domenica 22 giugno 2014

NON E' UN'EDICOLA PER VECCHI



Stiamo vivendo tempi molto duri per l’editoria, in generale. Scendendo nel particolare, i fumetti non fanno eccezione. Si direbbe che gli italiani abbiamo deciso di smettere di leggere. Benché i dati di vendita facciano ancora sembrare la Sergio Bonelli Editore un’isola felice, la situazione è preoccupante e le prospettive lo sono ancora di più. A parte Tex e Dylan Dog, nessuna nostra testata vende più di cinquantamila copie al mese, anche se Zagor  meglio di altre serie resiste all’inesorabile erosione (senza che questo consenta di stare allegri). 

Si può dar colpa al pessimo andamento dell’economia, che mette la gente in condizione di dover scegliere (ma allora la gente, evidentemente preferisce tagliare le spese più basse, come i fumetti, invece che quelle più alte, come i videogiochi o i gadget elettronici). Si può dar colpa all’abitudine di passare il tempo sui social network invece che con della carta stampata in mano (ma allora non si spiega perché i social network non diventino veicolo di propaganda per i nostri prodotti, visto che autori ed editori sono in massa a cercare proseliti sul Web). Si può dar colpa alla diffusione degli e-reader, cioè  agli apparecchi per leggere in video anziché su carta (ma allora non si spiega perché i fumetti in  versione digitale vendano comunque pochissimo). Si possono dare tante colpe a tante cose, ma di sicuro non si può dar colpa alla scarsa qualità dell’offerta, perché mai ci sono stati in Italia così tanti fumetti mediamente così ben fatti. 

Ogni casa editrice reagisce alla crisi con proprie strategie. Di solito, la tendenza è di andare a cercare lettori fra i giovani che non sono più abituati a leggere: ecco perciò testate fatte su misura per coloro che giocano ai videogames o sono attratti dalle tante modalità di fruizione del fantasy. Si punta cioè a trovare nuovi acquirenti tra coloro che non fanno parte del pubblico tradizionale degli eroi di carta. Il che, ovviamente, è giustissimo. Tuttavia, i risultati non sono quelli sperati: sembra che chi non ha mai letto fumetti non ne sia attratto a priori. A chi è appassionato di videogiochi, dei comics non gli importa qualunque cosa gli venga proposta (almeno, questa è la mia impressione). Costoro, peraltro, non sono neppure abituati ad andare in edicola, per cui gli si può preparare la saga più bella del mondo, ma loro non la vedranno mai perché fisicamente non vanno là dove la si mette in mostra. 

Ciò detto, passo a raccontare un aneddoto che mi permetterà di proseguire il ragionamento. Abituato ad andare dovunque venga invitato, proprio perché ci tengo a promuovere le pubblicazioni bonelliane e il mio lavoro, ho partecipato di recente a un dibattito a Borgotaro, affollato come per fortuna spesso mi capita (il calo generale delle vendite non corrisponde a un calo dell’entusiasmo del pubblico zagoriano). Rispondendo alle domande degli intervenuti, un signore di mezza età (tra i cinquanta e i sessanta anni), molto coinvolto nella discussione e palesemente interessato all’argomento, mi ha chiesto: “Perché in edicola non ci sono i bei fumetti di un tempo? Io vorrei leggerli, ma mi sembra che le belle serie di una volta non si trovino più”. Non si riferiva a ristampe dei vecchi eroi, ma proprio a nuove proposte in grado di appassionarlo, fatte alla vecchia maniera. Io ho risposto che la sua era una illusione ottica, perché, appunto, di proposte ce ne sono a bizzeffe: basta pensare alla quantità di testate della Sergio Bonelli (assai di più di quelle degli anni Settanta), alle quali si possono aggiungere quelle Disney, dei supereroi, dei manga; il problema forse sta nel fatto che le edicole espongono sempre meno i fumetti, e in ogni caso non tutte le collane arrivano in tutti i chioschi (persino per trovare una copia di uno Speciale Zagor un amico della Val Camonica è dovuto scendere fino a Bergamo). 

