la vita di una cubista che si guadagna il cubo più in evidenza perché è la migliore, e deve darsi forza con coca e alcool per prostituirsi poi con i clienti disgustosi che gli procura il proprietario del locale. Il più efficace, ambientato a Lucca, è anche il più breve, "Girare", di Andrea Meli, cinque pagine soltanto pieno di frasi che sembrano versi di una canzone: "Hai visto gli alberi sopra la torre?", mi disse come se ce li avesse messi lei. Due dei racconti sono di Giorgio Giusfredi, ormai noto agli appassionati di fumetti (in particolare agli zagoriani) per il suo impegno nello staff di Lucca Comics, a cui si deve la storia più cupa e horror della raccolta, "L'uomo dei boschi", dove un imbalsamatore di animali alla fine impaglia un ragazzino. Mi colpisce, comunque, in tutte le opere (anche in quelle meno esaltanti o con ancora la tecnica da mettere a punto), la passione per la scrittura, dimostrata a priori dalla scelta di frequentare un corso per imparare a scrivere. Se gli editori si decidessero a pubblicare qualche libro di racconti in più, ci sarebbe più spazio per tanti indiscutibili talenti.





Tecniche di resurrezione
di Gianfranco Manfredi 

(Gargoyle Books, 2010)

Ho già recensito, in questo spazio, il romanzo "Ho freddo", opera dello stesso Manfredi, accennando a come non fosse neppure il caso di ricordare che si tratta dello sceneggiatore di Magico Vento, Volto Nascosto e Shangai Devil. Perciò, non mi sembra il caso di ribadire il concetto. Chi ha letto e apprezzato (com'è praticamente inevitabile fare) "Ho freddo", dovrebbe procurarsi anche "Tecniche di resurrezione", visto che si tratta del sequel, strettamente collegato al primo libro, con gli stessi personaggi, Valcour de Valmont e la sua sorella gemella Aline che sono tornati in Europa (il precedente romanzo era ambientato negli Stati Uniti, dalle parti del Rhode Island, là dove si verificarono realmente, tra Settecento e Ottocento, casi di presunto vampirismo). I nomi dei due protagonisti sono tratti dal romanzo epistolare che prende appunto il titolo da loro, scritto dal Marchese De Sade mentre era prigioniero nella Bastiglia. La prima parte di "Tecniche di resurrezione" su svolge a Londra, la seconda in gran parte in Francia. Apparentemente si tratta di due trame scollegate: quella inglese riguarda le indagini su un serial killer vestito di rosso che uccide i pazienti negli ospedali, ruba i cadaveri dalle tombe e decapita le vittime, facendosi chiamare Doctor Ending. La seconda parte, quella francese, vede Aline dama di compagnia di Josephine Bonaparte e Valcour assunto da Napoleone per curare un suo soldato, Salvy San Subra, colpito da un misterioso male che lo sta trasformando in una mummia vivente, dopo che questi è penetrato in una piramide durante la Campagna d'Egitto. Alla fine, in realtà, le due storie si ricollegano in un unico finale. Rispetto a "Ho freddo", questo secondo romanzo è meno pauroso e più avventuroso, anche se non mancano gli elementi gotici e misteriosi, e perfino le indagini alla Sherlock Holmes. E' evidente il talento di Manfredi per gli intrecci da feulleton e indiscutibilmente l'autore su trova a suo agio nella ricostruzione degli scenari e delle atmosfere d'epoca, a partire dai dialoghi del vissuto quotidiano. A rendere vivide e credibili le sue pagine, contribuiscono i tanti personaggi storici in cui ci imbattiamo, a partire da Giovanni Aldini, uno scienziato che davvero praticò studi sul galvanismo applicandoli alla cura dei pazienti con disturbi mentali.  Interessante introduzione di Carlo Bordoni (uno di quei rari casi in cui l'introduzione vale essa stessa una parte del prezzo del libro).






