martedì 31 gennaio 2012

POCHE PAROLE


Copertina del n° 1
di ZAGOR COLLEZIONE STORICA A COLORI
Illustrazione di Gallieno Ferri


Copertina dello Zagor a striscia I serie n° 1
illustrazione di Galllieno Ferri (1961)



Copertina dello Zagor a striscia I serie n° 2
illustrazione di Galllieno Ferri


Copertina dello Zagor a striscia I serie n° 3
illustrazione di Galllieno Ferri


Copertina dello Zagor a striscia I serie n° 4
illustrazione di Galllieno Ferri


Copertina dello Zagor a striscia I serie n° 5
illustrazione di Galllieno Ferri


Copertina dello Zagor a striscia I serie n° 6
illustrazione di Galllieno Ferri


Copertina dello Zagor a striscia I serie n° 7
illustrazione di Galllieno Ferri


Copertina dello Zagor a striscia I serie n° 8
illustrazione di Galllieno Ferri


Copertina dello Zagor a striscia I serie n° 9
illustrazione di Galllieno Ferri


Copertina dello Zagor a striscia I serie n° 10
illustrazione di Galllieno Ferri

Le cover delle strisce sono state riprodotte dalla collezione di Filippo Tassi.

sabato 28 gennaio 2012

ZAGOR COLLEZIONE STORICA A COLORI

Avevamo cominciato a parlarne qui sul blog già nello scorso febbraio, dopo che comunque la discussione era in atto da tempo sui forum e sulle mailing list: l’anno del cinquantennale zagoriano, dicevo facendomi portavoce di una richiesta diffusa, avrebbe potuto e dovuto essere anche l’anno di una nuova e definitiva ristampa della serie dello Spirito con la Scure. Infatti, tutti i classici di Nolitta e Ferri non sono da tempo più disponibili presso la Bonelli, né come albi originali né come ristampe: l’unico modo per procurarseli (spesso a caro prezzo) è dar loro la caccia sulla bancarelle dell’usato o partecipando alle aste on-line. Eppure si tratta di caposaldi del fumetto italiano.

In agosto ero tornato sull’argomento, pubblicando i dati di un sondaggio fatto fra gli zagoriani per i quali, con il 73% dei favori, la ristampa preferita avrebbe dovuto seguire la falsariga del “Tex di Repubblica”. Intanto, erano cominciate a circolare le prime voci sul fatto che più di un editore, fra cui alcuni nomi di prima grandezza, sarebbe stato interessato a gestire l’iniziativa. Perciò, tra gli aficionados l’attesa cresceva. Sarebbe stato bello poter sciogliere le riserve già a Lucca Comics, quando, abbiamo ricordato Sergio Bonelli in una sala gremita di pubblico. Oppure a Recco, a metà dicembre, dove io e Ferri siamo stati presenti all’ inaugurazione della mostra sullo Spirito con la Scure che ha chiuso le celebrazioni del cinquantennale, cominciate a Istanbul nel novembre precedente. Purtroppo, non tutte le decisioni erano state prese, alcuni accordi andavano perfezionati, mancavano le firme sui contratti. E così, il varo della ristampa ha finito per diventare non uno dei tanti appuntamenti dello scorso anno, ma il principale evento del 2012: quasi una continuazione della grande festa zagoriana del 2011.

Possiamo dunque rompere gli indugi e dare la notizia, che del resto prestissimo verrà del resto pubblicizzata nella Posta e sulla quarta di copertina del prossimo Zenith, il n° 610, “Rotta verso Panama”. La saga dello Spirito con la Scure si appresta a venire ristampata! La fatidica data sarà quella di giovedì 16 febbraio, quando il primo numero di una nuova collana denominata “Zagor Collezione Storica a colori” invaderà tutte le edicole dello Stivale. Si tratta, a tutti gli effetti, di una ideale prosecuzione della “Collezone Storica di Tex”, e i volumi saranno distribuiti, a richiesta, in abbinamento settimanale con La Repubblica e L’Espresso. Il primo numero, addirittura, potrà essere acquistato sia singolarmente, al prezzo di lancio di un solo euro, ma anche ottenuto in regalo comprando l’ultimo volume della serie “Tex Speciale”, a cui sarà abbinato in un unico cellophane. Quindi, chi già prende “Tex Speciale” avrà in regalo anche il n° 1 di “Zagor Collezione Storica”, chi vuole soltanto l’albo di Zagor, lo potrà avere per un euro. Dal numero successivo, in uscita dopo sette giorni, il prezzo sarà di 6,90 euro. I volumi, dello stesso formato quanto ad altezza e larghezza, della “Collezione Storica” di Tex, conteranno 272 pagine, di cui 256 a fumetti, e saranno arricchiti da articoli introduttivi firmati da Luca Raffaelli, Graziano Frediani e dal sottoscritto.

E le copertine? Le abbiamo pensate tutte, ma alla fine la soluzione che ci è parsa la migliore è stata quella di conservare le storiche cover della collana Zenith, firmate da Gallieno Ferri, che sono ancora attualissime e di una efficacia difficile da uguagliare. Vederle ricolorate e stampate in grande formato fa un effetto bellissimo. Non potranno passare inosservate in edicola, ne sono certo. A una riunione a cui ho partecipato, era presente una signora che lavora a Roma nella redazione di Repubblica e che si occupa del confezionamento del prodotto. Mi ha fatto molto piacere sentirla dire, con grande convinzione: “Quando ho saputo che avremmo utilizzato le copertine dell’epoca e non ne avremmo fatte di nuove, sono rimasta un po’ perplessa: che effetto avrebbero avuto dei disegni così datati sul pubblico di oggi? Poi, ho visto le cover e ho detto: mamma mia! Come sono belle! Che grande disegnatore è questo Ferri!”. Ecco, anch’io sono convinto che le vecchie copertine non solo attireranno lo sguardo di tutti coloro che le hanno viste in passato (anche di quelli che non seguono più Zagor) ma cattureranno l’attenzione anche dei più giovani che non conoscono il personaggio. Qualunque altra scelta non avrebbe avuto lo stesso impatto. Questa impressione è stata condivisa, per ora, da chiunque abbia visto in redazione le prime prove di stampa.

Copertina di Zagor 1° serie a striscia n° 2

Il colore di costolina sarà il verde, un verde simile a quello del primo volume cartonato CEPIM. Si tratterà di una ristampa cronologica, per cui si parte con la prima avventura scritta da Nolitta, “La foresta degli agguati” e, con il n° 1, si arriva quasi alla fine della storia dell’Uomo Volante. A seguire, le altre, senza saltarne neppure una. Quanti numeri usciranno? Di sicuro, stiamo lavorando ai primi trenta: ma è soltanto un blocco di lavoro, l’intenzione è di proseguire. Quanto? Dipenderà dal successo dell’iniziativa. Io sono ottimista, perché oltre al tradizionale bacino zagoriano potremo recuperare tanti di coloro che con il tempo si sono allontanati, più quelli che di Zagor hanno soltanto sentito parlare e adesso vogliono vedere di che cosa si tratta. Mi aspetto molto dal tam tam degli appassionati. La ristampa è stata chiesta e perfino implorata per così tanto tempo e con così tanta forza che adesso ciascuno degli zagoriani dovrà quanto meno comprare due copie del primo volume e regalarne una a un amico. In ogni caso, ci saranno pubblicità televisive e radiofoniche. Torneremo a parlarne, perché le cose ancora da dire sono davvero tante.


