lunedì 19 dicembre 2011

LA GABBIA

Alessandro Olivo, che cura l’ottimo blog “Chemako”, mi ha intervistato per conto del sito “Fucinemute”. Chi fosse interessato, può leggersi tutta l’intervista cliccando qui. Ci sono però due risposte da me date ad altrettante domande che mi sembra il caso di riportare e, quindi, approfondire.

Mi chiede Olivo: Secondo te qual è stato il contributo maggiore che l’autore ed editore milanese ha dato al fumetto italiano? E come cambierà il mondo delle nuvole parlanti dopo la sua scomparsa?

Rispondo: Il più grande contributo dato da Sergio Bonelli al fumetto italiano è quello di aver fatto leggere fumetti agli italiani, inventando anche un formato e un linguaggio che tutti oggi riconoscono come “bonelliani”. Non sembri facile o banale dire “far leggere fumetti agli italiani”, perché si intende un coinvolgimento trasversale di lettori di tutte le età e di tutte le estrazioni sociali, offrendo piani di lettura differenti a seconda del livello culturale di ciascuno.


E ancora Olivo: Nel porti al servizio del personaggio Zagor così come lo ha creato Guido Nolitta, immagino che il tuo modo di sceneggiare fumetti si trovi perfettamente a proprio agio nella cosiddetta griglia della pagina bonelliana. Ma non ti viene mai voglia di ideare scene che implichino realizzazioni grafiche più ardite?

Rispondo
: Secondo me, si può disegnare qualunque cosa all’interno della gabbia bonelliana e non c’è bisogno di scardinarla. Gabbia che è uno strumento e non un limite, nel senso che se imbriglia le estrosità e le tendenze centrifughe, consente di guadagnare in chiarezza narrativa e mantiene il disegno al servizio della storia. La gabbia è anche un elemento che distingue il prodotto bonelliano da altri (non a caso più caotici e non certo più premiati dai lettori) e rassicura il lettore sul fatto che, qualunque cosa gli stiamo raccontando, lo facciamo nell’ambito di una tradizione.

La prima risposta è collegata alla seconda, perché è stato Sergio Bonelli a “rinchiudere” Tex, Zagor e la maggior parte dei suoi eroi nella cosiddetta “gabbia bonelliana” e a chiedere che un po’ tutti gli autori del suo staff, sceneggiatori e disegnatori, si esprimessero nel contesto delle tre strisce per tavola, contenenti ciascuna una, due o al massimo tre vignette. Parlando con Sergio, mi è capitato spesso di sentirlo ribadire il concetto secondo il quale la struttura apparentemente rigida delle tavole rappresentava una peculiarità da salvaguardare dei suoi fumetti, una sorta di marchio di fabbrica al pari del formato o del sostanziale buon gusto o correttezza morale delle nostre storie.

Le attuali tavole bonelliane derivano dal fatto che, nel 1952, si decise d ristampare in un diverso formato le prime avventure di Tex, originariamente pubblicate come albi a striscia. Per diversificare la ristampa dalla serie inedita, si pensò di utilizzare il formato che già era stato degli “Albi d’Oro” mondadoriani. Così, l’ Audace confezionò una collana quindicinale che i collezionisti oggi definiscono Tex Albo d’Oro. Ogni numero, inizialmente composto da trentadue pagine spillate (più copertina), riproponeva tre albi a striscia. Ne furono realizzate otto serie, tra il 1952 e il 1960, per un totale di 205 numeri, tutti dotati di copertine inedite firmate da Galep. La tradizionale “gabbia” bonelliana, costituita da tre strisce sovrapposte a costituire una tavola, nasce da qui.

La domanda che ci possiamo porre è se continuare dopo sessant’anni a usare la stessa struttura grafica sia utile o dannoso, e dunque se costituisca un limite o una risorsa. Il fumetto mondiale, da quello americano a quello giapponese, passando per la scuola francese o quella argentina, propone esempi di gabbie molto diverse fra loro. Non mancano (anzi, abbondano) autori che, nell’estro della creazione, hanno scardinato ogni regola. I primi nomi che mi vengono in mente sono italiani: Guido Crepax, Gianni De Luca, Sergio Toppi; ma è facile pensare subito anche a Will Eisner o addirittura a quel genio visionario che fu Winsor Mc Cay, uno dei primi maestri del fumetto, già grandissimo nei primi anni del Novecento, quando i codici del medium erano ancora in gran parte da inventare.