Liam Braley: Caccia Grossa
di Raffaele Della Monica 

(Severino Vetere Editore, Benevento, 2012)


Si tratta di un volume di 110 tavole a fumetti, di grande formato (più o meno un A4), scritto e disegnato da uno dei più apprezzati illustratori di Zagor, che ha però al suo attivo una carriera fatta di molte altre collaborazioni, tra cui Alan Ford e Tex, Gordon Link e Magico Vento, fino ad arrivare a Shangai Devil. Ricordo di aver scritto a Max Bunker, subito dopo aver letto "Superciukissimo" (l'albo che segnò il suo esordio come disegnatore alanfordiano), gridando al miracolo perché era il primo autore del dopo Magnus ad aver realizzato in modo convincente una storia del Gruppo TNT. E in seguito la verve e anche la voglia di sperimentare di Raffaele mi sorpresero ogni volta fino al suo abbandono della serie targata MBP. Oggi che Della Monica lavora con me a Zagor, posso vedere arrivare in redazione tutti i mesi le sue belle tavole, realizzate non solo con indiscutibile maestria e professionalità, ma anche con lo spirito del vero appassionato, quello che lo portò, molti anni fa, a far parte del gruppo di "Trumoon", una rivista salernitana che lanciò autori come Brindisi, De Angelis, Siniscalchi, De Nardo, Piccininno. Ed è proprio per passione, e in particolare per la passione per il western, che Raffaele ha lavorato alla storia di questo volume, realizzato mettendo da parte una vignetta oggi e una domani, in modo da dar sfogo anche al suo desiderio di poter essere, una volta tanto, anche lo sceneggiatore di uno dei suoi lavori. Alla fine, "Caccia grossa" è stato affidato a una piccola Casa editrice di Benevento, che lo ha anche distribuito in alcune edicole (ma non su tutto il territorio nazionale). Chi volesse, può richiederlo telefonando al numero: 081/5144809. Il prezzo di copertina è di 5,40 euro. Liam Braley, il protagonista del racconto, è un bounty hunter che però seleziona le sue prede: non gli interessa intascare una taglia, ma dar la caccia a dei bastardi che si meritano davvero la forca, la cui colpevolezza è certa e i cui crimini gridano vendetta. I ladri di cavalli, insomma, non gli interessano. In più, eroe del West atipico, non beve alcool e non fuma: l'unico vizio è masticare la liquirizia. A parte questo, la trama è quella di un western tradizionale, che finisce il più classico dei duelli fra il cacciatore di taglie (beffato più volte nel corso della storia, ma mai domo) e la sua preda più coriacea, un certo Kodey che ha la faccia di Lee Van Cliff. I disegni sono quelli che ci aspetta da Della Monica, perciò belli. Tuttavia, una cosa bisogna dirla anche se può sembrare che io parli quali Cicero pro domo mea. Ecco: un disegnatore è sicuramente in grado di fare a meno di uno sceneggiatore e scriversi i testi da solo (lo dimostrano mille esempi), ma avrà sempre e comunque bisogno di un buon editor e di un buon editore, intendendo con il primo termine colui che prima consiglia e poi supervisiona, corregge e mette a punto il lavoro; e con il secondo, qualcuno che investa in una buona stampa e in una cura editoriale degna di questo nome. Se Raffaele avesse potuto godere di una assistenza del genere, e fosse stato seguito durante la lavorazione, avremmo avuto un lettering migliore, qualche segno d'interpunzione in più e qualche aggiustatina nei dialoghi, qualche scena farraginosa in meno e qualche bella trovata valorizzata meglio. Insomma, anche un campione ha bisogno di un allenatore per essere più competitivo in gara.


 


Disegnare il vento - L'ultimo viaggio del Capitano Salgari
di Ernesto Ferrero 

(Einaudi, 2011)