Copertina di Zagor 1° serie a striscia n° 3


lunedì 23 gennaio 2012

IL CODICE DA VINCI


La biblioteca di Babele 2
Sono stato incoraggiato a continuare e dunque, dato che non mi si deve mai pregare per scrivere, ma solo per smettere dopo che ho cominciato, proseguo con la serie delle mie recensioni iniziate lo scorso mese con la storia di Abelardo ed Eloisa. La rubrica si chiama (forse con un minor spreco di fantasia di quanto qualcuno si aspetta da me) "La biblioteca di Babele". Per ricapitolare di che cosa si tratta, basterà dire che fin dai tempi del liceo, ogni volta che ho letto un libro mi sono appuntato le mie impressioni a caldo scrivendo una piccola recensione che servisse a ricordarmi meglio il contenuto del volume. Con il tempo ho ricopiato sul computer i fogli scritti a mano, e ho cercato di coltivare questa abitudine. Così, ho messo insieme centinaia e centinaia di mini-recensioni, alcune troppo brevi e frettolose per essere pubblicate, altre invece decisamente più elaborate. Mettendole a disposizioni di tutti qui sul blog, spero di suggerire a qualcuno il recupero di qualche libro del passato. Quello di cui parlo più sotto, però, è un romanzo abbastanza recente che probabilmente avete letto tutti. In ogni caso, ecco che cosa mi sono appuntato dopo averne letta l'edizione illustrata.

Dan Brown

IL CODICE DA VINCI
RomanzoMondadori
Edizione Speciale Illustrata
2005
Traduzione di Riccardo Valla
cartonato - 460 pagine

Nei ringraziamenti finali, Dan Brown menziona per primo il suo editor, Jason Kaufman, il quale avrebbe “sinceramente capito il vero significato di questo libro”. C’è dunque da chiedersi quale sia, questo significato. Secondo me, la “chiave di volta”, se ce n’è una ed è quella che serve per capire, è da rintracciarsi nel penultimo capitolo del romanzo, allorché Marie Chauvel spiega a Robert Langdon come la vera storia del Graal (quella ipotizzata dal racconto che si avvia a conclusione, e cioè legata alla metafora del “calice” femminile, in fondo l’ “urna molle e segreta” cantata anche dal Pascoli nel “Gelsomino notturno”) sia stata raccontata per secoli “dall’arte, dalla musica, dai libri, sempre di più, giorno dopo giorno”. E poiché anche Robert sta lavorando a un saggio sul femminino sacro, la donna lo esorta: “Lo pubblichi, signor Langdon. Canti la canzone alla dea. Il mondo ha bisogno di moderni trovatori”. Ecco, quindi, che cos’è “Il codice da Vinci”: una canzone alla dea.
Stupisce, perciò, il livore degli ambienti clericali più integralisti riguardo a un romanzo tutto sommato abbastanza moderato, nel senso che volendo stupire con effetti speciali si potevano inventare versioni alternative della vita di Gesù assai più clamorose e spettacolari. Nulla, nelle ipotesi sostenute dai personaggi, contrasta contro la fede in Dio, né si mette in dubbio la grandezza di Cristo, e perfino i cattivi del racconto, alla fine, non sono riconducibili al Vaticano. Anzi, il “colpevole”, Leigh Teabing, è un nemico giurato della Chiesa di Roma. Personalmente, non sono affatto turbato dall’idea che Gesù possa aver avuto dei fratelli e una moglie (io non mi pronuncio sulla faccenda, ma so di biblisti che ne sono convinti). Non capisco in che modo l’idea di un “figlio di Dio” che si fa uomo possa essere messa in crisi dal fatto che l’accettazione dell’umanità sia portata fino al punto di sposare una donna, o generare una prole, come se questo possa rappresentare un male. Dunque, non vedo nella teoria di un ipotetico matrimonio di nostro Signore nulla che possa far dubitare della sua divinità o mettere in discussione i suoi insegnamenti. Quindi, la congettura è di per sé innocua o, a voler essere proprio drastici, non particolarmente dannosa. Mi chiedo perché non disturbino di più i romanzi e i film sull’Anticristo e sugli esorcisti. Dan Brown, in fondo, parla di amore e di eterno femminino. A me, per assurdo, non interessa particolarmente quel che Brown pensa realmente a proposito del Graal: non è uno scienziato. A me interessa, come lettore di un suo romanzo, quel che partorisce la sua fantasia. Ai mei occhi, fa testo solo il suo racconto, e fa testo solo in quanto fabula.
Infatti, la questione è di lana caprina perché stiamo parlando non delle tesi più o meno eretiche di un teologo, o del saggio di uno storico o comunque di un testo accademico. Forse i detrattori non hanno ben capito che si tratta di un romanzo. Cioè, di fiction. A parlare, e talvolta a citare passi di presunti documenti, sono dei personaggi di fantasia che, come tali, possono inventarsi quello che vogliono. Non mi è parso di scorgere, nelle pagine di Dan Brown, alcuna pretesa di farsi portavoce di qualche presunta verità: l’intento è soltanto quello del romanziere che cerca di accattivarsi la curiosità del lettore, di avvincerlo, di meravigliarlo e stupirlo come il prestigiatore che fa uscire un coniglio dal cilindro. Chi volesse approfondire, insomma, dovrebbe farlo altrove, e non vedo come si possa imputare a un autore ciò che i protagonisti di un suo racconto vanno sproloquiando. Altrimenti, sarebbe come se si rimproverassero a Cervantes i discorsi astrusi di Don Chisciotte o se qualche scienziato rinfacciasse ad Asimov i balzi nell’iperspazio o le Tre Leggi della robotica. E immagino che la fantasia non manchi neppure in molte biografie dei santi dei tempi che furono, come quelli dove si racconta di Santa Brigida che cambiava l’acqua in birra.
Per di più, i personaggi del Codice da Vinci si limitano a riportare tesi già note, finendo per fornire, sì, interpretazioni suggestive di fatti e opere d’arte ma senza nessuna pretesa di documentare alcunché. Alla base del libro c’è, infatti. un saggio di Richard Leigh, Michael Baigent ed Henry Lincoln, The Holy Blood e The Holy Grail (1982), noto in Italia come Il santo Graal (ovviamente, me lo sono procurato). Non a caso, l’anagramma di Teabing è proprio Baigent, e il nome del cattivo, Leigh, richiama il cognome di un altro degli autori. Dunque, se c’è qualcuno con cui prendersela sono proprio gli autori del volume da cui Brown ha preso ispirazione. Ma, del resto, le leggende su Maria Maddalena non le hanno inventate neppure loro. Dunque, davvero non si capiscono gli anatemi. Eppure, il best seller di Dan Brown ha scatenato tutta una infervorata letteratura a smentita, come se si trattasse di un saggio scientifico e non si è avuta una analoga mobilitazione contro Il santo Graal. Mah.