Ma parlare di costoro, o anche soltanto di uno di loro, così come delle diverse regole vigenti nell’ambito del fumetto Marvel piuttosto che in quello giapponese ci porterebbe via troppo tempo (magari potremo comunque tornare sull’argomento). Rimaniamo, per il momento, in ambito bonelliano e limitiamoci ad approfondire il discorso sulla gabbia in qualche modo imposta agli autori di Tex, Zagor e gli altri eroi della medesima scuderia. In realtà, va detto, prima di tutto, che anche via Buonarroti si sono avute e si hanno continue eccezioni al vincolo della gabbia. Nathan Never, tanto per fare un esempio, ha proposto fin dall’inizio riquadrature delle tavole piuttosto libere, pur senza esagerare. Per contro, altre testate anche più recenti si sono invece attenute al più classico schema delle tre strisce. Fra queste, spicca per rigidità la serie di Julia, dove addirittura le strisce sono suddivise in vignette tutte all’altezza dell’esatta metà. Interrogato in proposito, Giancarlo Berardi ha ribadito di come si sia trattato di una sua precisa scelta stilistica: “Le vignette sono molto regolari, come uno schermo cinematografico o televisivo. In questo modo, ritengo che il lettore potrà concentrarsi maggiormente sulla recitazione dei personaggi e sulla storia, senza essere distratto da grafismi, spesso eccellenti, ma talvolta un po’ compiaciuti e fini a se stessi”.In effetti, a pensarci bene, anche il riquadro del televisore è una sorta di rigida “gabbia” in cui sono costrette le immagini, e i film sono comunque girati in un formato standard, in fotogrammi dalle precise dimensioni, in modo che la proiezione riempia uno schermo dentro limiti ben definiti.

Le principali obiezioni alla “gabbia” bonelliana vengono da quei disegnatori che se la sentono stretta addosso e vorrebbero riempire le tavole con illustrazioni verticali, trasversali o incastrate le une nelle altre. L’aspirazione è legittima e probabilmente alcuni artisti, potendo dare libero sfogo al loro estro, potrebbero realizzare cose ammirevoli. Però, lo scopo principale dei fumetti che si fanno in via Buonarroti è, secondo me, raccontare una storia. Il più delle volte si tratta di storie di personaggi che hanno una tradizione lunga dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta e persino sessant’anni: è evidente che chi è chiamato a confrontare i propri pennelli con questo tipo di eroi deve mettersi al loro servizio e non pretendere di scardinare consuetudini sedimentate e consolidate. Anzi, più un autore è bravo, più riesce a fare magie anche con pochi mezzi a disposizione. Dunque, se c’è una gabbia, quello è il materiale da usare per fare gli incantesimi: non resta che servirsene.


Talvolta, di fronte a certe tavole in cui la gabbia è scardinata o assente, e i disegni spaziano in libertà in modo effervescente o psichedelico, vien fatto di pensare che gli effetti speciali abbiamo preso il sopravvento sulla storia che si intende raccontare. Non tutti gli autori, peraltro, sono all’altezza di Toppi o De Luca e non tutti i lettori sono disposti ad accettare un troppo brusco cambiamento di registro, dopo aver acquistato un albo confidando di poter trovare un certo tipo di fumetto, mentre gli se ne propone un altro. Immagino che le stesse perplessità sorgerebbero anche presso il pubblico di Diabolik o della Walt Disney, se le classiche modalità del racconto venissero mutate. E non so se giustificarsi con il richiamo alla libertà espressiva di un artista potrebbe convincere l'acquirente spiazzato.

Non è, però, soltanto un problema di tradizione o di abitudini dure a morire. Il fatto è che la gabbia è uno strumento efficacissimo, ormai sperimentato da anni e anni. Non c’è niente che non si possa disegnare in una striscia. Le storie più belle di Galep o di Ferri, per fare due nomi, quelle che hanno fatto grande il marchio Bonelli, sono state raccontate senza bisogno di scardinare le vignette: cariche di cavalleria, attacchi di dinosauri, galeoni sull’oceano, atterraggi di astronavi, tutto è stato perfettamente rinchiuso nella gabbia bonelliana. E non mi pare che “Odissea Americana” piuttosto che “Sangue Navajo” ne abbiano risentito. Del resto, anche Dante Alighieri ha dovuto costringere la sua Divina Commedia nella gabbia (strettissima) dell'endecasillabo e della terzina e non si direbbe che abbia avuto problemi a descrivere l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. Di Pascoli e della sua maestria nel maneggiare la metrica (che ha regole rigidissime) per farne uno strumento in grado di suscitare emozioni, abbiamo del resto già parlato. E non ci sono emozioni che Ken Parker piuttosto che Dylan Dog non abbiano potuto suscitare nonostante la gabbia, o forse proprio grazie a quella perché la gabbia, anzi, costringe gli autori, soprattutto i disegnatori, a non dar corso alle tendenze centrifughe e restare ancorati al racconto, alla sua chiarezza intesa non come banalità ma come immediatezza, contatto diretto con il cuore del lettore. Perché la gabbia bonelliana ha questo di bello: è anche, essa stessa, una chiave. Quella che apre la porta della storia, e permette di entrarci dentro, o di uscirne fuori, condotti per mano dagli autori.