sabato 30 agosto 2014

IL PICCOLO SCRIVANO FIORENTINO


Ho parlato più volte, anche in questo spazio, della mia infanzia, dei miei sogni di bambino e di ragazzo, dei miei ingenui esercizi fatti scrivendo racconti e romanzetti, dei primi tentativi per riuscire a pubblicare qualcosa, degli articoli usciti su fantine e giornaletti parrocchiali. Ci sarebbe, ovviamente, tanto ancora da raccontare e alcuni aneddoti potrebbero persino essere divertenti. Però, adesso, vorrei ritornare con la memoria a quando, a un certo punto, rischiai di cominciare a lavorare come giornalista (e, se le cose fossero andate diversamente, magari oggi potrei addirittura fare un mestiere diverso).

Che io sia nato con la vocazione per la scrittura era stato chiaro a tutti fin dagli anni delle elementari. Guardare la dedica nella foto qua accanto: la mia maestra Adriana Palchetti, nel gennaio del 1972, regalò a tutti i suoi alunni un libro e sul frontespizio del mio scrisse: "al nostro piccolo 'grande' scrittore, con affetto". Evidentemente mi vedeva sempre con la penna in mano e il cervello in frenetica attività. I miei genitori, dal canto loro, mi esortavano continuamente perché uscissi di casa e andassi a giocare a pallone con gli altri ragazzi: io invece, imperterrito, passavo i pomeriggi battendo furiosamente sui tasti della macchina da scrivere che mi ero fatto comprare pregando e supplicando. Insomma, scrivere era il mestiere che volevo fare da grande.

Già, ma scrivere cosa? Non avevo ancora capito che si sarebbe trattato di fumetti, benché di fumetti ne leggessi in quantità, e immaginavo che avrei scritto romanzi, pur senza aver ben chiaro quali erano i meccanismi dell'editoria (e se lo avessi saputo, forse mi sarei scoraggiato). Ipotizzavo che avrei scritto commedie, dato che mi cimentavo nell'inventare sketch e scenette comiche che poi riuscivo persino a mettere in scena nel teatrino parrocchiale, con l'aiuto del parroco e delle pazientissime suore  dell'oratorio che frequentavo. Ma, a un certo punto, arrivai a sperare che magari sarei diventato giornalista. Fin quando non fui maggiorenne, non osai farmi avanti in nessuna direzione. Ma dopo i diciotto anni cercai una strada, e la trovai. A Firenze c'era la redazione locale del quotidiano "Avvenire". Un amico di poco più grande di me mi disse che cercavano qualcuno che scrivesse da Campi Bisenzio, il comune dove abitavo (ne vedete una bella immagine in alto). Dunque presi l'autobus e mi presentai. Venni ricevuto dal direttore, che parve ben disposto a lasciarmi provare: mi affidò l'incarico di andare a intervistare il sindaco della mia città, per farmi evidenziare le problematiche della comunità.

Presi appuntamento con il primo cittadino, che nel 1982 era una donna: Anna Maria Mancini. Ricordo che la segretaria mi chiese perché volessi parlarle e io, non so perché, non volli dirlo. Il sindaco mi ricevette lo stesso, molto perplessa. Si trovò davanti un giovanotto di diciannove anni armato di lapis e bloc notes. Spiegai il caso e lei accettò di rispondere alle mie domande. Tornato a casa elaborai un articolo e lo portai in redazione. Il pezzo venne pubblicato sul numero di venerdì 12 febbraio 1982, a pagina 12 di "Avvenire" edizione fiorentina, e la redazione lo intitolò "Campi, un comune senza disoccupati".  Non venni pagato. Inviai per posta il ritaglio alla signora Mancini, che mi rispose lodandomi, e scrivendo qualcosa del tipo "lei è riuscito a descrivere la realtà della nostra cittadina molto meglio di altri più navigati giornalisti".
Quelli di "Avvenire" avrebbero volto che portassi altri pezzi, ma il fatto è che mi si chiedevano proposte che riguardassero sempre Campi Bisenzio. Ecco, fu questo il punto: a me, questo tipo di collaborazione non interessava. Avrei voluto occuparmi di libri, di fumetti, di cinema, di costume, o magari anche di cronaca nera. Non è che rifiutai di proseguire: semplicemente, preso dagli studi universitari e dai testi che comunque scrivevo per le fantine fumettistiche, rimandai di giorno in giorno il proposito di tornare nella redazione del quotidiano e finii per non andarci più. In seguito, lo stesso comune di Campi diede vita a un suo settimanale, molto ben fatto, intitolato "Disegno Comune", e mi fu chiesto di curare una rubrica di fumetti che io volentieri portai avanti per alcuni anni.

Nel tempo, ho finito per scrivere comunque su giornali piuttosto importanti, sempre come free lance e su commissione: basterà dire che quando morì Giovanni Luigi Bonelli fui io a scrivere il pezzo in prima pagina de "Il Giornale". Ho pubblicato anche sul settimanale "Rinascita" e su "Libero". Non ho, fortunatamente, vincoli ideologici e dunque se c'è da parlare di fumetti qualunque direttore è autorizzato a contattarmi.

Oggi come oggi, se volessi ottenere il tesserino da pubblicista immagino che non avrei problemi: pubblico di continuo pezzi regolarmente pagati (per esempio, ogni settimana nelle introduzioni dello Zagor di Repubblica). Una volta divenuto pubblicista potrei tentare l'esame da giornalista. Ma, sinceramente, mi sembra una fatica inutile. Ho il mio lavoro e ne sono contento.  Se comunque, a questo punto, siete curiosi di leggere il mio primo articolo "importante", lo trovate qui di seguito. Tenete conto però che la realtà di Campi Bisenzio a distanza di trentadue anni è molto cambiata e, forse, oggi, qualche disoccupato purtroppo c'è. Però, in compenso, sono arrivate le scuole superiori.