Ai miei occhi, la cosa più incredibile del romanzo è il fatto che la maggior parte degli eventi si svolga nel corso di una notte. Un po’ come accade a Principe Miskin all’inizio dell’Idiota di Dostojevsky, insomma, che in un giorno riesce a fare tante di quelle cose da riempire una settimana. Suona un po’ strano anche il fatto che il vecchio Sauniere, curatore del Louvre, riesca in mezz’ora, prima di morire, ad architettare un così complicato gioco enigmistico perché la nipote, l’esperta in linguaggio cifrati Sophie Neveu. A parte ciò, pur nei limiti di una scrittura senza pretese e non trascendentale, il romanzo è avvincente e affascinante. Cosa non trascurabile, propone un giallo ben architettato, con un colpevole imprevedibile (un alleato di Langdon e Sophie che sembra braccato al pari loro da un misterioso “Maestro” – che pare inviato contro di loro dal Vaticano, mentre così non è), un killer inquietante (un gigantesco monaco albino, Silas), e un potenziale cattivo, su cui cadono inizialmente tutti i sospetti, che poi si rivela innocente (il poliziotto “papista” Fache, della polizia di Parigi). Il protagonista, Langdon, è poi un tipo interessante e si merita un ritorno sulle scene (dopo essere giunto alla sua seconda apparizione proprio con questo romanzo).
Ma sarebbe ingiusto, oltre che sbagliato, parlare del Codice da Vinci soltanto come di un thriller. E’ evidente che, dato l’argomento si cui si indaga, ci sia di più. Personalmente ho trovato poetica e accattivante la lettura (pur di stampo romanzesco) della figura di Cristo che viene proposta: quasi dispiace che non corrisponda del tutto a quella del catechismo. Ma non solo. Tutta la storia dell’umanità, molti miti, una infinità di simboli, centinaia di opere d’arte e decine di personaggi storici finiscono per essere interpretati alla luce del “femminino sacro”, che rimanda alle società matriarcali della preistoria e alla “magia” del sesso (l’orgasmo come ponte di accesso verso la divinità) e della vita (atto creatore della donna). Il Graal dunque non sarebbe una coppa, che del resto è un simbolo femminile, ma sarebbero Maria Maddalena e la sua discendenza. A lei, Dan Brown ha cantato la sua canzone da moderno trovatore. Il che mi pare bello.
L’edizione illustrata della Mondatori che io ho letto, arricchisce ogni passaggio del romanzo con puntali riferimenti iconografici, così efficaci che mi chiedo come possano aver compreso i lettori del romanzo le tante spiegazioni fornite nel testo senza il supporto delle immagini, non presenti nelle altre edizioni.

sabato 21 gennaio 2012

FAMMI ASCOLTARE ANCORA YESTERDAY


Qualche giorno fa, poco lontano da casa mia, è morto un amico. Uno che non ho mai incontrato in vita mia, ma a cui sento di dovere molto. Tanto da andare a fargli visita alle cappelle mortuarie dell'ospedale Versilia, nei pressi di Viareggio.

Vedo varie sale con gente che veglia la salma di un caro estinto, con fuori una targa e il nome del defunto. Sull'ultima cappella in fondo, leggo il suo: Giancarlo Bigazzi. Lo stesso nome letto mille volte fra gli autori di infinite canzoni sentite e cantate in infinite occasioni, da solo e in compagnia: Montagne verdi, L’Eternità, Ti amo, Gloria, Gente di Mare, Non si può morire dentro, Gli uomini non cambiano, Non amarmi, Cenerentola innamorata, Vaffanculo, Bella stronza, Si può dare di più. Entro, sperando di trovarlo e potergli dare il mio personale ultimo saluto, magari dirgli grazie. Ma la stanza è vuota, il compositore è stato già portato via, a Firenze, dove è stata allestita la camera ardente. Bigazzi si era spento nella notte di mercoledì 18 gennaio, dopo un ricovero che durava già da qualche giorno. Aveva 71 anni.

Immagino già i risolini di quelli che se una canzone è italiana, o se ha vinto Sanremo o il Festivalbar, se la cantano nei karaoke e nei piano bar, se ha avuto successo anche all’estero ed è famosa in tutto il mondo, fa schifo per forza perché è stata cantata da Massimo Ranieri, Umberto Tozzi, Marco Masini o Raf. Ridete pure, sapendo però che io non riderò mai dei testi e delle musiche dei grandi che cantano inglese e dunque non vi ripagherò con la stessa moneta, anzi, sarò sempre disposto ad ascoltare tutte le melodie e persino le cacofonie che mi verranno consigliate (pur sapendo che non sarò contraccambiato). Però sappiate che Giancarlo Bigazzi ha fatto piangere, emozionare, ridere e sognare tante di quelle persone che non riuscireste a contarle, e che anche voi, detrattori della canzone italiana, avete dovuto fare i conti con lui tutte le volte che vi siete sorpresi a canticchiare “Luglio” o “Lisa dagli occhi blu”, perché l’avete fatto.

Sorprende lo snobbismo con cui i telegiornali hanno ignorato la scomparsa del compositore toscano. Mi pare di capire che l’unico paroliere di casa nostra a cui si sono innalzati mausolei mentre è ancora in vita sia Mogol, e ovviamente condivido l’ammirazione: ma Bigazzi non era da meno. Soltanto che non si è mai dato arie da artista né, soprattutto, da intellettuale. A lui interessava arrivare dritto al cuore del pubblico e, accusato di ruffianeria, una volta disse: «Se ruffianeria vuol dire toccare le corde profonde dell'anima, chiamatemi ruffiano. Non m'importa se si dice che faccio speculazione con le parole, l'importante per me è far venire la pelle d'oca alla gente». E a me, come a milioni di persone, la pelle si accappona ogni volta che sento cantare, in “Lisa dagli occhi blu”:

Amore fatto di vento
il primo rimpianto
sei stata tu




Nel suo profilo Facebook, Umberto Tozzi ha scritto questo commento: “Cari amici, è con grande dolore che scrivo queste poche righe per parlare del caro Giancarlo Bigazzi che non è più tra noi. Ed è difficile parlarne, un po’ perché non riesco a esprimere l’uragano di sentimenti e di ricordi che ho nel cuore e un po’ perché è difficile salutare una persona che ha fatto cose talmente grandi che resteranno per sempre nella storia della musica italiana. Non posso e non voglio, in questo momento, fare celebrazioni retoriche che io non amo e che di certo lui non avrebbe voluto. Perché Giancarlo è una persona verace, istintiva, selvaggia, e sono proprio queste caratteristiche che ne hanno fatto un musicista al servizio della musica. Vedete, mi viene spontaneo scriverne al presente: gli anni passano, ma quello che abbiamo fatto insieme è qualcosa senza tempo. E allora so quale sarà l’unico modo giusto per parlare di Giancarlo: cantare. Cantare quelle canzoni che tanta fortuna hanno portato a me e a lui, e che tanta gioia di vivere hanno portato a tutti voi. Ogni volta che le canterò non avrò bisogno di spiegare tante cose. Perché loro parleranno, come hanno fatto in tanti anni, e come faranno di certo per tanti anni ancora”.


Mi colpisce una espressione: “quelle canzoni che tanta gioia di vivere hanno portato a tutti voi”. Mi sembra questo l’aspetto più importante da cogliere. Al diavolo gli atteggiamenti snob e la puzza sotto il naso, gli steccati e le categorie, quelli che solo il rock o il jazz, quelli che soltanto loro ci capiscono. “Montagne verdi” ha portato tanta di quella gioia di vivere che basterebbe per fare al suo paroliere un monumento.




Mi ricordo montagne verdi
E le corse di una bambina
Con l’amico mio più sincero
Un coniglio dal muso nero
Poi un giorno mi prese il treno
L’erba, il prato e quello ch’era mio
Scomparivano piano piano
E piangendo parlai con Dio.


Ho già scritto una volta qualcosa qui sul blog sull’importanza dei testi delle canzoni. La poesia, quella “ufficiale”, dicevo, non raggiunge quasi più il cuore di nessuno. Sono i testi delle canzoni che hanno assunto il compito della poesia, nella società: sono loro che descrivono i moti dell'animo, che assolvono una funzione catartica o liberatoria, o che incitano a reagire, o illuminano di nuova luce il reale o veicolano idee o semplicemente fanno sognare. Sono i versi dei parolieri e dei cantautori che passano di bocca in bocca, vengono imparati a memoria, ripetuti nelle riunioni fra amici, rimuginati nei momenti di solitudine. Ognuno ha la sua canzone che almeno una volta lo ha fatto piangere. La letteratura italiana nasce dopo che i trovatori provenzali, tra il XII e il XIV secolo, hanno cominciato a scrivere versi in volgare, in un neolatino chiamato lingua d'oc (oggi scomparsa, dato che il francese moderno deriva da un altro neolatino, la lingua d'oil). Ebbene, i versi di quei trovatori erano scritti per essere cantati. Non sappiamo esattamente quali fossero le melodie, ma la nostra storia letteraria nasce da lì.