Però, poi, ho riflettuto sulla cosa e mi sono convinto che ci potrebbe essere anche un’altra spiegazione: il nostro amico lettore è convinto che non escano più fumetti come, facciamo l’esempio, Mister No, perché semplicemente non li riconosce come tali. A forza di fare fumetti per i ragazzi che giocano ai videogames o per gli internauti aggiornati sulle nuove tendenze, ci siamo dimenticati dei vecchi lettori. Quelli cioè che vanno in edicola. I lettori che avevamo, e che siamo andati perdendo, forse stentano a identificare le copertine dal taglio cupo e moderno di certe nostre proposte con il “bel fumetto” che loro vorrebbero. A furia di rincorrere le mode, non stiamo soddisfacendo chi cerca la tradizione. Ci rivolgiamo ai ragazzi che (come i miei figli) non si accosterebbero alle rivendite di carta stampata neppure sotto la minaccia delle armi, invece di rivolgerci (anche) a chi continua tutti i giorni a comprare il giornale. Un pubblico che non sarà più numeroso come quello di un tempo, ma che esiste e forse è deluso. 

Fermo restando l’obbligo di cercare di rivolgerci ai giovani ipertecnologici, e quello di provare in tutti i modi di allargare la platea anche alle nuove generazioni, non si può fare lo sbaglio di perdere le vecchie. Chissà se affiancando alle nuove testate anche una proposta più “tradizionale”, immediatamente riconoscibile come tale fin dai colori della copertina e dal modo con cui si scrivono i titoli, non si potrebbe recuperare qualcuno della vecchia guardia. Chissà inoltre se, a costoro, non si potrebbero aggiungere anche dei giovani incuriositi o dalle letture dei padri e dei nonni o dal taglio vintage (e dunque insolito) della novità editoriale. In fondo, le storie “semplici”, alla vecchia maniera, possono essere lette da tutti; quelle “complicate”, alla nuova maniera, sono più difficili da decifrare. “Semplici”, si badi bene, non vuol dire “banali”. Non erano “banali” le storie di Guido Nolitta, tanto per dare un punto di riferimento, ma certamente erano fruibili da tutti.

sabato 14 giugno 2014

L'INIZIO DI TUTTO



Torna in edicola, riproposto a colori dalle Edizioni If dopo ventitré anni, il mio primo Speciale Cico, “Cico Trapper”. Venne pubblicato originariamente nel maggio del 1991, e all’epoca uscì in perfetta concomitanza con la mia storia di esordio sulla collana "Zenith". Si trattò, insomma, di un doppio debutto.  Come consuetudine, ho scritto per Gianni Bono (il direttore delle Edizioni If) una breve postfazione a “Cico Trapper”, in cui, per mancanza di spazio, non sono riuscito però a infilare tutto quello che avrei voluto. Consentitemi dunque di farlo qui. Tanto per cominciare, ripeto quello che più volte ho già avuto modo di dire: considero i miei diciannove albi di Cico tra le cose migliori che abbia scritto, e forse, complessivamente, la cosa migliore in assoluto. Si tratta di albi di 128 tavole pieni di gag, di sketches e di battute e, credetemi, non è stato facile tirare fuori dal cilindro le scenette e le spiritosaggini con cui ho infarcito ogni singola pagina. 

A volte andavo a letto, la sera, con l’incubo di non trovare idee per il giorno dopo, quando mi aspettava il proseguimento di qualche volumetto cichiano. Poi, al mio risveglio, la mattina, sceneggiavo invece le disavventure del messicano come se fossero una commedia comica che avevo avuto da sempre davanti agli occhi. Quando infine vedevo le tavole illustrate da Francesco Gamba che arrivavano in edicola, ridevo di cuore e il ricordo dell’ansia e della fatica che mi erano costate svaniva come nebbia al sole. Tutto ciò serve a chiarire il senso della mia affermazione di partenza, quella cioè della mia soddisfazione di fronte al lavoro che ho svolto su Cico: per quanto possa sembrare il contrario, è più semplice scrivere una avventura drammatica che sceneggiare qualcosa di comico, e per ogni dieci sceneggiatori bravi nel congegnare una scena d’azione ne conosco uno in grado di gestire uno sketch comico. 