Ho richiuso il libro con una lacrimuccia che non si decideva a scendere dalla coda dell'occhio, così che l'ho dovuta far scivolare giù io con il dito. Bello, intenso, commovente. Qualcuno potrebbe pensare che, per capire e gustare fino in fondo questo libro, si debba essere salgariani nell'animo. Invece no, perché poi quel che vi si racconta non è lo scrittore, "il padre degli eroi" (come qualcuno l'ha definito), ma l'uomo Emilio Salgari, con il suo carattere bizzarro, le sue piccole e grandi manie, il suo anticonformismo conservatore (un ossimoro soltanto apparente), le sue passioni patriottiche e filomonarchiche ma slegate dal grigiume degli intrallazzi politici e dunque ideali e irrealistiche, le sue mattane e le sue dolcezze, padre e marito affettuosissimo ma anche incapace di governare la famiglia e in fin dei conti imbrigliato in una trappola domestica, la sua voglia di vedersi riconosciuto come grande scrittore e l'indifferenza dell'establishment, da cui il sordo senso di rancore verso il resto del mondo editoriale, lo scontro fra la sua vita reale e quella fantasticata, e infine il senso di inadeguatezza al mondo che sta cambiando troppo velocemente. La fine di Salgari è, in fondo, quella che egli stesso riserva ai due sfortunati protagonisti di uno dei suoi romanzi "minori" ma più profetici, "Le meraviglie del Duemila", in cui fa il verso a Verne senza il sostegno del positivismo e pronostica un futuro in cui la vita va vissuta a ritmi insostenibili per chi è nato in un'altra epoca e vi viene proiettato senza esserne preparato (i due di cui sto parlando, nel finale del romanzo, impazziscono). A posteriori, molte fantasie salgariane sul Duemila si sono rivelare azzeccate, peraltro. Il romanzo di Ernesto Ferrero, scrittore di razza (che vive, peraltro, nel caseggiato di corso Casale dove Salgari ha abitato negli ultimi anni della sua vita), non è una biografia del Capitano. Almeno, non lo è in senso compiuto e analitico. E' un ritratto, costruito con frammenti e testimonianze, alcune vere (si citano, pur nella rielaborazione romanzesca, persone realmente esistite che davvero hanno conosciuto Salgari), alcune di invenzione, ma del tutto plausibili. In particolare è inventato, con felicità, il personaggio di Angiolina, una ragazza immaginata come vicina di casa dello scrittore, e sua affezionata lettrice, che lo aiuta scrivendo sotto dettatura alcuni capitoli dei suoi ultimi romanzi, dato che il Capitano si è fatto debole di vista. Una delle testimonianze è quella di Teresio Chiabotti, medico presso il Manicomio di Torino, là dove viene ricoverata, a un certo punto, Ida Salgari, detta Aida, la moglie di Emilio, che va a chiedere speranze al dottore che l'ha in cura. Chiabotti ricorda: "Avevo davanti l'uomo che aveva infiammato le mie letture giovanili. Potrei recitare a memoria le pagine che mi hanno esaltato. Mi piacerebbe trovare parole per descrivere l'aria di mare che, leggendo, ero convinto di inalare nei lunghi pomeriggi estivi, sotto gli ippocastani nella casa di mia nonna. I mari del Borneo dispiegavano ancora meglio i loro incantesimi nello sfondo scialbo della campagna. - Cavaliere, - ho detto - so per certo che lei è uomo coraggioso anche nelle evenienze spesso dolorose della vita, non solo sulle pagine avventurose che abbiamo amato. Io ho contratto con lei un debito di riconoscenza e di lealtà, anche se lei non può saperlo. Dunque sarò leale -". La lealtà impone al medico di non dare a Salgari false speranze. Pochi giorni dopo, il 22 aprile 1911, Emilio scrive sedici lettere e si va a suicidare, facendo seppuku come i samurai, in un bosco vicino a casa. Una lettere è rivolta ai figli: "Miei cari, sono ormai un vinto. La pazzia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie. Io spero che i milioni di miei ammiratori, che per tanti anni ho divertiti e istruiti, provvederanno a voi. Fatemi seppellire per carità, essendo completamente rovinato. Mantenetevi buoni e onesti e pensate appena potrete ad aiutare vostra madre. Vado a morire nella Valle San Martino, presso il luogo ove, quando abitavamo in via Guastalla, andavamo a fare colazione. Si troverà il mio cadavere in uno dei burroncelli che voi conoscete, perché ansavamo a raccogliere i fiori. Vi bacia tutti, col cuore sanguinante, il vostro disgraziatissimo padre, Emilio Salgari". Finite di scrivere le lettere, tra cui una, di fuoco, indirizzata agli editori da cui si sentiva sfruttato e derubato (loro divenuti ricchi con i suoi romanzi, lui vissuto in ristrettezze), il padre degli eroi spezza la penna e va a morire.