E potrebbero essere stati scritti da un trovatore i versi, messi in musica da Totò Savio, con cui Bigazzi, in “Vent’anni”, fa cantare a Massimo Ranieri la storia della sua giovane vita:

La mia vita cominciò
Come l’erba come il fiore
E mia madre mi baciò
Come fossi il primo amore.


Si parla dell’amore di una mamma (un argomento su cui l’autore sarebbe tornato altre volte, per esempio in “Love”, scritta con Umberto Tozzi), ma ovviamente l’amore che ispira più canzoni è quello fra un uomo e una donna, e io trovo meraviglioso il testo di “Eternità”, cantato dai Camaleonti (la musica è di Claudio Cavallaro) e da Ornella Vanoni. Un uomo guarda la propria donna che dorme, serena, accanto a lui e si rende conto che l’eternità è in quell’attimo:

Eternità,
spalanca le tue braccia
io sono qua
accanto alla felicità che dorme
per lei vivrò
e quando avrà bisogno
io ci sarò
ad asciugare le sue lacrime.



Non so voi, ma io mi emoziono. Sarà perché certe cose le ho provate anch’io. Come mi emozionano questi altri versi, scritti da Bigazzi per Gianni Bella (sua la musica anche di “Montagne verdi”), nella canzone “Non si può morire dentro”:

Se il nostro amore è
Un altro fallimento
Non me la prenderò con te con lui o con il vento
Perché son stato io
A sollevarti il mento
Perché non ti comprai
E adesso non ti vendo.


Gianni Bella è forse il primo degli artisti di cui Bigazzi è stato in qualche modo il mentore, l’idol maker, il produttore oltre che il paroliere. Ma altri ce ne sarebbero stati, perché un grande merito di Giancarlo era quello di essere un talent scout dal grande fiuto e di saper far fruttare al massimo il feeling che si creava fra lui e i musicisti con cui decideva di collaborare. La collaborazione più fruttuosa è stata sicuramente quella con Umberto Tozzi, da lui messo sotto contratto giovanissimo, subito dopo la vittoria a “Canzonissima” di “Un corpo e un’anima”, portata al successo da Wess e Dori Ghezzi ma scritta da Tozzi con Damiano Dattoli, con cui Umberto aveva da poco dato vita al gruppo dei “Data” e inciso l’album “Strada bianca”.

Il duo Bigazzi-Tozzi avrebbe prodotto successi planetari come Donna amante mia, Io camminerò, Ti Amo, Tu, Gloria, Stella Stai, Notte Rosa, Eva, Si può dare di più. Vale la pena di leggere che cosa scrive lo stesso Umberto del suo primo incontro con Giancarlo, in un brano tratto da “Non solo io”, l’autobiografia del cantautore pubblicata da Aliberti (2009).



Piero Sugar mi comunicò che, se lo desideravo, Giancarlo Bigazzi mi avrebbe ospitato a casa sua a Firenze, per scrivere insieme qualche canzone. La prospettiva di confrontarmi con in autore già affermato e famoso e la smania di veder nascere nuove canzoni, mi rasserenava. Mi dovetti quindi decidere ad affrontare il viaggio a Firenze. Così, con la mia chitarra acustica (una Martin D28 che Oscar Prudente, coautore e caro amico di Ivano Fossati, mi aveva portato dall’America), una valigia e qualche indumento, mi misi in marcia per raggiungere il capoluogo toscano con la mia Fiat 127. Non fu facile trovare la dimora di Giancarlo sulle colline fiesolane. La villa era ancora in fase di ristrutturazione, cosa che scatenava nel proprietario indicibili stati d’ansia. L’abitazione si sviluppava su due piani, con un ampio giardino tutt’intorno che ospitava una grande depandance-studio arredata solo con un pianoforte gran coda e un sacco da pugilato pendente dal soffitto e puntualmente preso a cazzotti da Bigazzi quando doveva scaricare le proprie tensioni. Da lì si godeva uno spettacolare panorama: di fronte si vedeva la piscina e, a scendere verso l’orizzonte, tanti alberi d’ulivo che a tratti nascondevano alla vista i tetti delle case di Firenze. Una visione magica che infondeva calma e serenità. Giancarlo mi accolse al cancello e mi condusse subito nella camera da letto che mi aveva riservato. In casa, mi accolse la moglie Gianna, una donna bellissima dai capelli rossi. Dopo cena, fui invitato ad andare nello studio. Rimasi subito colpito dalla diversità dei nostri ritmi di vita: Giancarlo conduceva un’esistenza frenetica, era superattivo e ansioso. Volle subito capire se tra lui e me sarebbe potuto scattare un feeling musicale: si sedette al pianoforte invitandomi a suonare la chitarra. Accordo dopo accordo ci saremmo presto resi conto se sarebbe stato il caso, o meno, di creare insieme nuove canzoni. Anche nel comporre eravamo molto diversi. Traduceva un’idea musicale in matematica, non seguiva un’ispirazione di tipo artistico, e ciò venne molto utile per dare un ordine alle molte note che mi vorticavano in testa e che spesso non riuscivo a controllare. Intrapresi così questo nuovo viaggio accompagnato dal mio istinto e sotto l’egida della grande figura professionale di Giancarlo Bigazzi. Stavo vivendo e scoprendo un mondo inaspettato, nuovo e intrigante. Un mondo in cui potevo finalmente intravedere il mio futuro, con obiettivi chiari e lucidi che mi facevano ben sperare. La cosa, però, che più mi disturbava, era l’eccessiva serietà con la quale gli altri intorno a me vivevano questa professione, specialmente l’ansia che mi trasmetteva Giancarlo diventava a volte insopportabile”.

Colpiscono i riferimenti che Tozzi fa all’ansia e al carattere difficile che caratterizzavano Bigazzi, e che molte altre testimonianze confermano (tant’è vero che non mancarono i litigi, anche aspri, con tutti i suoi collaboratori). Ma, d’altro canto, Giancarlo aveva la capacità di imbrigliare e disciplinare il talento altrui, aiutandoli a condurre in porto progetti di successo. E che successi: dopo Tozzi, Bigazzi lancia Raf e Marco Masini, scrivendo i testi della stragrande maggioranza dei loro successi (da “Inevitabile follia” a “Ti pretendo” nel primo caso, alle tante hit del secondo, come “T’innamorerai” o “Bella stronza”).
Rimango sempre ipnotizzato da “Ci vorrebbe il mare”:

Ci vorrebbe il mare
Che accarezza i piedi
Mentre si cammina verso un punto che non vedi
Ci vorrebbe il mare
Su questo cemento
Ci vorrebbe il sole col suo oro e col suo argento
E per questo amore
Figlio di un’estate
Ci vorrebbe il sale per guarire le ferite


Ma, nonostante le serratissime collaborazioni con i suoi protetti, riesce a scrivere canzoni per tanti altri artisti: Mia Martini, Mina, Aleandro Baldi, Gianni Morandi, Claudia Mori, Adriano Celentano. Ma, da buon fiorentino amante della goliardia, dà vita anche al gruppo degli Squallor insieme agli amici Daniele Pace, Totò Savio e Alfredo Cerruti. Il primo disco, “38 luglio”, nasce per scherzo: eppure in breve la band di rock demenziale arriva a vendere l’inverosimile. Album come “Arrapaho” e “Uccelli d’Italia” arrivano a tirare milioni di copie e ispirano persino dei film, oltre ad aprire la strada agli Skiantos e ad Elio e le Storie Tese. Bigazzi non era solo un paroliere e un produttore di talento, ma anche un compositore di musica. Sua, per esempio, è la colonna sonora del film “Mediterreaneo” di Gabriele Salvatores, pellicola del 1991 premiata con l’Oscar.