Mi perdonerete, almeno lo spero, questa mia piccola autocelebrazione: ogni tanto bisogna anche farsi coraggio da soli dato che di complimenti il mondo è sempre più avaro (e soprattutto là dove si lavora spesso le gratificazioni mancano del tutto). In ogni caso, di recente, a Zagabria, un lettore croato mi ha portato proprio una edizione locale di “Cico Trapper” dicendo che era il fumetto più comico che avesse mai letto. Sicuramente non è vero, e in realtà io stesso preferisco altri miei Cico a quello (e altri fumetti comici ai miei Cico), ma fa piacere pensare di aver regalato qualche sorriso in giro per il mondo. Scrivere gli speciali del pancione comportava anche doverli sottoporre al vaglio severissimo di Sergio Bonelli in persona, che li esaminava con una attenzione che mi sorprendeva sempre: ma come, dicevo, ci sono fumetti bonelliani che vendono mezzo milione di copie, come Tex o Dylan Dog, e Sergio si concentra così tanto, al punto da commentare ogni singola vignetta, su una piccolo cosa come gli albi di Cico? Eppure così era: li sentiva “suoi” e li voleva controllare calibrando le battute e le gag su ciò che faceva ridere lui. Il che non era facile, dato che tutti ridiamo di cose diverse. A volte, battute che io trovavo esilaranti venivano cassate. Altre volte, era lo stesso Sergio a suggerirmi una gag o il modo di risolvere una situazione (e in questi casi aveva ragione, migliorando la scenetta). Credo che nessun mio albo lo abbia del tutto convinto (era difficilissimo soddisfarlo, in generale), però la collana è passata da annual a semestrale per un lungo periodo e se anche l'editore mugugnava perché certi sketch non lo aveva soddisfatto, poi ogni volta mi chiedeva che fossi io a continuare la serie.  Ero il primo, per cercare di tirare un po’ il fiato, a chiedergli di essere sostituito, e per due volte ci riuscii (e un paio di storie vennero scritte infatti  da Tito Faraci), ma poi venivo di nuovo richiamato in servizio. Quando, nel 2007, con “Cico & Company”, venne chiusa la collana, le mie storie erano state diciannove (su un totale di ventisette). A distanza di anni, sarei pronto a ricominciare a scriverne delle altre, se me lo lasciassero fare.

Ma veniamo a “Cico Trapper”. L'idea di far vestire al messicano i panni del mountain-man in uno Speciale era stata dello stesso Nolitta, che aveva parlato dell’ipotesi di un albo così intitolato già molti anni prima. Mi pare che fosse accaduto nella rubrica della posta di un albo “Zenith” o di un “TuttoZagor”: rispondendo a un lettore che gli chiedeva perché dopo “FantaCico” (uscito nel 1983) ci fosse stato un lungo periodo di silenzio, Sergio disse che gli sarebbe piaciuto continuare con un albo intitolato  “Cico Trapper”, che aveva in mente ma che non  trovava il tempo di scrivere.  Così mi sono proposto di scriverlo io (senza nella sapere di quali fossero i progetti di Bonelli, ovviamente), realizzando una nuova storia sul passato del pancione prima dell'incontro con Zagor (e cioè sulla falsariga dei primi quattro albi nolittiani). Nel 1990, l'editore aveva affidato la realizzazione di un numero (il primo dopo sette anni) a Tiziano Sclavi, ma “HorrorCico” era risultato una prova d’autore al di fuori da canoni, in cui la personalissima calligrafia del creatore di Dylan Dog si riconosceva in ogni pagina. Così, proprio per riportare la serie nel seminato Sergio pensò a me come alfiere della nolittianità, correndo il rischio di ricorrere a un novellino. Mi seguì passo passo nella sceneggiatura, volendo leggere tutte le gag in anteprima e sconsigliandomene alcune in favore di altre. La prova andò bene, dato che mi fu subito commissionato un albo per l’estate successiva, e da lì in poi divenni in qualche modo titolare della testate. 


