domenica 9 gennaio 2011

LA FATICA DI SCRIVERE

Sono appena tornato da un viaggio di una settimana in Alsazia, durante il quale ho anche attraversato il Reno, sconfinando per una giornata nella vicina Germania. La terra delle cicogne è una regione meravigliosa, se si riesce a sopravvivere alla cucina, evitando tutto ciò che subisce l'influenza tedesca e limitandosi ai piatti di origine francese (niente da dire invece sui vini). Avrei infiniti aneddoti da raccontare e foto da mostrare ma per il momento, ancor prima di disfare le valigie, c'è un posto in particolare di cui vi voglio parlare ed è la Bibliotheque Humaniste della città di Sélestat, a metà strada fra Colmar e Strasburgo.

Non mi soffermo sulla località, che vale sicuramente una visita (come un po' tutte quelle dei dintorni, a partire da Riquewihr), ma se c'è un luogo nella regione da non perdere si tratta senza dubbio di quella biblioteca (mentre, per esempio, si potrebbe fare tranquillamente a meno di scattare foto davanti all'insulso Parlamento Europeo, come il sottoscritto nell'immagine più in basso).



Che cosa c'è di tanto bello nella raccolta di volumi di Sélestat e perché ci sono andato? Va detto che il senso estetico è soggettivo e che ognuno si emoziona davanti a ciò che gli pare, persino davanti al Parlamento di cui sopra (e magari c'è chi va in Alsazia apposta). Però, io sono sempre rimasto affascinato dall'idea che una volta i libri si copiassero a mano, uno per uno, e che grazie al lavoro degli amanuensi sono giunti fino a noi alcuni testi della più remota antichità, mentre mille altri sono andati perduti (di alcuni conosciamo soltanto il titolo, l'argomento o brevi frammenti citati in altri manoscritti o nelle loro note, e chissà quanti ci sono invece del tutto ignoti). Ho sempre avuto un grande interesse per la filologia e di recente mi sta appassionando (ognuno ha le proprie perversioni) quella biblica. Ugualmente, mi entusiasmano i libri antichi (di cui però non mi posso permettere l'acquisto neppure in sogno) e trovo da batticuore l'idea di tenere in mano un incunabolo (anche se ammetto che ci sono cose più gradevoli da palpeggiare, ma l'una cosa non esclude l'altra). Per incunabolo si intende la prima edizione a stampa di un testo antico, ed essendo la stampa stata inventata a metà del Quattrocento si può capire che si tratta di volumi di circa cinquecento anni fa.

In ottobre vi ho parlato di un soggetto per Dampyr che Mauro Boselli mi ha approvato, e di cui ancora attende, con la pazienza di Giobbe, le prime tavole. Ecco, la mia idea riguarda appunto questo tipo di argomento: amanuensi, antichi codici, il lavoro dei filologi (Harlan ne conoscerà uno, fiorentino, realmente esistente). Visitare la Bibliotheque Humaniste di Sélestat mi è servito appunto per rinfrescarmi le idee e fare un bagno salutare fra vecchi scaffali e preziose pergamene in cerca di ispirazione.

Fondata nel 1452, la biblioteca conserva le raccolte della Scuola Latina della città e quella del letterato Beatus Rhenanus, un amico intimo di Erasmo da Rotterdam. Custoditi sotto vetro in teche che si possono ammirare solo alzando i pesanti drappi in velluto rosso che li ricoprono, ci sono manoscritti del settimo secolo e di tutti i successivi periodi fino all'avvento di Gutemberg (che soggiornò per una decina di anni proprio nella vicina Strasburgo).


Io, che sono un cultore di storia cinquecentesca, ho potuto vedere su un documento la firma autografa di Carlo V, un sovrano per cui ho sempre avuto una grande simpatia (nonostante l'altrettanta simpatia che mi lega a Francesco Ferrucci, capitano fiorentino di cui, a rigor di logica, l'imperatore fu il responsabile ultimo della morte - anche se probabilmente neppure sapeva che esistesse).

Ugualmente emozionante sono una delle prime carte geografiche che le coste del Nuovo Mondo e le pagine della Cosmographiae Introductio di Martin Waldseemuller, stampato a St-Dié (sempre in Alsazia) nel 1507, e contenente l'atto di battesimo dell'America, cioè la prima volta in cui il Continente da poco scoperto viene chiamato così.