Sbaglia chi crede Bigazzi autore di soli testi facili. Non è facile il testo di “Gli uomini non cambiano”, cantata da Mia Martini.

Gli uomini non cambiano
Fanno i soldi per comprarti e poi ti vendono
E la notte gli uomini non tornano
E ti danno tutto quello che non vuoi
Ma perché gli uomini che nascono
Sono figli delle donne
Ma non sono come noi?



E poi, c’è la grande attenzione al sociale, evidentissima in decine di brani, da “Gesù che prendi il tram” (dove arriva a scrivere: “compagno Gesù”) a “Si può dare di più”, passando per “Gli altri siamo noi”, tutti musicati da Tozzi:

Ci somigliano angeli e avvoltoi
Come specchi gli occhi nei volti
Perché gli altri siamo noi
I muri vanno giù
al soffio di un’idea
Allah come Gesù
In chiesa o dentro a una moschea
E gli altri siamo noi
Ma qui sulla stessa via
Vigliaccamente eroi
Lasciamo indietro i pezzi di altri noi
Che ci aspettano e si chiedono
Perché nascono e subito muoiono
Forse rondini foglie d’Africa
Ci sorridono di malinconia
tutti vittime e carnefici
tanto prima o poi gli altri siamo noi.


Però, io sono sempre rimasto incantato dal Bigazzi poeta dei moti del cuore, quello che suscita emozioni, come in “Marea”:

Marea
Di fiordalisi stesi
A perdita di idea
A perdita di te

O in “Il marinaio delle stelle

Il marinaio delle stelle
Ha un tatuaggio di brillanti sulla schiena
E non vederlo è la sua pena.

O “Io camminerò”:

Bianchi zingari i passi tuoi
Nell’anima il silenzio da quanto tempo hai
Io d’amore ti vestirò
E non dovrai tremare dove io ti porterò.
Io camminerò
Tu mi seguirai
Angeli braccati noi
Ci sarà un cielo
Io lavorerò
Tu mi aspetterai
E una sera impazzirò
Quando mi dirai
Che un figlio avrai, avrò.

O “Tu sei di me”:

Tu sei di me
la voce che canta
Tu sei di me
la mano che pianta
una quercia bambina,
tu sei la mattina.


O “Please”:

Please
Chiamami chiamami grida sussurra telefona
Ogni tanto chiama
Chiamami chiamami grida sussurra telefona
Se sei sola e vuoi che usciamo a cena
Chiamami chiamami grida sussurra telefona
Anche se solo mi penserai
C’è sempre un fuoco un che di telepatico
Fra chi si è amato
E si ama ancora.


Tutte canzoni di Tozzi, la cui musica permette a Bigazzi di sperimentare (com’è evidente nell’allitterazione di “se sei sola” o nell’onomatopeico “chiamami chiamami grida sussurra telefona”) effetti musicali fatti con il suono delle parole. Ricordo ancora che una volta, nell’estate del 1980, dopo aver sentito “Stella stai” alla radio, un mio amico si meravigliò nello scoprire che a cantarla era appunto un italiano e il testo nella nostra lingua: gli era sembrata una canzone in inglese. Infatti, il testo non ha senso, sono parole giustapposte per creare un musica:

corpoaformadies
dolcepiede sulmiogas
quandovo quandosto
per sospirarti di blu


E che dire del perfetto nonsense “scivola scivola scivola” messo lì solo per creare un suono gradevole da sentire e da cui essere affascinato? Mi ha sempre incantato. Ci sento l'eco del Burchiello, il poeta nonsense del Quattrocento fiorentino, che componeva perfetti endecasillabi del tipo "nominativi fritti e mappamondi". E di questi esperimenti in cui il testo sembra folle ma in realtà è messo al servizio della musica ce ne sono tantissimi, da “Mama”:

nel mio cuore c’è un rammendo
o un ricamo chi lo sa
di un’estate tamarindo
spenta troppo tempo fa

a “Ti amo”, dove i versi sono ossessivi come è ossessiva la melodia e come è ossessivo l’amore.
E poi c’è il Bigazzi incazzato, e coraggioso nella potenza di certe frasi, come in “Bella stronza” (Masini):

Mi verrebbe di strapparti quei vestiti da puttana
E tenerti a gambe aperte finché viene domattina.

Ma, da questo punto di vista il suo capolavoro è “Vaffanculo”, catartico è liberatorio e da cantare a squarciagola:


Me ne andrò nel rumore dei fischi
Sarò io a liberarvi di me
Di quel pazzo che grida nei dischi
Il bisogno d’amore che c’è
Ora basta
Io sto male
Non è giusto
Vaffanculo.



Ci sono poi le canzoni in cui lo stesso Bigazzi parla del suo lavoro di paroliere e di compositore, come in “Passerà” di Aleandro Baldi:

le canzoni non si scrivono
ma nascono da sé
son le cose che succedono
ogni giorno intorno a noi

le canzoni basta coglierle
ce n'e' una anche per te
che fai piu' fatica a vivere
e non sorridi mai

le canzoni sono zingare
e rubano poesie
sono inganni come pillole
della felicita'

le canzoni non guariscono
amori e malattie
ma quel piccolo dolore
che l'esistere ci dà.


O come in “E se non canto” di Umberto Tozzi:

E se non canto che cos’altro posso fare
In questo mondo di bandiere
In questo mondo che d’amore ha sete e fame
Io se non canto mi si aprono le vene
E se non canto posso fare il falegname
Ma costruirei solo chitarre
E se mi dessero un milione a non far niente
Mi sentirei dietro le sbarre se non canto.


Si canta per non sentirsi dietro le sbarre e per guarire dal male di vivere, dunque.
E’ l’ansia di libertà di un altro grande successo di Tozzi, “Zingaro:”

Zingaro voglio vivere come te,
andare dove mi pare non come me,
e quando trovi uno spazio nella città,
montare la giostra e il disco di un anno fa

Zingaro senti l'ossido di che sa
attento a non ammalarti di civiltà

La notte io dormo al fuoco se tocca a me
ma zingaro voglio vivere come te
Abito là ma vengo via
Costa un'enormità e poi non c'è più poesia


Come salutare Bigazzi, se non cantando, come propone Tozzi?
C’è una canzone che Giancarlo ha dedicato alla terra di origine della sua famiglia, la Maremma, là dove andava a scrivere talvolta le sue composizioni. Significativamente, il brano si intitola"Mamma Maremma", è piena di memorie di una vita contadina che non c’è più e di voglia di tornare a cercare le proprie radici. Comincia così:

E va, il treno sulla spiaggia va
Ma dove sei, estate del 56?
Grosseto è ormai metropoli
La strada più bianca della vita mia
Mia madre che voleva ti chiamassi zia
Ma fra di noi c’era un segreto.

Mamma Maremma che allegria
Mangiar polenta in casa tua
Mamma Maremma il fuoco a letto
Poggiar la testa sul tuo petto


E per finire, una preghiera.
E’ quella di “Tu (domani)", in cui Bigazzi si rivolge al Signore e conclude così:

E quando sarà vecchio e triste Dio
Fammi ascoltare ancora Yesterday
E poi fammi morire accanto a lei.