Non ho idea del perché taluni detrattori si siano incaponiti nel ritenere il “mio” Cico diverso da quello di Guido Nolitta, come mi è capitato di leggere da qualche parte. Ho versato fiumi d’inchiostro scrivendo sui forum per dimostrare come ogni mia gag sia in qualche modo puntualmente paragonabile a un modello nolittiano, ma alla fine se le capocciate di Nolitta facevano ridere e le mie (identiche) no  vuol dire che c’è un pregiudizio nel commentatore e allora pazienza. Del resto, se a Sclavi e a Faraci è stato consentito far ricorso al proprio personale umorismo, me lo consento da solo anche io e buonanotte suonatori. In ogni caso, tornerò sull’argomento commentando i prossimi Speciali (cosa che mi propongo di fare).

Giusto per fare, però, un po’ di sana polemica fin da subito, rispondo dopo oltre venti anni alla stroncatura di “Cico Trapper” che fece “Fumo di China”. Non ricordo chi fosse il feroce critico ma fu scritto che l’albo aveva il grave torto di  concatenare soltanto una sequenza di gag, mancanti di un vero e proprio filo conduttore.  Ora, a parte il fatto che, secondo me, il filo conduttore c’è, mi chiedo se il recensore avesse mai letto “Cico Story” o “American Cico”, i primi due albi della serie, scritti da Nolitta. Quelli sì che inanellavano gag senza un solido filo conduttore, addirittura cambiando continuamente scenario e argomento. Io, almeno, mi ero attenuto rigorosamente al tema. Inoltre, “Fumo di China” contestava il fatto che Cico raccontasse a Zagor le sue disavventure accadute a un rendez-vous di trapper, mentre ne "I cacciatori di uomini" (il n° 29 della serie) Cico stesso giungeva a un rendez-vous insieme allo Spirito con la Scure e sembrava non sapere di che cosa si trattasse, al punto che l'amico doveva spiegarglielo.  L’obiezione è, mi si consenta, particolarmente peluovista, ma trascura parecchie considerazioni che vado subito a svolgere. 

In “Cico Story”, Nolitta ci racconta come Cico abbia parecchi tra fratelli e sorelle (per l’esattezza è l’ultimo di otto figli); però nell’albo "La Freccia Mortale" (Zagor n° 62, scritto dallo stesso autore) Cico dice di essere figlio unico. In questo caso, la contraddizione è nolittiana: nessuno l’ha mai rinfacciata, com’è naturale. Cico è bugiardo, oppure disposto a fornire version alternative della realtà per amor di battuta (più che bugiardo è un artista, oserei dire, dato che l’arte è tutta una finzione). Dunque esiste almeno un precedente in cui un particolare della serie regolare contraddice un particolare degli Speciali. La contraddizione, però, può essere benissimo sanata con un semplice ragionamento. Il fatto che Cico dovesse vestire i panni del trapper venne deciso, come ho già spiegato, non da me ma da Bonelli,  che avrebbe voluto scrivere lui quello speciale e poi non lo fece mai. Dunque, secondo l'intendimento nolittiano (cioè del creatore del personaggio) Cico aveva vestito i panni del trapper. Ora: com'era possibile concepire un albo che parlasse della vita dei trapper senza far vedere un rendez-vous? Chiaramente, un rendez-vous andava inserito, a costo di creare una incongruenza. Incongruenza che poi, se vogliamo, possiamo superare semplicemente dicendo che in "I cacciatori di uomini" Cico fingeva di non sapere nulla dei rendez-vous per non dover raccontare a Zagor le sue figuracce nei panni del mountain men. 