Quando Cristoforo Colombo avvistò l'isola di Guanahani, che battezzò San Salvador, prendendone possesso in nome dei sovrani di Spagna, era il 12 ottobre 1492, data che convenzionalmente segna l'inizio dell'Età Moderna. Il navigatore genovese pensava di aver raggiunto un'isola dell'arcipelago giapponese: non si rese conto di essere arrivato su un continente diverso da quello che si aspettava e dunque non pensò di dovergli dare un nome. A quello provvide un altro italiano, il fiorentino Amerigo Vespucci, che nel 1499 si unì ad Alonso de Hojeda, un navigatore che aveva ricevuto dalla Spagna l'incarico di esplorare le terre da poco scoperte. Vespucci fu tra i primi sostenitori dell'idea che il genovese avesse scoperto un nuovo continente. Nelle sue lettere a Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici, Amerigo si disse convinto che non si trattava di zone sconosciute dell'Asia. La rapida diffusione dei suoi scritti indusse il cartografo Waldseemuller a usare il nome America, traendolo del nome latinizzato del navigatore, Americus Vespucius, per indicare i nuovi territori. Peraltro, ad Amerigo si deve anche il nome del Venezuela, dato che fu lui a indicare come "piccola Venezia" un villaggio indigeno costruito con palafitte sull'acqua nell'attuale laguna di Maracaibo.

C'è però un punto a cui voglio arrivare (ammesso che siate arrivati voi fin qui): qualcosa che non ci porterà ulteriormente fuori tema rispetto agli argomenti di cui di solito si parla in questo blog. Sempre per via delle personali perversioni di ciascuno di noi ("quante deviazioni hai?" chiedeva Vasco Rossi in uno dei suoi primi pezzi contenuto nell'album "Bollicine" di cui conservo gelosamente il vinile), ho alternato la lettura dell'ultimo, fantastico, libro di Stephen King ("Notte buia, niente stelle", che mi sono divorato in viaggio facendo le ore piccole per leggere quante più pagine possibile) a quella di un libro dedicato appunto alla filologia (per documentarmi in vista della mia sceneggiatura dampyriana che prima o poi dovrò pur iniziare).

Così, mi sono imbattuto in una testimonianza che mi ha colpito e che vi riporto brevemente. In un manoscritto copiato probabilmente nell'anno 783 in un monastero di Orléans (sempre in Francia), un amanuense, stanco dopo un giorno passato a ricopiare pagine, aggiunge un suo sfogo personale su un pezzo di pergamena rimasto bianco, scrivendo in latino più o meno queste parole (la traduzione è di Giampaolo Dossena): "Quanto a voi, lettori che leggerete questo libro, curate bene la pulizia delle vostre mani, e tenete le vostre dita lontane dalla scrittura; perché chi non sa scrivere non pensa che sia una fatica (...). Oh, la scrittura, che grave fatica che è! Curva la schiena, rovina gli occhi, spezza il petto e le costole. E tu, fratello che leggi questo libro, prega per il chierico Radulfus che lo scrisse nello scriptorium di Sant'Aniano".

Ecco, dopo milleduecento e rotti anni, oltre a rivolgere un pensiero affettuoso al chierico Radulfus sperando che sia lui a pregare per me, che ne ho bisogno, mi verrebbe da sottoscrivere e fare mie le sue parole. Perché scrivere, anche fumetti, anche al computer, a volte è davvero faticoso. Chi non sa che cosa vuol dire, pensa che sia facile. "Sempre meglio che lavorare", per prendere in prestito il titolo di un libro di Luca Goldoni. "Sapessi quanto è bassa la terra", mi diceva il mio nonno che faceva il contadino, e dunque lo so che zappare spezza la schiena. Ma, appunto, tutti sono disposti ad ammetterlo. A sceneggiare fumetti, invece, sembra che chiunque sia buono. "Capirai che ci vuole", pare che sia l'opinione comune, almeno a giudicare anche dal lavoro di chi si improvvisa sceneggiatore o anche di alcuni che si propongono come autori senza avere la minima idea di che cosa voglia dire costruire una storia che stia in piedi, ma anche a leggere taluni commenti di chi critica le fatiche altrui come se lui, il commentatore in questione, sapesse fare di meglio su due piedi e a occhi chiusi (com'è ovvio non ce l'ho con i critici in quanto tali, neppure con quelli più malevoli, ma soltanto con coloro che non rispettano la fatica altrui là dove c'è evidentemente c'è stata).

Radulfus si riferiva alla fatica del copiare i manoscritti, io alla fatica di realizzare qualcosa che altri possano leggere con interesse, nel miglior modo in cui riesco a farlo. Ma alla fine, credetemi, non posso che dire con lui: "Oh, la scrittura, che grave fatica che è!". Poi, come mio nonno che avrebbe voluto essere sepolto nel suo campo, anch'io amo il mio lavoro e mi ritengo fortunato a poterlo fare. Ma mi piacerebbe che non si pensasse, con troppa faciloneria, che è un lavoro semplice. Perciò, cercate di aver curato bene la pulizia delle vostre mani la prossima volta che leggerete un fumetto, perdìo!