PLAYLIST MINIMA di GIANCARLO BIGAZZI
escludendo le canzoni di Umberto Tozzi e Marco Masini

1968: Luglio - Riccardo Del Turco

1968: Rose rosse - Massimo Ranieri

1968: Il Carnevale - Caterina Caselli

1969: Lisa dagli occhi blu - Mario Tessuto

1969: Cosa hai messo nel caffè - Antoine / Riccardo Del Turco

1969: Se bruciasse la città - Massimo Ranieri

1970: Eternità - I Camaleonti / Ornella Vanoni

1970: Lady Barbara - Renato dei Profeti

1970: Vent'anni - Massimo Ranieri

1971: 38 luglio - Gli Squallor

1972: Montagne verdi – Marcella

1972: Sole che nasce, sole che muore – Marcella

1972: Erba di casa mia - Massimo Ranieri

1972: Mani mani - Loretta Goggi

1973: Perchè ti amo - I Camaleonti

1973: Io domani – Marcella

1973: Un sorriso e poi perdonami – Marcella

1973: Come sei bella - I Camaleonti

1974: Nessuno mai – Marcella

1974: Il campo delle fragole - I Camaleonti

1974: Più ci penso - Gianni Bella

1975: Piccola Venere - I Camaleonti

1975: Negro – Marcella

1976: Non si può morire dentro - Gianni Bella

1977: Io canto e tu - Gianni Bella

1978: No - Gianni Bella

1979: Toc toc - Gianni Bella

1980: Innamorarsi - Ornella Vanoni

1981: Questo amore non si tocca - Gianni Bella

1981: Pensa per te – Marcella

1982: Non succederà più - Claudia Mori

1983: Arrapaho - Gli Squallor

1983: Self control – Raf

1984: Nel silenzio splende - Gianni Morandi

1984: Un amore grande - Loretta Goggi

1986: Manzo - Gli Squallor

1987: Gente di mare - Umberto Tozzi & Raf

1987: Si può dare di più - Umberto Tozzi & Gianni Morandi & Enrico Ruggeri

1988: Inevitabile follia – Raf

1989: Cosa resterà degli anni '80 – Raf

1989: Ti pretendo – Raf

1992: Gli uomini non cambiano - Mia Martini

1992: Rapsodia - Mia Martini

1992: Non amarmi - Francesca Alotta & Aleandro Baldi

1994: Passerà - Aleandro Baldi

1996: Soli al bar - Aleandro Baldi & Marco Guerzoni

2002: Accidenti a te – Fiordaliso

2003: Non si cresce mai - Bobby Solo & Little Tony


giovedì 19 gennaio 2012

L'ISOLA DEL MISTERO


E’ davvero singolare il fatto che, per una incredibile fatalità, il Maxi Zagor da poco uscito in edicola, “Il mistero dell’isola” abbia la copertina che vedete poco sotto, e all'interno sia pieno delle classiche scene di panico che si vivono sulle navi che stanno per affondare, proprio mentre sui giornali e in TV scorrono le immagini del naufragio della Costa Concordia. Tuttavia il caso ha voluto così, e nè io (l’autore dei testi) nè Alessandro Chiarolla (l’autore dei disegni) potevamo prevederlo.

Nell'estate 2008 a ispirarmi questa storia, piuttosto insolita per struttura narrativa e piena di personaggi è stato il serial TV "Lost". Non ne ho mai vista una sola puntata (e me ne dispiace), ma ne ho sentito parlare e ho letto quel che se ne diceva sui giornali. Quando ho iniziato la sceneggiatura, ancora la serie non era finita e dunque non si sapeva quale fosse la spiegazione di tutto l'ambaradan (ammesso che oggi lo si sappia). Il fatto di non essere mai stato uno spettatore di “Lost” mi ha impedito, sicuramente, di esserne influenzato e perfino di “citare” nomi e situazioni. Tuttavia, ho voluto iniziare proprio con un naufragio su un’isola misteriosa e poi raccontare in vari flashback ciò che era accaduto prima.

Un altro spunto è venuto dal romanzo di Victor Hugo “I lavoratori del mare”, dove una tempesta incastra un grosso battello a vapore in mezzo a due scogli esattamente come si vede nella copertina di Ferri. Ricordo che da ragazzo vidi una illustrazione che la raffigurava (la vedete in basso) e ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto poter sfruttare quella suggestiva immagine.

Sandro Chiarolla, bontà sua, si è detto entusiasta del racconto mentre lo portava avanti con l'estro che lo contraddistingue, difficile da imbrigliare ma appunto per questo in grado di dare straordinari risultati a livello emotivo per dinamicità, espressività e suggestioni scenografiche. A mio parere questo Maxi è il suo miglior lavoro da quando presta il suo tratto graffiato allo Spirito con la Scure. Le lettrici, del resto, di solito sono concordi nel dire che il suo è lo Zagor più fico di tutti.

Sono stato lieto nel sentire giudizi positivi quasi unanimi sul suo lavoro da parte dai primi zagoriani che hanno letto il Maxi, che hanno anche imparato a conoscere l'umanità di Sandro durante gli incontri con il pubblico. E pensare che non è stato sempre così. Inizialmente, Chiarolla sembrava avere un tratto troppo diverso da quello tradizionale e non tutti lo apprezzavano. C'è stato anche un momento, quello per esempio dell' "Orribile Maledizione", "La valle del vento" o anche "La lunga marcia", in cui il suo estro pittorico lo aveva portato a differenziarsi ancora di più e a cercare soluzioni estrose e grafismi estremi di cui nessuno metteva in dubbio la genialità, ma che creavano un effetto straniante nel lettore. Qualcuno diceva che Chiarolla poteva andar bene per Dylan Dog ma non per Zagor. Io e Sandro abbiamo fatto un lungo lavoro insieme, basato su consigli, raccomandazioni, vignette ridisegnate, continue ricerche di soluzioni e i risultati si sono visti. Sandro non è diverso da se stesso, visto che il suo stile è inconfondibile, ma ha preso le misure alla serie. Così, non è una sorpresa per me leggere su un forum un lettore che scrive: “La storia è intrigante, piena di pathos, paura e terrore, ottima l'idea dei flashback. Eccellente il lavoro di Chiarolla, che è perfettamente a suo agio in quest'avventura marinaresca. Uno dei migliori maxi di sempre”. Peraltro, ho letto commenti molto positivi proprio sulla collana dei Maxi che, in parecchi, giudicano una buona serie a livello complessivo. Il che mi moooolto piacere, vista la fatica che costa scriverla, disegnarla, revisionarla e mandarla in edicola due volte all’anno.

Ovviamente, mi sono giunte alcune critiche da parte dei (soliti) detrattori. Mi pare giusto, oltre che inevitabile. Potrebbe essere interessante approfondirne alcune. Mi sono chiesto a lungo se sia o non sia il caso rispondere a chi si chiede perché Zagor non si tagli se si fa la barba a bordo di una nave mentre c’è il mare mosso. Tuttavia, finché non mi si chiede perché il movimento delle onde non rovesci il vaso da notte di Cico, non mi sottraggo all’obbligo del chiarimento: evidentemente, in due giorni di tempesta ci sono stati cinque minuti di tregua di cui il rude Spirito con la Scure, che teme moltissimo i taglietti, ha approfittato.