AVVENIRE
Anno XV n. 23- Venerdì 12 Febbraio 1982

CAMPI, 
UN COMUNE SENZA DISOCCUPATI
di Moreno Burattini
Vedere il numero dei propri abitanti raddoppiare nel breve volgere di venti anni non è cosa usuale per una cittadina, specialmente dopo che l'Italia, nel suo insieme, ha raggiunto da tempo il livello di "crescita zero" della popolazione. Eppure, a Campi Bisenzio le cifre parlano chiaro: circa 18.000 abitanti nel 1961, più di 34.000 nel 1982. Uno sviluppo come quello che ha portato Campi dalla condizione di grosso paese al rango di piccola città, non può che essere interpretato come sintomo di buona salute: se alla forte immigrazione dal Sud si è unito in questi ultimi anni anche il crescente afflusso di famiglie da Firenze e dai Comuni vicini, significa che Campi è davvero una cittadina aperta, capace sia di sopperrire alla sempre maggior richiesta di quelle abitazioni che mancano viceversa in tutto il comprensorio, sia di offrire lavoro e strutture sociali efficienti ai nuovi venuti. Se infatti i dati ufficiali di cui il Municipio dispone, e che vengono direttamente dall'Ufficio di Collocamento, sono attendibili, la disoccupazione non rappresenta per Campi un problema preoccupante.
SENZA DISOCCUPATI
Del resto il territorio comunale brulica di una miriade di imprese artigiane di piccole, medie ed anche grosse dimensioni, alle quali si aggiungono complessi industriali che vanno dalla piccola tintoria di filati fino alle nuove, grandi Officine Galileo; e quell'antica tradizione contadina e pastorale che il nome stesso, "Campi", lascia intendere, sembra scomparsa o, perlomeno, limitata agli orticelli dietro la casa. Una così rapida e brillante crescita ha portato però con sé, altrettanto rapidamente, anche problemi nuovi e talora angoscianti, dei quali quello del traffico è forse il meno preoccupante. Per esso si intravede comunque la soluzione dalla tanto attesa Circonvallazione Nord, da anni in costruzione, che dovrebbe consentire agli automobilisti  di raggiungere Prato e Firenze evitando il caotico  centro cittadino ed il malandato ponte rinascimentale, ormai incapaci  di smaltire il moltiplicato numero di autoveicoli che l'insediamento urbano di Campi e la sua particolare posizione comportano. L'opera è in fase di avanzata costruzione- compiuta per buoni tre quarti- ma i lavori sono attualmente fermi. "Problemi derivati dall'esportazione dei terreni interessati", spiega il sindaco Anna Maria Mancini.
IL PRG VA RIVISTO
Il continuo sviluppo della città non crea soltanto problemi di traffico: è richiesto un continuo lavoro di urbanizzazione reso oltremodo difficoltoso dalla mancanza di infrastrutture adeguate, mentre il piano regolatore generale deve essere ancora rivisto. Come se non bastassero, si aggiungono a queste le preoccupazioni destate dall'elevato grado di inquinamento raggiunto dall'area campigiana. Non solo il fiume Bisenzio e praticamente tutti i corsi d'acqua del Comune sono inquinati in maniera assai grave, ma anche l'atmosfera comincia a darne i primi, allarmanti sintomi.
 E la scuola? Mentre la tendenza media italiana tende a far abbassare il numero dei bambini, a Campi si sta verificando il fenomeno inverso. Di pari passo con l'incremento demografico è aumentata infatti anche la popolazione scolastica, al punto da rendere assolutamente insufficienti le aule e le strutture didattiche esistenti nel Comune. Verso la metà dello scorso decennio la situazione è divenuta insostenibile, e si sono resi necessari notevoli sforzi da parte dell'Amministrazione Comunale, che, a causa delle risapute e sperimentate deficienze della legge 641 sui finanziamenti pubblici pe gli edifici scolastici, si è accollata le spese per la costruzione di nuove scuole e la ristrutturazione di quelle già esistenti. Ai ragazzi di Campi la città offre asili, scuole elementati e medie, una biblioteca ben fornita, un fiorire di interessanti iniziative, ma neppure una scuola secondaria superiore. Il Sindaco ammette che la mancanza è fortemente sentita dagli studenti campigiani. La realtà economica della città, inoltre, è tale da consentire una notevole richiesta di tecnici e di periti, per cui un istituto professionale campigiano potrebbe offire numerosi sbocchi nel mondo del lavoro ai giovani della zona. Le decisioni circa l'installazione di nuove scuole è però della Provincia, ci ricorda la signora Mancini, presso la quale l'Amministrazione Comunale sta da tempo perorando la causa. Il Sindaco fa notare, inoltre, come Campi appartenga al distretto scolastico che fa capo a Sesto Fiorentino, centro a cui la città dovrebbe fare riferimento, ma col quale mancano i collegamenti tramviari, per cui è inevitabile il ricorso agli istituti fiorentini e pratesi da parte degli studenti campigiani.
TRASPORTO POCO EFFICIENTE
Non si può comunque dire che i servizi di trasporto verso Prato e Firenze siamo molto più efficienti. Campi è collegata con le due città così come lo era decine di anni fa, senza che i competenti abbiano mai tenuto conto delle accresciute esigenze della popolazione. Passando ad esaminare la gravità delle piaghe sociali così diffuse nella società moderna, a Campi non si registrano, fortunatamente, fenomeni preoccupanti di emarginazione. Gli immigrati non vengono ghettizzati, e non si devono segnalare episodi di repulsione tali da suscitare allarme. In alcuni casi si è dovuto assistere alcune famiglie cercando di inserirle nel tessuto sociale, in altri si è intervenuti presso diversi bambini che avevano problemi quali l'apprendimento della lingua. Di ben altra portata e gravità restano i problemi della droga e della violenza, scoppiati improvvisamente negli ultimi anni, sorprendendo, disturbando ed angosciando una cittadina da sempre tranquilla. In Dicembre l'Amministrazione Comunale e tutte le forse politiche locali si sono riunite discutendo il problema dell'ordine pubblico e rilevando l'urgenza di un pronto intervento per debellare non soltanto le forme di criminalità organizzata (a volte anche di stampo mafioso), ma anche pericolose forme di violenza più cruda e spicciola come gli atti di teppismo dovuti all'imperversare di bande di giovani. Il dramma della droga, poi, che fino a poco tempo fa poteva non interessare che relativamente le famiglie campigiane, adesso è esploso mostrandosi in tutta la sua gravità, e sempre di più sono i giovani che ne rimangono vittime. Piaghe sociali del genere non possono essere affrontate solo dalle forze politiche, e per questo tutte le associazioni e i circoli del Comune sono stati invitati ad attività di cultura e di sana ricreazione, per richiamare ed interessare i gioveni, per accoglierli ed impegnarli offrendo loro la possibilità di agire ed esprimersi lontano dalle suggestioni e dalle chimere della droga e della violenza.


