sabato 9 aprile 2011

IL PARADISO DEI GATTI

Due giorni fa è morta Camilla. Era la nostra bellissima gatta. Non aveva ancora due anni. L'avevamo presa appena svezzata, come Viktor, l'altro micio di casa, entrambi rigorosamente trovatelli. Qualcuno (Bhushan M. Moretti) ha scritto: "Dio ha creato il gatto per permettere all'uomo di carezzare il leone".

Camilla era l'archetipo della felinità. Elegante, intelligente, agilissima ma anche felicemente pigra. Aveva il pelo lunghissimo e una coda vaporosa che così belle non ne ho mai viste. Ma erano i suoi occhi, soprattutto, a essere di una bellezza sconvolgente. Ti guardavano come se capissero non solo quello che le dicevi (e lo capiva davvero, senza ombra di dubbio), ma anche ciò che pensavi. Parlava, perfino. Diceva "miao", come tutti i gatti, ma ogni "miao" significava qualcosa che, incredibilmente, io riuscivo a interpretare. Molte volte era un semplice "ciao". La incontravo per strada, perché lei usciva e aveva tutti i suoi giri misteriosi, mi riconosceva e mi faceva "miao".

La notte dormiva con noi, sotto le lenzuola, con la testa appoggiata al cuscino come una bambina. Prima di addormentarsi, ciucciava come una poppante il pigiama di Alessandra, che l'aveva adottata con me. E facendolo, con le zampine premeva il suo petto come da piccola aveva fatto con il seno della mamma. Si vedeva che era femmina, rispetto a Viktor che invece è il prototipo del gatto maschio. Era leggera, delicata, silenziosa, aggraziata. E' morta dopo essere stata urtata da una macchina, probabilmente. Ha avuto la forza di avvicinarsi a casa e nascondersi sotto un'altra vettura parcheggiata, e lì l'abbiamo trovata, con gli occhi verdi ancora aperti e un po' di sangue alla bocca. Uno dei nostri figli l'ha riportata a casa e ieri sera l'abbiamo seppellita in giardino, dopo averla composta raggomitolata come si metteva sempre quando dormiva. Viktor, che adesso è rimasto solo, è stato tenuto chiuso in salotto perché non vedesse.

Ho avuto un flash e sono andato in biblioteca a recuperare un libro che ho letto una ventina di anni fa. "Pet Sematary" (ovvero "il cimitero degli animali"), di Stephen King. Scritto nel 1983, edito in Italia con lo stesso titolo da Sperling & Kupfer nel 1985. Il romanzo ha per protagonista Louis Creed, un medico di Chicago che si trasferisce, per motivi di lavoro, in un ospedale del Maine e va a vivere in una casa vicino alla piccola città di Ludlow con la moglie Rachel ed i due giovani figli, Ellie e Gage, oltre a Church, il gatto di Ellie. La casa si trova però nei pressi di una superstrada che è costantemente percorsa da grandi camion. A un certo punto, il gatto Church viene investito. Nella traduzione di Hilia Brinis, questo è il punto in cui Creed, avvisato dal vicino Jud, lo ritrova.

"Louis si inginocchiò a guardare il gatto. Fa' che non sia Church, si augurò fervidamente, mentre con le dita guantate ne girava delicatamente la testa. Che sia il gatto di qualcun altro, che Jud si sia sbagliato. Ma era Church, naturalmente. Non era per niente maciullato o sfigurato; non era stato investito da una delle grandi autocisterne che percorrevano la statale Quindici. Gli occhi di Church erano semiaperti, vitrei come due biglie verdi. Dalla bocca, aperta, era uscito un piccolo fiotto di sangue. Non molto: quel tanto sufficiente a macchiare la parte bianca sul petto".

E' esattamente la stessa scena di cui sono stato protagonista anch'io, con Camilla. Louis, nel romanzo di King, capisce di dover dire alla figlia che il suo gattino è morto, e non sa come fare, perché gli torna alla mente un episodio precedente in cui Ellie, dopo aver visto un cimitero per animali, si era disperata pensando che anche il suo gatto Church avrebbe potuto morire. Ho cercato anche quella pagina, perché la ricordavo disperatamente bella. Ecco il dialogo fra padre e figlia riguardo alla morte.

"Church ha soltanto tre anni e tu ne hai cinque. Potrebbe essere ancora vivo quando ne avrai quindici e farai già la seconda liceo. C'è tanto tempo, in ogni modo".

"A me non sembra lungo - disse Ellie, e ora la voce le tremava - Non sembra lungo affatto".

"Tesoro , se dipendesse da me, farei in modo che Church arrivasse almeno a cento anni. Ma non le ho fatte io, le regole".

"Chi le fa? - domandò lei, e poi, con infinito disprezzo - Dio, scommetto".

"Dio o qualcuno. Gli orologi si scaricano: è tutto quello che so. Non ci sono garanzie, piccola".

"Non voglio che Church finisca come tutti quegli animali morti! - proruppe lei, improvvisamente furiosa e in lacrime - Non voglio che Church sia morto, no e no! E' il mio gatto! Non è il gatto di Dio! Dio si tenga il suo, di gatto!".


Neppure io capirò mai fino in fondo perché Dio abbia voluto, se l'ha voluto lui, la morte di Camilla. Non capisco neppure perché mi si dica che noi uomini, dopo morti, andremo in Paradiso (o in qualche altro posto meno fortunato, ma insomma, da qualche parte andremo), e i gatti no. Non c'è il paradiso dei gatti. Loro, mi è stato detto, non hanno un'anima e noi uomini sì. Ammesso che sia vero, mi chiedo in quale momento dell'evoluzione a noi è stata concessa e a loro no, dato che, com'è anche facile vedere riflettendo sulla nostra anatomia, gli uomini e i gatti hanno un antenato comune in una specie di lemuri. La coda di Camilla lo dimostrava senza bisogno di prove genetiche. Io non so dove finirò dopo morto ma, Dio, per favore, fammi ancora carezzare Camilla e fammi sentire di nuovo le sue fusa.


Nelle foto, mia figlia Alice e io con Tobia, un altro gatto che abbiamo avuto. Nell'altra, Camilla e Viktor.