I due giorni di tempesta hanno incuriosito anche chi si domanda perché Zagor resti in cabina obbedendo all’ordine dell'ufficiale che ce li ha messi dentro. Non so: potrebbe essere una risposta dire che sono rimasti lì perché la porta era chiusa a chiave? Zagor è in attesa di chiarire la sua posizione (a tutti gli effetti è un clandestino a bordo di una nave su cui ci sono stati degli omicidi), c’è una tempesta in corso per cui anche i passeggeri con regolare biglietto sono invitati a restare sottocoperta, il nostro eroe non vuole peggiorare la sua posizione sfondando la porta e uscendo a fare il gradasso mentre i marinai lottano per la salvezza della nave, non mi sembra così strano che, pur con un certo nervosismo, anche uno come il re di Darkwood preferisca attendere gli eventi per qualche ora. Niente vieta di credere che abbia più volte insistito per poter uscire, ma evidentemente chi lo ha chiuso in cella gli ha chiesto di aspettare dato che ci sono problemi più gravi che occuparsi di lui. Zagor dunque attende, sicuramente invitato a stare calmo anche da Cico. Quando poi è chiaro che la situazione degenera, il nostro eroe sfonda la porta ed esce. A me questa ricostruzione dei fatti pare, oltre che credibile, del tutto logica e razionale: immaginavo che tutti fossero in grado di arrivarci da soli. Non è così. Forse servivano un po’ di spiegazioni in più.

No, le spiegazioni però no. Perché poi, gli stessi che si chiedono il perché dei mancati taglietti nel farsi la barba, non sopportano che si spieghi quello che magari così chiaro non è. Da qui in poi, occhio allo spoiler (se non avete letto la storia). A un certo punto, c’è qualcuno che suona una grossa conchiglia come se fosse una specie di tromba. Zagor, che fino a quel momento si è chiesto che cosa fosse quel suono, pensa: “Evidentemente funge da segnale o da richiamo per gli altri guerrieri”. Apriti cielo e spalancati terra. Il nostro eroe non doveva pensarlo: mica avrà creduto che quel tipo si stesse facendo “una suonatina per i tazzi suoi”. Sinceramente, fra tante possibili critiche, questa mi sembra davvero ridicola. Se io, senza sapere degli usi e costumi di un popolo sconosciuto, vedessi un tipo che sventola una coperta sul fumo di un piccolo falò, e ci riflettessi sopra, potrei fare varie ipotesi. Vediamo: 1) la coperta è infestata da tarme o da cimici e quello è un buon sistema per disinfestarla; 2) il fuoco va ravvivato e gli si fa vento; 3) la religione di quella gente impone un rito tradizionale propiziatorio che viene fatto così; 4) si fanno dei segnali a qualcuno che vede le nuvole di fumo da lontano; 5) il tipo è uno un po’ bizzarro che fa cose senza senso. Se io mi convincessi che è vera l’ipotesi 4), perché non potrei esprimere il mio convincimento? Peraltro, su Zagor si usa seguire il corso dei pensieri dei personaggi: se uno adotta una risoluzione (“devo sbrigarmi”) o fa delle ipotesi, l’usanza è di accennarlo, perché tutti noi, nella vita quotidiana, abbiamo quel tipo di pensieri.

Singolarmente, quando Zagor trova un dente di Carcharodon megalodon, un grande squalo preistorico, e non riconosce la specie (o almeno, non lo dice), ecco il lettore supercritico inalberarsi: “la somiglianza di quel dente con quelli di squalo è netta (io l’ho pensato subito a pagina 100). Perché a Zagor non gli viene in mente dato che è sempre così prodigo di ipotesi?”. Ecco, qui invece bisognava che Zagor (che vive in una foresta e non è poi così esperto di denti di squalo) si improvvisasse biologo marino e tenesse una conferenza sui selaci (specie estinte comprese), magari spiegando perché quei pesci hanno scheletri cartilaginei ma denti ossei. Come diceva Totò: ma mi faccia il piacere.

Concludendo: se non spieghi, avresti dovuto spiegare; se spieghi, non avresti dovuto spiegare. Che poi, alla fine, uno spiega anche per il terrore del lettore che chiede spiegazioni. La faccenda dello spiegazionismo a questo punto, con tutta la buona volontà, va risolta così: lo stile tradizionale nolittiano lo impone. Punto e basta. E' Sergio Bonelli stesso a ribadirlo, nel libro-intervista "Come Tex non c'è nessuno", a Franco Busatta. Secondo Busatta, lo stile narrativo di Nolitta può essere definito “didascalico”. Cioè, che intende accompagnare per mano il lettore all’interno della storia. E Sergio commenta: “E’ vero. Nel racconto bonelliano lo svolgimento della vicenda deve sempre essere molto chiaro e ben spiegato. Anche perché le nostre pubblicazioni sono pensate non tanto per l’intenditore, per il cultore del fumetto, ma soprattutto per il lettore, appassionato o occasionale, per il fruitore distratto, che magari vuole da un fumetto soltanto mezz’ora di spensierata, distensiva lettura”.

Sono almeno un paio i passaggi del Maxi dove io non avevo spiegato qualcosa, e le letture redazionali di altri colleghi mi hanno invitato a meglio chiarire per superare un punto oscuro o una possibile obiezione. Così si fa, qui da noi. Chi non apprezza i dialoghi che "accompagnano per mano" il lettore, cerchi di spportarli: in fondo, è sempre meglio essere chiari, che oscuri. E di solito, chi è chiaro viene meglio capito.

Infine, la "morale". Ricevo in redazione la telefonata (fra le tante) di un lettore torinese, entusiasta. Oltre a fare apprezzamenti sulla storia, il lettore sottolinea il mio "coraggio" nell'aver scelto un tema politicamente scorretto (nell'attribuzione del ruolo dei "cattivi"). Per fortuna, dice lui, nell'ultima tavola è stato chiarito che, in qualche modo, i carnefici sono a loro volta delle vittime. Una perfetta "morale" nolittiana, concordiamo entrambi. Ma ecco l'implacabile detrattore sul forum: "Voto 5 alla morale finale. Se Zagor fosse andato a scuola sarebbe stato di sicuro il cocchino della maestra". Olè: non paga più neppure la nolittianità. Zagor dovrebbe diventare quel che non è mai stato: un cinico. E a noi autori, che siamo stati politically incorrect per 285 tavole, ma cerchiamo di salvarci in corner dalle possibili critiche dei buonisti a pagina 286, questo non basta per accontentare i fautori della scorrettezza: bisognava essere cattivi fino in fondo. Implacabili come i detrattori, giustamente.

domenica 15 gennaio 2012

IL NONNO


Arriva finalmente in distribuzione il libro “Dal Risorgimento alla Resistenza: storie di Toscani che fecero l’Italia”, un progetto della Fondazione Sistema Toscana (dunque della Regione), a cui anch’io ho collaborato con lo staff di Lucca Comics & Games. La presentazione ufficiale reca la data del 16 gennaio, alle ore 12,15 presso la Mediateca di Via San Gallo a Firenze. Il volume, che contiene dieci racconti a fumetti, vanta una introduzione disegnata del grande Sergio Staino. Ve ne avevo già parlato e ancora ve ne parlerò nei prossimi giorni quando avrò fra le mani la prima copia e ci sarà modo di approfondirne le tematiche che sono, ve lo assicuro, tutte molto interessanti. Nell’attesa, vorrei cominciare a dirvi qualcosa sul racconto che porta la mia firma (i disegni sono del bravo Riccardo Pieruccini, con cui ho già realizzato il volume "La frontiera di ghiaccio").