martedì 26 agosto 2014

CICO CONQUISTADOR






E' in edicola l'ottavo numero della ristampa a colori degli albi di Cico, pubblicata dalle Edizioni If. La collana, ottimamente confezionata, ha prima riproposto i cinque episodi realizzati tra il 1979 e il 1983 da Guido Nolitta e Gallieno Ferri, poi è passata all'unico albo realizzato da Tiziano Sclavi, "Horror Cico", del 1990, quindi è arrivata a ripubblicare le mie prime storie. Due mesi fa era stata la volta di "Cico Trapper", adesso tocca a "Cico Conquistador". Ho già spiegato come io consideri (a torto o a ragione) i miei diciannove speciali dedicati al messicano più simpatico del mondo tra le cose migliori che abbia mai fatto, e già parlando del titolo precedente ho dimostrato quanto sforzo di elaborazione e di documentazione ci fosse dietro a storie apparentemente semplici e nate solo per far ridere (cosa, peraltro, estremamente difficile, soprattutto per chi dovesse, come io dovevo, passare il vaglio severissimo di Sergio Bonelli - un argomento, questo, che ho approfondito nell'articolo precedente).

In "Cico Conquistador" la sfida era mettere in parodia drammatici eventi storici,  personaggi realmente vissuti e reali usi e costumi aztechi. Per realizzare il racconto , sia io che Francesco Gamba ci siano documentati moltissimo, e l'albo è infarcito di riferimenti (a volte invisibili ai più) a testi storici come quello di William Prescott, il classicissimo "La conquista del Messico". Il più grosso difetto di questo speciale, che pure è stato apprezzato da molti, è forse proprio quello di seguire troppo da vicino la realtà dei fatti a discapito della libera invenzione. Ricordo le critiche in tal senso sia di Decio Canzio che di Sergio  Bonelli appunto perché, a loro avviso, il racconto finiva per essere troppo didascalico. Invece, Francesco Coniglio, che mi telefonò appena uscito, se ne dichiarò entusiasta.  

Cortés a Tenochtitlan 
"Cico conquistador" uscì per la prima volta nell'estate del 1992, in occasione delle celebrazioni del cinquecentenario della scoperta dell'America. Nel medesimo anno apparve in edicola anche uno Speciale Zagor a mia firma (illustrato a Gallieno Ferri), intitolato “Il segreto di Cristoforo Colombo” e realizzato proprio per quegli stessi festeggiamenti.  Tutti e due i “fuori serie” estivi dello Spirito con la Scure, insomma, celebrarono l’avvenimento rifacendosi a precisi fatti storici (ci fu anche una storia di Martin Mystère dal titolo "La quarta caravella", ma fui lieto di aver battuto Alfredo Castelli, sempre molto attento a queste ricorrenze, due a uno). Per la prima volta negli albi di Cico, il  protagonista del racconto non è il buffo pancione, ma un suo antenato giunto in Messico al seguito di Hernan Cortés, detto il “Conquistador”.  L’idea mi venne in mente pensando alla frequenza con cui il nostro paffuto eroe ricorda i suoi avi conquistadores: perché, mi chiesi, non raccontare appunto di un tris-tris-trisavolo aggregato alla spedizione spagnola che sottomise l’impero azteco?

"La conquista del Messico" è un saggio che  risale alla fine dell'Ottocento, ma è ancora oggi validissimo: si sono scoperte nuove carte e nuovi documenti, ma non si è aggiunto nulla di inedito alle notizie sull'impresa di Cortés che il Prescott aveva dato. Per di più, Prescott scrive con uno stile accattivante e piacevolissimo, e la descrizione della conquista dell'impero azteco così come lui la fornisce è molto gradevole e interessante da seguire. Quasi tutte le parole messe in bocca a Cortés durante le sequenze didascaliche o basate su fatti storici sono quelle che il capo dei conquistadores pronunciò davvero. Per esempio, è più o meno esatto il discorso fatto da Cortés quando pose la prima pietra di Veracruz. E' più o meno esatto il suo commento davanti allo scudo d'oro grande come una ruota di carrozza e raffigurante il sole che gli venne inviato da Montezuma insieme a una ambasceria ("Varrà almeno ventimila pesos!"). 

Tenochtitlan prima della distruzione: "una delle città più belle del mondo"
Dopo la distruzione della capitale Tenochtitlan, Cortés si dispiacque davvero di aver raso al suolo "una delle più belle città del mondo". Un altro particolare corrispondente a verità è il fatto che Cortés fosse pieno di cicatrici in seguito a duelli fatti con mariti, fidanzati o fratelli di donne da lui sedotte o insidiate, dato che il prode Hernan era un grande amatore. Sono storiche le figure del governatore di Cuba Velasquez e soprattutto quella di Malinche, la bellissima azteca amante di Cortés che gli faceva da interprete (venne ribattezzata dagli spagnoli "donna Marina" e diede a Hernan due figli). E' storica anche la figura di Melchorejo, altro indigeno interprete dei conquistadores.

Cortés e Malinche

Poiché la lingua degli aztechi, il nauhatl, è ancora oggi parlato in Messico e in altri stati del centro America, ho cercato di usare vere parole nauhatl quando qualcuno parla in quella lingua. Non si tratta di discorsi in lingua con senso compiuto, ma i vocaboli sono reali.  In particolare, sono vere parolacce nauhatl certe imprecazioni messe in bocca a certi personaggi aztechi.
  
L'incontro fra Cortés e Montezuma (accanto al Conquistador, Malinche)

L'arazzo di piume (la tessitura delle piume era un'arte in cui eccellevano gli aztechi, esattamente come si dice nell'albo) che si vede a un certo punto nell'albo, e che Cico distrugge con uno starnuto, esiste veramente: è conservato in un museo di Vienna e rappresenta un lupo. E' un cimelio che ci è stato tramandato dei doni realmente fatti da Montezuma a Cortés nel corso delle varie ambascerie fatte mentre i conquistadores si avvicinavano a Tenochtitlan e Montezuma non sapeva che pesci prendere (si chiedeva se gli spagnoli erano uomini o dei, proprio come lo si vede fare nell'albo: poi vede Cico e capisce che non possono essere divinità!). 