Del resto, anche nella serie regolare era stato detto che Cico aveva fatto il cacciatore di pellicce, dato che nell’albo “La nave pirata” (n° 65) un certo Donald Destry ricorda alcune disavventure vissute con il messicano prima che questi incontrasse Zagor (avevano messo su insieme un allevamento di castori). Cico non aveva mai raccontato niente allo Spirito con la Scure proprio perché ne aveva combinato un disastro (i castori, fuggiti dall’allevamento, avevano fatto crollare un ponte): dunque il pancione, cosa acclarata e divenuta ortodossia essendo invenzione nolittiana, preferisce non ricordare nulla del suo passato nei panni di trapper, ed è per questo che, ne “I cacciatori di uomini”, finge di non sapere che cos’è un rendez-vous. Donald Destry torna alla ribalta anche in “Cico Trapper” e questo testimonia il mio sforzo per far combaciare tutti gli elementi del puzzle, sforzi che si sarebbero moltiplicati negli albi successive, così che le storie finiscono per creare una vera e propria, coerente biografia del messicano, dalla nascita fino all’incontro con lo Spirito con la Scure. Non solo: tutti i miei albi di Cico si sono basati su una solida documentazione, nascendo dalla lettura di libri e dalla vision di film, cosa forse insospettabile per dei racconti comici (e di sicuro non sospettata dal recensore di “Fumo di China”).

All'inizio della storia si parla di un villaggio chiamato St. Marcel, posto sulle Green Mountains, nelle cui vicinanze scorre il File Creek. E' chiaro che si tratta di S.Marcello Pistoiese, sull'Appennino tosco-Emiliano, nelle cui vicinanze scorre il Torrente Lima (esatta traduzione) e dove sono nato io. L'emporio di Joe Rubidoux dove Cico compra l'attrezzatura compare nel romanzo di R.W.Thorp e R. Bunker intitolato "Crow Killer", e tradotto in italiano come "Corvo Rosso non avrai il mio scalpo" (insomma, il libro da cui è stato tratto il film con Robert Redford "Jeremiah Johnson", anch'esso tradotto come "Corvo Rosso eccetera eccetera"). Il libro, incredibilmente più crudo e drammatico del film, racconta in maniera molto documentata la vita dei trapper, e fornisce una versione romanzata della vicenda umana di un personaggio veramente vissuto (almeno si crede): Jeremiah Johnson, detto "mangiafegato". Il libro comincia così: "Una mattina di maggio del 1847, gli indiani Crow uccisero e scotennarono la moglie incinta di Jeremiah Johnson, il quale per molti anni a venire uccise e scotennò indiani Crow, per mangiarne poi i fegati crudi. Egli non li mangiava per fame, ma per principio: e l'intera storia della sua vita può suggerire di quale principio si trattasse".  

Ma ecco poi come prosegue, qualche paragrafo più giù: "Nel tardo pomeriggio di un placido giorno autunnale del 1843, il bastimento Thames, in arrivo da St.Louis, approdò al famoso molo di St.Joseph. Mentre la passerella scendeva, e poi nello sbarcare, i passeggeri si trovarono sotto gli sguardi scrutatori di cittadini oziosi, e guerrieri indiani dgli occhi piccoli e scintillanti in cerca di chissà che cosa, e ciurmaglia bianca che sperava in un lavioro occasionale che valesse il prezzo di una bevuta. (...) Se conversò con gli altri passeggeri del Thames, il giovane Johnson sentì probabilmente parlare del vecchio trafficante che aveva fondato la città, Joe Robidoux, rugoso e curvo frontierman dagli occhi astuti, capace d'imbrogliare non soltanto il furbo concorrente come Manuel Lisa, ma persino il suo proprio figlio. (...) Un fucile Hawken calibro 30, nuovo di zecca, costò a Johnson cinquanta dollari, ossia il doppio del prezzo a St.Louis. Quanto alle trappole, scoprì in seguito di averle pagate cinque volte il loro valore. E il pony comanche che fu condotto nel cortile da un indiano Pawnee, e dal trafficante fu garantito capace di correre meglio di qualsiasi cavallo a settentrione del Texas, costò altri cinquanta dollari. (...) A metà mattina, a cavallo del pony comanche e col bagaglio caricato dietro la sella cheyenne, Johnson partì, osservato dal vecchio Joe, che ridacchiava nell'intascare il suo bottino".

