sabato 5 gennaio 2013

DECIO IL GRANDE




La notizia della morte di Decio Canzio, a lungo direttore generale della Sergio Bonelli prima del suo recente ritiro dall'attività, mi ha sorpreso a Parigi, da dove sto scrivendo. Perciò, non ho a mia disposizione la documentazione che sarebbe meglio avere a portata di mano se si vuol raccontare una vita in occasione di una morte. Ma, a pensarci bene, per quello che ho da dire non mi serve niente che non sia già impresso nei miei ricordi e, soprattutto, nel mio cuore. Io a Decio, così come a Sergio Bonelli, devo, semplicemente, la realizzazione della mia esistenza, la possibilità che mi è stata data di coronare un sogno. Fu lui, dopo che Sergio lo ebbe incaricato di valutare se potevo essere all'altezza, ad assegnarmi l'incarico di realizzare la mia prima sceneggiatura. E fu sempre lui a insistere perché, lasciando un mio precedente impiego, mi occupassi di scrivere fumetti a tempo pieno, rassicurandomi sul fatto che avevo il talento e la fantasia per poterlo fare (io, sempre dubbioso su me stesso, non avevo la sua convinzione). E gli devo ancora la richiesta di trasferirmi a Milano per lavorare in redazione, prima, e per assumere la cura di Zagor, poi. 

Su tutto ciò, ovviamente, Decio e Bonelli avevano convenuto parlandone fra loro, ma alla fine era sempre Canzio che mi chiamava nel suo studio e, con la pacatezza che lo contraddistingueva e lo caratterizzava, ne discuteva con me, risolvendo le questioni pratiche e incoraggiandomi nel portare avanti i nuovi incarichi nonostante le responsabilità e le difficoltà. Se c'era qualche ostacolo da aggirare, era con lui che ne parlavo, chiedendogli consiglio come si farebbe con un padre. Fra i suoi tanti carismi, Decio aveva quello di saper risolvere i problemi. Sempre lucido, razionale, esaminava i casi e ne veniva a capo come avrebbe fatto Nero Wolfe, per usare un accostamento che non è mio ma di Mauro Boselli (secondo il quale c'erano molti punti in comune fra l'investigatore di Rex Stout e il nostro direttore). Era acutissimo nel vedere al di là delle apparenze, nello scovare refusi e contraddizioni, nell'anticipare gli scenari, per cui capiva subito quali erano le difficoltà. E subito individuava le strategie per superarle. Lui e Bonelli, amici fraterni da una vita, si completavano a vicenda perché Sergio prendeva le decisioni d'istinto, ragionando con il cuore, mentre Canzio rifletteva mettendo in moto tutte le cellule grige della sua intelligenza senza dubbio superiore. Dopodiché, i due mediavano. E grande mediatore Decio è stato anche nel tenere i rapporti con tutti i collaboratori, centinaia di autori, nel corso di tanti anni, sempre riuscendo a smussarne gli spigoli caratteriali per riuscire a ottenere da ciascuno il massimo. La sua capacità di mediazione non va confusa con l'indulgenza verso gli errori o con la facilità nel persuaderlo ad accettare qualcosa che non lo convinceva: i suoi "no" sapevano essere decisi e irremovibili. Però, avevano questo pregio: erano motivati. Riusciva sempre ad argomentare (per quel che posso testimoniare: con infallibilità matematica) giustificando le sue decisioni. 

Colto, elegante, cultore di libri, di vino, di cucina, di viaggi, di musica, aveva una caratteristica unica: discendeva direttamente da Garibaldi, attraverso la figlia Teresa che l'Eroe dei due Mondi ebbe dalla compagna Anita. Teresa sposò infatti uno Stefano Canzio, e fra i dodici figli che i due ebbero ce ne fu uno chiamato Decio (1870). Da allora in poi, i Decio e gli Stefano si sono succeduti fino al nostro Decio, nato nel 1930, il quale ha a sua volta un figlio Stefano. E' da questo albero genealogico che derivava la passione canziana per i cimeli garibaldini, di cui è stato uno dei massimi raccoglitori. Ricordo una sorta di "mancolista"che Decio distribuiva fra gli amici perché, andando per librerie antiquarie e bancarelle, poteva capitare a chiunque di scovare un saggio o una stampa che ancora non aveva nella sua collezione. Sono riuscito anch'io, nel mio piccolo, a rintracciarne due o tre. Ricordo l'ultimo, un libro di ricordi scritto da uno dei Mille, un livornese che fu poi il fondatore del quotidiano Il Telegrafo: glielo portai e lui fu contento come potrebbe esserlo un bambino nel ricevere un giocattolo. "E' un bellissimo regalo", mi disse. 

Nel 2009, e mi sembra ieri, lo invitai a pranzo: andammo a mangiare in un ristorante di sua scelta (ne conosceva a centinaia in tutta Italia e sapeva consigliare con cognizione di causa i migliori, arrivando a indicare i piatti da scegliere quando mandava qualcuno da qualche parte). Il motivo del mio invito era festeggiare i miei primi venti anni di lavoro in Bonelli. Come al solito, stare a tavola in sua compagnia si rivelò piacevolissimo, perché Decio era un affabulatore nato e sapeva raccontare aneddoti e ricordi con lo stesso garbo con cui narrava le sue storie a fumetti. Già, perché poi c'è anche tutta la parte della sua attività che riguarda le sceneggiature del Piccolo Ranger, Zagor e Tex (ma anche alcuni volumi della serie "Un uomo, un'avventura" e della "Collana Rodeo") che egli ha firmato nel corso degli anni. Una serie di dati, precisi e puntigliosi, sulla produzione canziana sono stati pubblicati su questo stesso blog in un articolo da me scritto nel febbraio dello scorso anno, corredato da molte foto e con in appendice le statistiche curate da Saverio Ceri nella sua rubrica "Diamo i numeri". Altri ricordi di Decio Canzio sono rintracciabili in rete qui e qui

Non ricordo con precisione quand'è stata l'ultima volta che l'ho visto; so che è successo nella tarda primavera o all'inizio dell'estate del 2011, in una delle sue ultime visite in redazione: se chiudo gli occhi mi sembra di vederlo muoversi con un po' di difficoltà appoggiandosi a un bastone, perché le gambe non erano più quelle di quando lo incontrai la prima volta. Prima volta che, invece, ricordo benissimo perché per me fu un'illuminazione che poi mi ha fatto da guida in tutta la mia carriera. Avevo ventisette anni e un soggetto giacente sul suo tavolo in attesa di una risposta. Decio mi fece sedere davanti a lui e mi smontò il racconto con una lucidità impressionante, usando toni pacati ma argomenti inoppugnabili. Avrei dovuto essere dispiaciuto perché la mia proposta veniva, in buona sostanza, respinta. Invece rimasi ammirato per l'analisi che Canzio aveva fatto. "Tuttavia - concluse - vedo che tu hai qualcosa dentro, che è quello che serve per scrivere Zagor. A te la scelta: se gettare la spugna, o riscrivere il soggetto tenendo conto di quanto appena ti ho detto, sapendo che qualunque altra cosa scriverai dovrà superare un vaglio di questo tipo". Io risposi: "Mi dia un'altra possibilità, e ci riproverò". Grazie, Decio, per quella seconda chance.