Ancora una interpretazione della stessa scena
Un altro libro fonte di grande ispirazione è stato "L'Azteco", di Gary Jennings. Si tratta di un romanzone di storico di più di mille pagine, ma che si legge tutto d'un fiato perché è molto avvicente. Racconta l'impresa dei conquistadores vista con gli occhi di un azteco, tale Mixtli, dignitario della corte di Montezuma. Tutte le curiosità della vita a Tenochtitlan sono tratte da lì (per esempio, che i semi di cacao erano usati come moneta, e che gli abitanti della capitale andavano matti per la neve mangiata come fosse un gelato, o che dormivano sulle stuoie e non sui letti, o che le donne strabiche erano considerate belle).

Rileggendolo a distanza di ventidue anni ho notato alcuni interventi del mio supervisore di allora, Renato Queirolo (credo sia sua la rielaborazione di una gag in cui Cico vestito da donna combina involontariamente dei disastri a danno di miss Oldmaid, spruzzandole profumo negli occhi e facendola scivolare sulla crema per le mani: avevo immaginato la faccenda in modo un po' diverso). In ogni caso, mi sono divertito e credo che la lettura, oltre a strappare qualche sorriso, possa insegnare perfino qualcosa.

venerdì 22 agosto 2014

IL SECONDO TERZO GRADO


Per quasi dieci anni ho risposto alle domande di un "filo diretto" sul forum zagoriano SCLS (esiste comunque una rubrica analoga anche sul forum degli amici di ZTN), fornendo notizie e anticipazioni riguardanti lo Spirito con la Scure, oppure esprimendo il mio punto di vista su qualche questione attinente al tema. Confesso di essere stato un po' latitante in quello spazio negli ultimi mesi, soprattutto per mancanza di tempo, ma il blog, Facebook e Twitter mi hanno comunque permesso di dare tutte le informazioni del caso.
Dato che alcune delle risposte fornite in passato continuano ad avere un qualche interesse ancor oggi, ho raccolto in questo post quel che mi è capitato di scrivere nei mesi di marzo e di aprile del 2004, dopo che qualche tempo fa ho fatto lo stesso per quelli di gennaio e febbraio dello stesso anno.  Le mie parole vanno, ovviamente, contestualizzate in quel periodo: Sergio Bonelli era ancora vivo, io non era ancora ufficialmente il curatore della testata, eccetera. Tuttavia, rileggerle a distanza di nove anni risulta stimolante. Ogni tanto, cercherò di raccogliere in altri articoli come questo le dichiarazioni del passato.


FILO DIRETTO CON MORENO BURATTINI
Marzo - Aprile 2004


Per mantenere in vita Zagor è sempre più necessario organizzare viaggi, immettere nella collana nuovi personaggi che diano forti scossoni (nuovi supernemici, tipo Mortimer, Nat Murdo, Wendigo), insomma ripartire sempre come nel 1994 e questo farlo sempre più frequentemente, riducendo i tempi di stasi a Darkwood. Questo però mi preoccupa molto perché costringe te, Mauro Boselli e gli altri a fare un lavoro sovrumano che diventerà presto quasi impossibile. Forse è il prezzo da pagare per un personaggio meraviglioso che sta vivendo troppo a lungo (io spero che non muoia mai). E' difficile tenerlo in vita con storie avvincenti?

Credo che oggi sia difficile sempre e comunque scrivere storie in grado di far breccia nel cuore dei lettori, e non solo quelli zagoriani. Per qualunque personaggio è così: storie di "ordinaria amminstrazione" che andavano benissimo una volta oggi sarebbero giudicate noiose, o banali. Credo che lo stesso valga anche per la fiction televisiva, per i romanzi, per il cinema. Tuttavia, chiunque scriva sa di dover cercare sempre nuove idee o nuovi stratagemmi per catturare l'interesse del pubblico, e siccome questo è il nostro lavoro cerchiamo di farlo, tenendoci al passo con i tempi ma, contemporaneamente, rispettando la tradizione. Ora, una cosa che vorrei far notare a tutti è come su Zagor ci sia una incredibile varietà di situazioni e di generi. Negli ultimi anni abbiamo visto Zagor lottare contro un drago, risolvere un giallo alla Agatha Christie in un castello, scongiurare una guerra indiana, arrestare dei naufragatori di navi, lottare contro dei Thugs e una terribile strega, andare in un'altra dimensione dove il tempo si è fermato, assistere alle incredibili trasformazioni di uomini in bestie, affrontare dei cangaceiros, venire assalito da insetti assassini, fare amicizia con un alieno, sventare i piani del Tessitore facendo il gioco di Mortimer... insomma, un'idea dopo l'altra, sempre diversa, e so già che la stessa varietà di temi, di situazioni, di personaggi ci sarà anche nei prossimi anni. Credo che pochi lettori, oltre a quelli di Zagor, abbiano la fortuna di godersi uno spettacolo così imprevedibile e variegato. Riusciremo, noi autori (non necessariamente io) a tirare fuori dal cilindro idee sempre nuove? E a raccontarle nel modo giusto? Me lo auguro. Non resta che stare a guardare. Per ora, vi assicuro che in un modo o nell'altro, per miracolo o con fatica, le storie arrivano. Poi, il futuro è un'ipotesi. Continuate a leggere.


Ormai le storie ambientate a Darkwood sono periodi di transizione, non paragonabili al livello di quelle dei viaggi. Possibile che a Darkwood (ritorni eccellenti a parte) ormai ci siano solo avventure senza "picchi"?

Sono perplesso di fronte alla definizione "periodo di transizione". Di solito, non scrivo e non scriviamo storie con l'idea che siano destinate a un "periodo di transizione", che siano "minori", che siano fill in. Scrivo e scriviamo convinti di scrivere cose comunque buone, sperando che piacciano ai lettori. Allo stesso modo, scrivendo storie con ritorni di vecchi nemici o vecchi amici, o storie di viaggi, nessuno sceneggiatore può essere certo di stare scrivendo un capolavoro. Tant'è vero che spesso i "ritorni" deludono. Io non credo nemmeno che a Darkwood non si possa più ambientare nessuna storia perché si è già raccontato tutto. Proprio non ci credo. Secondo me, i periodi di transizione non esistono. Su Tex, allora? Le storie sono molto più sullo stesso livello, e se può essere un evento il ritorno di Mefisto o l'albo a colori, tutto il resto va considerato di "transizione"? La verità è che le storie dei ritorni e dei viaggi possono essere brutte e le storie "normali" a Darkwood possono essere molto belle. Quando scriviamo, speriamo sempre che le nostre storie, una volta disegnate, siano bellissime. Poi, i giudizio spetta ai lettori. E la verità ultima e assoluta è che nessuna storia piace a tutti. Leggo sempre giudizi così disparati e discordanti sulla stessa storia, che fatico a capire che cosa vogliano i lettori. C'è chi vorrebbe sempre storie ambientate a Darkwood, chi solo racconti western. chi dice di aver smesso di leggere Zagor deluso da una trasferta o da un ritorno eccellente. Ogni storia è e deve essere un caso a parte e non appartenere a una categoria, sarà bella o brutta perché così sembra a chi la legge. Del resto la realtà non esiste ma esiste solo la percezione che ne abbiamo.