Nel film con Robert Redford, l'emporio di Robidoux si vede sullo sfondo, come insegna, ma il regista Sidney Pollack non indugia nel mostrarci il vecchio mercante e gli acquisti di Jeremiah. Ci fa vedere il novello trapper che, lasciato il battello, parte subito verso i monti dopo aver comperato le attrezzature. Il romanzo di Thorp e Bunker, invece, come abbiamo letto, spiega bene chi era Robidoux, com'era il suo emporio, e come il furbastro conduceva i suoi affari. E' chiaro che l'inizio di "Cico trapper", a partire dall' arrivo del battello e della discesa dei passeggeri, è ispirato al romanzo più che al film, e la scena dell'imbroglio fatto da Rubidoux a Cico è la trasposizione in chiave umoristica della realtà presentata dal libro. Il nome di Robidoux è stato cambiato in Rubidoux perché ricorda "rubare". Del libro vengono conservati anche il pony (che diventa un asino) e l'indiano assistente del mercante (che resta un indiano). Anche Bear Claw, il primo trapper incontrato da Cico sulle montagne, è un personaggio del romanzo, che si ritrova poi anche nel film. E proprio dal film è stata ispirata la gag di Cico che spara in aria per attirare gli indiani: nella pellicola, naturalmente, Bear Claw raccomanda il silenzio per non far giungere i pellerossa e Robert Refdord sta zitto, poi gli indiani arrivano lo stesso e la storia prende binari diversi, ma c'è comunque un intento parodico ben preciso che sfugge a chi non conosce il film di Pollack.

La gag di Cico che si arrampica su un albero e i castori glielo fanno cadere è ispirata a una scena analoga di Nolitta (in cui la vicenda era diversa) di un albo fra i primi venti o trenta della serie (che adesso non ricord). Credo di aver migliorato la gag di Nolitta perché io faccio salire Cico sull'albero proprio per cercare i castori, e il fatto che i castori lo abbattano (sono loro a trovare lui) rende lo sketch più divertente di com'era nell' originale, quando Cico era salito sull'albero per tutt'altra faccenda. A pagina 45 Cico fa riferimento a un certo professor Von Handcuff: Handcuff significa "manette", e dunque ho voluto citare il nome del mio amico Francesco Manetti, con cui in quell periodo realizzavo la fanzine “Collezionare” e con il quale avrei fondato di lì a poco la rivista “Dime Press”.  Le gag delle api mi sono venute in mente ripensando a una risposta data da Marcello Toninelli in un'intervista fatta da Collezionare. Toninelli diceva che ormai le gag di Cico erano state tutte scritte, e che restava da farne solo una su Cico apicultore. Mi sono messo a pensare a che cosa poteva succedere a Cico alle prese con le api, e anche se non le alleva ma vuole solo prendere del miele, ho scritto quello chesi legge nell'albo.  La gag dell'orso che abbatte la porta, schiacciando Cico a terra, e poi imperversa nella capanna dei trapper è ispirata a una scena simile di un film con John Candy e Dan Aycroyd intitolato (in italiano) "Non è stata una vacanza, è stata una guerra". Altro non ricordo, ma forse ho ricordato fin troppo. Buona lettura, se leggerete “Cico Trapper”, o lo rileggerete.