Quando inserite elementi magici e arcani vi ispirate a leggende indiane o vi affidate solo alla fantasia?

Ogni storia fa testo a sé. A volte c'è alla base una vera leggenda indiana (come quella raccontata, per esempio, all'inizio dell' "Ombra Sul Sole"), o qualche autentico elemento della spiritualitα pellerossa (come in "Darkwood Anno Zero"), più spesso si inventa ciò che ci serve, sempre però tenendo presente il contesto antropologico-culturale (cioè non si possono attribuire ai pellerossa usanze o credenze estrane alla loro tradizione).

Quello che è sicuramente indispensabile nelle trasferte (dare un ordine cronologico alle varie storie che le compongono) non lo è per le avventure ambientate a Darkwood e questo crea inevitabilmente nei lettori il (falso) sentore della "transitorietà" delle storie darkwoodiane. Non è possibile creare una continuity anche a Darkwood?

Ci sono tre problemi. Il primo è che la concatenazione fra le storie richiede un grosso lavoro di organizzazione e di coordinamento a livello di realizzazione delle medesime, per cui dovremmo sempre sapere ogni singola storia in che punto esatto della concatenazione andrà inserita (come se gli anelli di una catena fossero numerati e non intercambiabli). Siccome la lavorazione delle storie richiede a volte un anno, a volte due, a volte tre, e siccome in un così lungo arco di tempo possono succede intoppi, imprevisti, malattie, basta poco perché la concatenazone venga mandata a carte quarantotto. Per non parlare poi delle storie ghα giacenti, tutte scollegate fra loro. Poi c'è il problema che la tradizione zagoriana è comunque basata al novanta per cento sulle storie "scollegate" fra di loro. Dobbiamo cambiare improvvisamente una impostazione vecchia di quarant'anni? E infine: non tutti i lettori sono aficionados come noi. Ce ne sono di quelli che apprezzano la "non concatenazione" che permette loro di distrarsi e saltare anche una storia, riuscendo comunque a capire cosa succede quando riprendono.

E' possibile aspettarsi una storia in cui zagor non c'è quasi del tutto (perché rapito o altro), e in cui protagonisti sono suoi amici... ad esempio una storia di due/tre albi in cui Tonka e cico o altri cercano zagor rapito da qualche losco figuro.

A me personalmente l'idea non dispiace, e del resto, cercando di esplorare l'esplorabile io stesso a volte ho pensato a storie del tipo che Zagor viene trasferito per magia nel corpo di un altro o perde la memoria e non si comporta più da Zagor, ma poi ho sempre accantonato l'ipotesi e temo che si tratti di espedienti non praticabili perché Zagor non è Ken Parker. Abbiamo avuto storie di Ken in cui Lungo Fucile compare solo nelle ultime trenta pagine ("Adah") o non c'è del tutto ("Le avventure di Teddy Parker"). In Zagor queste sperimentazioni non sono possibili perché si tratta di un eroe di stampo più tradizionale e i lettori se comprano un albo dello Spirito con la Scure si aspettano di trovare avventure dello Spirito con la Scure. Sergio Bonelli sembra particolarmente convinto di ciò, al punto da contestare sempre le storie in cui Zagor tarda a entrare in scena (se compare dopo pagina 20, non va bene) o quegli albi in cui lo Spirito con la Scure è presente in un numero di pagine non abbastanza alto. Si temono forse le proteste di quei lettori che si sentono deufradati se acquistano un albo, cominciano a leggerlo e a pagina dieci ancora l'eroe non c'è. Il che è plausibile. L'eroe deve essere l'eroe, presente e riconoscibile e in quanto tale rassicurante.

Perché quando Zagor dialoga con qualcuno che ricopre qualche carica (sceriffo, ufficiale o simili), dà rispettosamente del "voi" mentre quelli gli danno regolarmente del "tu"?

Credo di aver ereditato la tendenza di Zagor a dare del voi alle persone con una carica o un titolo di studio (se non gli sono proprio intime) dalla tradizione risalente a Nolitta. Si potrebbe disquisire a lungo sul perché negli albi Bonelli (tranne Julia) si usa il "voi" anziché il "lei", ma limitandoci a Zagor mi pare che lo Spirito con la Scure abbia da un lato rispetto, dall'altro voglia di mantenere comunque le distanze (e dunque la propria indipendenza), nei confronti di sceriffi, ufficiali e professori. Se gli altri gli danno del tu, lui si tiene sobriamente sul voi. Zagor non  è  un ribelle a priori contro l'autorità costituita, ritiene che la legge serva e serva chi la fa rispettare, ma se c'è un suo assenso verso le istituzioni in quanto punto di riferimento in terre di frontiera dove rischia di vigere, altrimenti, la legge del più forte, bisogna poi vedere chi queste istituzioni fisicamente  rappresenta.

Perché mentre parlano con Zagor, sceriffi e ufficiali dell'esercito si accendono sempre un sigaro o una sigaretta? Ma a Darkwood sono tutti tabagisti?

Riguardo al tabacco, io non fumo e non ho mai fumato e il fumo mi dà fastidio, ma so di per certo che le campagne contro la nicotina sono cosa recente e che nel West (come in Italia fino agli anni Cinquanta o Sessanta) tutti fumavano senza porsi il minimo problema. Se vogliamo ricostruire un clima d'epoca, una scenografia realistica, far fumare la gente è il minimo. Peraltro, i gesti dell'accensione dei sigari, dello spengimento del fiammifero, del soffiare il fumo, del tenere la sigaretta fra le dita, sono belli da disegnare e vivacizzano le vignette dove se no tutti parlerebbero con le mani ferme. Immagino che se c'è gente che parla, nel West fosse normali che fumassero e bevessero, e così come facciamo gli abiti ottocenteschi addosso ai personaggi dobbiamo anche mettere quelle sigarette che di sicuro c'erano nelle loro bocche e nelle loro mani, senza che questo significhi una istigazione al tabagismo (come mettere al fianco di Zagor una pistola non significa una istigazione all'uso delle armi). Peraltro, Zagor non fuma, a differenza di Tex, e questo mi pare giα un vantaggio dal punto di vista del salutismo.

Ho iniziato a leggete il romanzo "I delitti del Mondo Nuovo" di Leonardo Gori. Nella pagina introduttiva dedicata principalmente ai ringraziamenti ho letto con sorpresa il tuo nome "per la storia della Montagna Pistoiese". Puoi dirmi qualcosa di più riguardo l'aiuto/collaborazione data all'autore?

Troverai il mio nome anche all'interno, dato a una comparsa (un montanaro di cui si parla in un passaggio). E se leggerai con attenzione una storia di Zagor da me scritta in cui si parla di malaria e di chinino, "La terra della libertà", troverai un personaggio che si chiama Gary Leonard, cioè appunto Leonardo Gori. Questo perché Gori, di cui sono amico di vecchia data (è un grandissimo esperto di fumetti), mi aveva fornito la consulenza medica per quel racconto (lui è un farmacista, per la precisione, e si intende di chinino) Nel caso dei "Delitti del Nuovo Mondo", poiché la trama porta molti dei personaggi, e soprattutto il Granduca di Toscana Pietro Leopoldo, su per le strade e i sentieri della Montagna Pistoiese dove io sono nato e che conosco bene, ho fornito a Leonardo libri, documentazione, dritte e consigli sulla topografia dei luoghi.

So che a volte Sergio Bonelli cancella qualche battuta dalle tue storie per Cico. Perché? Ce ne puoi dire qualcuna?

E' un argomento delicato. Cico è un personaggio a cui Sergio tiene parecchio e che controlla e corregge vignetta per vignetta, intervenendo molto di più, credo, di quanto intervenga su altre testate magari più importanti. Sergio, peraltro, è uno straordinario umorista e dunque è difficile, se non impossibile, competere con lui scrivendo Cico. Come se non bastasse, l'umorismo in sé è un terreno minato, perché non tutti ridono per le stesse cose, e se una cosa che dovrebbe far ridere non fa ridere lo si vede subito: non si ride punto e basta. Personalmente credo di essere uno che ride tanto e di un po' di tutto, per cui mi raggomitolo dalle risate di fronte ai film di Stanio e Ollio come davanti a quelli di Roberto Benigni, e leggo volentieri Achille Campanile come Paolo Villaggio, Stefano Benni come Daniele Luttazzi. Non tutti però sono di gusti così facili come i miei, e Sergio è severo riguardo a ciò che, secondo lui, non è cichiano o peggio non fa ridere (è ovvio che quello che su cui lui interviene fa ridere me, ma io non conto: Cico è un suo personaggio). Dopo quasi venti speciali scritti, ho cominciato a censurarmi da solo, preventivamente, perché capisco da solo che scrivendo sketch e gag di un certo tipo o su un determinato argomento non lo accontenterò. Questo però preclude un sacco di possibilità e alla fine è difficile inventare cose nuove, ma inventare cose nuove è il mio lavoro e cerco di farlo comunque come so e come posso.
Per tornare alle battute bocciate in corso di realizzazione dei vari Cico, sono così tante che tutte le non ricordo neppure. E se sono state bocciate, probabilmente è perché non erano buone. Per cui, meglio averle dimenticate. Una, comunque, l'avevo scritta per "Cico Cowboy".
Dunque, il pancione é stato assunto come cowboy ma non ha un cavallo. Il soprastante del ranch allora invita alcuni uomini a condurre Cico nella stalla e a dargli un quadrupede. Uno dei cowboy dice a Cico:
- Seguici alle scuderie e ti daremo un pezzato! ...Anzi, un baio!
E Cico:
- No, no... me ne basta uno. 

Il ruolo di Cico nelle storie di Zagor mi sembra sempre più secondario. Come mai? 

Il mio amore per il messicano non è evidente fin dalla mia prima avventura zagoriana con la lunga gag d'altri tempi di "Cico Rubacuori" e ho sceneggiato addirittura una ventina di Speciali di 128 tavole ciascuno tutti dedicati al pancione, per cui sono probabilmente lo sceneggiatore che ha scritto più gag di Cico di tutti (anche più di Nolitta). Se fosse dipeso solo da me avrei cominciato tutte le storie di Zagor della serie regolare con dieci, venti o trenta pagine dedicate al messicano (e a volte l'ho fatto, basti pensare all'inizio di "Tragedia a Siver Town" o del "Sangue dei Cheyenne"), ma fui subito bloccato da Renato Queirolo che impose la regola degli inizi serrati che entravano subito in medias res, e poi questa consuetudine fu mantenuta anche in seguito. I ritmi di oggi sono diversi da quelli dei tempi di Nolitta e che anche la commistione fra dramma e umorismo che a lui riusciva così bene è difficile da gestire in tempi di cupo post-moderno. 


In quasi tutte le altre testate bonelliane, uno disegnatore è libero di non "rispettare" la regola delle tre strisce a tavola, in molte delle tavole di ogni albo. In Zagor e Tex questo non succede. Perché?

Zagor e Tex sono gli unici due personaggi ancora in edicola nati non per la pubblicazione sull' albo bonelliano così come lo si conosce oggi, ma per la pubblicazione sugli albetti a striscia. Questo significa che quando iniziarono a essere stampati gli albi del formato odierno si trattò di ristampe di storie già apparse nel vecchio formato. Tutti i primi settanta albi di Zagor (salvo alcuni inserti) sono ristampe di storie a striscia. Questo ha creato una "tradizione" di impostazione della tavola, o di gabbia, che è rimasta tale anche quando in tempi più recenti l'esempio di altri fumetti (francesi, americani o latino/americani) ha portato il pubblico ad accettare, e a volte addirittura gradire o pretendere, strutture meno rigide. Ma mentre personaggi come Nathan Never o Dylan Dog, nati in tempi recenti, hanno fin dall'inizio sperimentato gabbie diverse da quelle su tre strisce e dunque hanno una tradizione in questo senso, Tex e Zagor si sono sempre mantenuti fedeli alla vecchia impostazione, che corrisponde peraltro al loro modo più classico di concepire e rappresentare l'avventura. La forma è collegata, dunque, in qualche modo, alla sostanza. La semantica e la semiotica vanno a braccetto. Faccio notare che Julia, un personaggio molto più recente di Zagor, ha una "gabbia" più rigida della nostra, segno che non è detto che la rigidità di impostazione sia necessariamente segno di calcificazione e sclerosi. Nessun grande autore ha mai avuto la minima difficoltà a dimostrare la sua grandezza negli spazi delle tre strisce.


Mi sembra che tu abbia detto che ogni tanto alcuni tuoi soggetti vengano bocciati  (e quindi noi lettori non le vedremo mai). Vorrei sapere: 1) che fine fanno? 2) che percentuale del tuo lavoro effettivamente vediamo?

In effetti vengono bocciati (a me come a tutti) molti soggetti. In passato l'ecatombe era costante e dolorosa: presentavo cinque soggetti e ne passava uno. Non erano bocciati direttamente da Bonelli ma dai supervisori, o Queirolo o Boselli, che cercavano comunque, giustamente, sulla base della loro esperienza, di prevenire le obiezioni che avrebbero fatto Canzio o Bonelli. In alcuni casi, comunque, anche Sergio o Decio hanno bocciato certe mie proposte quando, per qualche motivo, le hanno esaminate preventivamente. Oggi la bocciatura è meno dolorosa perché, grazie al fatto che lavoro in redazione, parlo prima a voce delle idee che ho oppure faccio soggetti stringati molto essenziali: se anche vengono bocciati, almeno non ci ho lavorato sopra troppo. Naturalmente lavoro poi sulle idee approvate. Credo che un soggetto approvato su cinque presentati sia la media giusta. Di solito, ogni autore dice sempre che vengono bocciate le idee migliori e passano le peggiori. Probabilmente non è così, visto che nessun autore è il miglior giudice del proprio lavoro, ma questa è l'impressione che ha il soggettista sotto esame. Che fine fanno i soggetti bocciati? Nella maggior parte dei casi, finiscono in una cartelletta con su scritto: soggetti bocciati, e restano lì solo perché nessun autore ha il coraggio di gettarli via (io ho almeno una cinquantina di soggetti scartati su cui piango ogni tanto, e altri invece che se li rileggo piango pensando a come ho potuto scrivere scemenze del genere e avere il coraggio di presentarle). In qualche altro caso, dopo un po' di tempo vengono in mente correzioni che possono risolvere le aporie riscontrate dal supervisore o migliorare la storia e si ripresentano (con delle significative varianti). In altri casi, diventano altre cose, tipo "Le mura di Jericho", soggetto scartato che è stato trasformato in romanzo.

Volevo chiederti sulla genesi del personaggio Mortimer, e sono molto curioso di sapere se hai già une mezza idea sul suo prossimo utilizzo...

Con Mortimer mi é successo quello che sapevo succedere in certi casi dai racconti di altri sceneggiatori, ma che non mi era mai capitato di sperimentare di persona (adesso posso confermare che é vero): é un personaggio che si scrive da solo le avventure, vive di vita propria, non sono io che lo faccio parlare ma é lui che parla e io devo solo trascrivere. A metα della prima storia avevo giα capito che avevo a che fare con una "creatura" assolutamente particolare. Com'é nato? Mi era capitato di leggere un libro straordinario, dal titolo "La grande rapina al treno", di Michael Crichton (un romanzo assai meno noto degli altri dello stesso autore, come "Jurassic Park", "Sfera" o "Timeline"). Pensai subito che potevo trarne uno spunto per una storia di Zagor. Nel romanzo di Crichton, peraltro ispirato a una storia vera, il protagonista è  però un ladro di genio e l'autore ci porta a "tifare" per lui, mentre io avevo l'esigenza di trasformarlo in un "cattivo" in quanto il "buono" doveva essere Zagor. Perciò, in Mortimer non c'é poi rimasto molto dell'Edward Pierce, protagonista del romanzo di Crichton. Ma lo spunto viene da lui (e si tratta di un personaggio storico). Pensando a un genio del crimine "cattivo", mi è venuto in mente senza troppo sforzo il Sordo, vale a dire il nemico più celebre dell'Ottantasettesimo Distretto nei romanzi di Ed McBain. Come il Sordo, Mortimer ama storpiare il proprio nome quando me inventa di falsi. Ma anche del Sordo, poi, c'è rimasto poco. Ho pensato anche a Diabolik, ed ecco Sybil Kant (citazione che è stata apprezzata dai redattori della Gazzetta di Clerville, la rivista del Diabolik Club, che hanno dedicato a Mortimer un dossier). Dunque Mortimer nasce dalle suggestioni di Edward Pierce, il Sordo e Diabolik anche se poi comincia subito a fare di testa sua fino a trasformarsi in un personaggio "zagoriano" anche se si confronta con lo Spirito con la Scure in un modo del tutto diverso da quello degli altri avversari: nella prima storia, addirittura, Zagor non lo vede mai. Circa il ritorno, ho una mezza idea ma aspetto che sia lui a tornare da Caraibi e a raccontarmi quello che ha in mente.

Ecco un elenco di sceneggiatori zagoriani: Nolitta, G.L. Bonelli, Castelli, Canzio, Sclavi, Toninelli, Capone, Russo, Colombo e Boselli.  Qual è la caratteristica nel modo di scrivere che ammiri di più e quale invece la cosa che, da lettore prima che da autore, ti piace di meno?

Parlo da semplice lettore, e cioè recuperando sensazioni emotive a pelle senza la necessità di trovare giustificazioni razionali. Lo sceneggiatore che, fra quelli dell'elenco, meno apprezzo alle prese con Zagor è (e qui un fulmine mi incenerirà) G.L.Bonelli. E' chiaro che davanti a Bonelli Padre autore di Tex (e di altri personaggi) non si può che levarsi tanto di cappello e godersi ammirati la lettura delle sue storie, insuperabili. Però Zagor non era un suo personaggio, e per di più  all'epoca delle storie scritte da G.L. lo Spirito con la Scure non aveva ancora raggiunto maturità e spessore tali da farsi valere anche rispetto alla forte personalità di quel tizzone d'inferno. Per cui Bonelli senior scrisse Zagor senza mettersi al servizio del personaggio, ma forgiandolo a modo suo.
Degli altri sceneggiatori, spero che mi si creda sincero e non si sospetti la piaggeria, se dico quello che è scontato: il migliore in assoluto è Nolitta, e non c'è bisogno che spieghi il perché. Ho perfino grosse difficoltà a trovare qualcosa che non mi sia piaciuto. Potrei dire che non mi è piaciuto il fatto che abbia smesso di scrivere. Poi, Castelli mi ha sempre molto divertito, è stato il migliore a usare Cico, gli posso rimproverare solo il ritorno di Supermike come personaggio ambiguo (per me doveva restare cattivo). Canzio è stato, tutto sommato, una meteora, con alcune storie molto buone (il Destroyer, Pugni e Pepite, Pericolo Biondo), una da dimenticare (Terremoto a Darkwood) e una sciupata da Pini Segna (l'Uomo Invisibile) ma il suo apporto a Zagor come supervisore è insostituibile e fondamentale.
Sclavi è Sclavi: grandi idee, grande sceneggiatore, ma a volte troppo Sclavi.
Toninelli ha avuto un compito difficile in un momento difficile durato dieci anni, come lettore lo apprezzavo a fasi alterne (grandi storie come "Terra Maledetta" e poi molte altre difficili da digerire), oggi capisco tutte le sue difficoltα.
Ade Capone è forse più nolittiano di me, vado matto per le sue prime due storie, gli rimprovero solo, talora, una eccessiva lunghezza nei tempi (ma tutto deriva dalla nolittianità).
Di Russo e Colombo non c'é molto da dire, sinceramente, nel senso che servirebbero pi∙ storie zagoriane per poterli mettere alla prova, ma quello che si é visto é buono. Posso solo aggiungere che io sono un ammiratore di Colombo riguardo le altre sue storie, soprattutto quelle di Mister No (dunque so che é in grado di confrontarsi con i personaggi nolittiani).
Boselli é il migliore sceneggiatore dopo Nolitta, i suoi meriti sono palesi, gli unici difetti é quello che gli viene a volte rimproverato: troppi personaggi, troppa carne al fuoco, troppa erudizione. Ma sono difetti?


E' giusto scrivere cercando di piacere ai lettori o non sarebbe meglio farlo seguendo soltanto la propria ispirazione e ricerca?

Rispondo copiando alcuni passi della mia tesi di laurea:

L'autore dei testi ha infatti la necessità di vendere la propria opera a un editore, il quale a sua volta deve vendere il prodotto finito a un pubblico di lettori. Il fatto che un autore debba soddisfare le esigenze di un pubblico è evidentemente un fatto limitativo della libera creatività. Esistono eccezioni: alcuni autori, accontentandosi di un ristretto pubblico d'essai di poche centinaia di lettori (il che comporta basse tirature e alti prezzi per le loro opere), riescono in parte a eludere le imposizioni del mercato. Ma, in generale, gli sceneggiatori finiscono per essere condizionati dalle esigenze dell'editore o del pubblico in un preciso momento storico. La figura dell'editore costituisce in qualche modo una limitazione alla libera attività creativa dello sceneggiatore. Quest'ultimo deve infatti sottostare a precise condizioni imposte da parte di chi lo paga e gli permette di pubblicare. I casi di autori che sono anche editori di se stessi si verificano spesso per il desiderio da parte di chi scrive e disegna di non subire questi condizionamenti: ci≥ comunque non smentisce il fatto che la figura dell'editore sia comunque necessaria anche nei casi in cui coincida fisicamente con quella dello sceneggiatore o dell'illustratore. L'editore non può sottovalutare le richieste dei suoi lettori che anche saranno i potenziali acquirenti. Al contrario dell'autore, che può mettersi a scrivere o a disegnare anche indipendentemente dalla possibilità o meno di pubblicazione e in fondo così facendo mette a rischio soltanto una parte del proprio tempo, l'editore (se non ha soldi da impiegare a fondo perduto ed è alla ricerca di un pur minimo utile d'impresa) non può prescindere dalle regole del mercato, perché nella pubblicazione mette a rischio il proprio capitale e i posti di lavoro dei suoi dipendenti. Scopo dell'editore è quindi quello di trovare un punto di incontro tra le esigenze della fantasia creativa e quelle della commerciabilità del prodotto. Quindi, al di là delle incomprensioni e degli eccessi, l'editore abile ed esperto che effettui un'opera di supervisione del prodotto degli autori (soprattutto quando costoro siano ancora giovani e abbiano da farsi le ossa) anziché essere uno svantaggio è una garanzia per gli autori stessi. 
Scriveva Franco Tatò, al tempo in cui era ai vertici della Arnoldo Mondadori Editore: "I creativi, o quelli che si credono tali, in genere mal sopportano gli orari, desiderano molta libertα di movimento, sono per loro natura molto individualisti e poco propensi a lavorare in gruppo, difficili da inquadrare nelle strutture burocratiche dell'organizzazione, spesso capaci di cose stravaganti che bisogna imparare a tollerare. C'è naturalmente un limite di tolleranza, ma direi che la capacitα dell'editore è quella di gestire questo tipo particolare di personaggi e anche la capacità di identificarli, di promuoverli, di stimolarli, di farli lavorare in modo produttivo".
 Questo non vuol dire che l'editore debba sempre controllare strettamente o comunque fare da censore perché solo lui ha il polso della situazione. Esistono scrittori di genio che riescono a imporre le proprie idee innovative prima di fronte allo scetticismo di un editore e poi a modificare i gusti del pubblico, creando così dei veri e propri fenomeni di costume legati al successo del loro personaggio. In questi casi, l'editore è quindi pronto a tirarsi indietro, lasciando carta bianca all'autore e limitandosi a fornire i mezzi economici necessari alla pubblicazione, ma solo fin quando l'autore si dimostra effettivamente più abile di lui nell'interpretare i segnali provenienti dal mercato.  Scrive ancora Tatò: "Oltre ai "creativi" occorre una struttura centrale, qualcuno che sta attento ai conti e dice: sentite, forse è meglio che aggiorniate qualche cosa, perché non riuscite a vendere quello che producete".