Va innanzitutto premesso che quando mi è stato chiesto, dallo staff di Lucca Comics & Games con cui ho dato vita al progetto “Seconda Creazione”, di ideare un volume a fumetti che raccontasse l’Unità d’Italia dal punto di vista dei toscani, ho subito pensato che si poteva partire dalle dieci province che (almeno per il momento) compongono la Toscana. Se avessimo fatto dieci racconti, ciascuno ambientato nei dintorni di uno dei capoluoghi o con protagonisti personaggi nati in quei luoghi, avremmo ottenuto cento pagine a fumetti. Se poi queste pagine fossero state disegnate da autori toscani, magari scelti proprio fra gente originaria da quelle province o dalle zone limitrofe, sarebbe stato fantastico. Dato che c’era la possibilità e l’intenzione di valorizzare il lavoro di alcuni giovani autori, ecco l’idea di rivolgersi alla Scuola del Fumetto di Firenze, guidata da Marco Bianchini, per mettere insieme uno staff fresco e motivato. L’unico matusa ho finito per essere io, che oltre a fare da editor ai più giovani, ho imposto che la storia della provincia di Pistoia (dove sono nato) portasse la mia firma. Dopodiché, con gli amici di Lucca Comics, abbiamo individuato i dieci argomenti e i dieci personaggi e li abbiamo affidato agli sceneggiatori e ai disegnatori selezionati dalla Scuola, in gran parte collegati appunto al territorio. E qui mi fermo, rimandando a un prossimo futuro il racconto di come si è sviluppato il progetto nel corso di un anno di lavoro.


Per il momento, vorrei limitarmi ad approfondire com’è nata la storia realizzata da me e Pieruccini, intitolata “La tomba scomparsa” (ne vedete qui accanto una tavola). E per farlo, devo parlarvi del nonno. Incredibile ma vero, da qualche anno io chiamo regolarmente “il nonno” un personaggio molto famoso (anche se pochi, forse, saprebbero dire con esattezza perché gli sono state dedicate tante vie e tante piazze): nientemeno che Massimo D’Azeglio, il signore nel ritratto in apertura. Sarà meglio che spieghi, anche in ossequio alla mia fama di spiegazionista.

E’ successo infatti che mi sia messo a leggere uno dei suoi libri, sicuramente il più fresco e divertente, ancora oggi godibilissimo, benché rimasto incompiuto: “I miei ricordi” (ma oltre che scrittore, D’Azeglio fu anche pittore, musicista, diplomatico e uomo politico). Nell’introduzione intitolata “Origine e scopo dell’opera”, si trova scritto: “Delle cose serie, mi vien fatto assai sovente vedere il lato ridicolo, come delle cose ridicole mi si presenta tosto il lato serio”. Viene spontaneo entrare in sintonia con l’autore, che smette di essere il nome citato nei libri di scuola per diventare un amico. Mi ritrovo a tal punto, fatte salve le differenze di epoca e di condizione sociale, negli atteggiamenti e nello spirito del nobiluomo, da sentirlo pagina dopo pagina sempre più vicino a me. Finisce che mi leggo "I miei ricordi" divorandoli come se fossero l'ultimo giallo di Jeffrey Deaver. Anzi, andando avanti con la lettura, ogni episodio narrato con piglio brillante mi porta a farmi sospettare d’essere io stesso la reincarnazione del Taparelli (questo il vero cognome del Marchese, essendo D’Azeglio solo l’indicazione dei possedimenti di famiglia, come Cavour per Camillo Benso).


Di certo, ci sarebbe da escludere che io ne sia un discendente: di povere origini, inequivocabilmente toscane e montanine, il sottoscritto, nobile piemontese d'alto lignaggio il Taparelli. Sennonché, ecco che nel capitolo trentaduesimo del suo libro di memorie, il D’Azeglio racconta di un suo viaggio a San Marcello Pistoiese. Cioè, là dove sono nato io. “La valle ov’è posto San Marcello è larga un miglio e mezzo. A ponente, lontani, i gioghi di Lucchio, a levante monte Crocicchio. Non stavo nella pelle di veder Gavinana, v’andai subito”. Gavinana, a tre chilometri da San Marcello, e oltre cento metri più su, è la frazione (ne vedete la skyline nella foto qui sopra) di cui sono originari i miei genitori, e dove io ho vissuto fino all’età di due anni.


Vi chiederete perché mai il piemontese D’Azeglio non stesse nella pelle per vedere Gavinana. E’ presto detto: perché è lì che, combattendo per la patria, morì Francesco Ferrucci, il 3 agosto 1530. Pure al Ferrucci, detto anche il Ferruccio, sono state dedicate piazze e vie, anche se probabilmente in pochi saprebbero dire chi esattamente fosse. Un po’ più famoso è il suo assassino, Fabrizio Maramaldo, un mercenario al soldo dell’imperatore Carlo V, entrato persino nei linguaggio comune quando si parla di “maramaldeggiare”, o si dice di un’azione che è “maramaldesca” o ancor più di frequente allorché si invita qualcuno a “non fare il Maramaldo”. Tutto deriva dalla famosa frase che secondo il Varchi avrebbe detto Francesco Ferrucci, condotto ormai moribondo davanti al nemico, che voleva avere il dubbio privilegio di finirlo con le proprie mani: “Vile, tu uccidi un uomo morto”. Da allora in poi, comportarsi come Maramaldo o uccidere un uomo morto vuol dire infierire su qualcuno che non si può difendere o sparare sulla Croce Rossa. In genere lo dicono delle squadre di calcio di prima grandezza che battono con una goleada le ultime in classifica. Comunque sia, tutto deriva da ciò che avvenne a Gavinana in quel lontano giorno d’agosto.

Dunque, il D’Azeglio va a Gavinana a cercare la tomba del Ferrucci. Perché costui gli interessava così tanto? Perché aveva in animo di scrivere un secondo romanzo dopo il successo del primo, “Ettore Fieramosca”, e voleva documentarsi. Il libro si sarebbe intitolato “Niccolò de’ Lapi” e, fra le altre cose, avrebbe raccontato l’assedio di Firenze, a opera degli imperiali, del 1529-1530. L’argomento non era stato scelto a caso, così come non a caso era stato scelto quello della disfida di Barletta del primo romanzo. Gli anni in cui viveva il D’Azeglio erano quelli del Risorgimento, e dove c’erano eroi italiani che combattevano per la Patria contro degli stranieri, gli scrittori e i poeti dell’epoca ci andavano a nozze. E Francesco Ferrucci era proprio un eroe del genere.

I fiorentini, nel 1530, da un paio di anni aveva cacciato i Medici e, liberi dai tiranni, volevano darsi da soli un proprio governo ed eleggere i propri governanti. Papa Clemente VII, che era un Medici, ottenne l’appoggio dell’imperatore Carlo V per riportare la propria famiglia al potere a Firenze e da qui ebbe origine uno fra i più drammatici e avventurosi assedi della storia italiana, durato quasi un anno. Il Ferrucci fu appunto un capitano della Repubblica Fiorentina, temutissimo dai nemici perché, nonostante la povertà dei suoi mezzi, aveva dimostrato di essere un condottiero di genio, capace di ribaltare l’esito scontato di qualunque battaglia. La storia dell’assedio e della morte dell’eroe ve la racconterò un’altra volta. Torniamo a “I miei ricordi”.

E’ evidente che per il patriota Massimo D’Azeglio la figura del fiorentino era degna di essere non solo fatta oggetto di un romanzo, ma anche onorata e portata a esempio agli italiani della sua epoca. Dunque, ecco il Taparelli raccontare della sua visita a Gavinana. Parte da San Marcello e sale in carrozza fino al paese: “Giunsi sulla piazza: mi pareva impossibile, in una terra di vie strette e tortuose ove si giunge per rompicolli, si fosse maneggiata la cavalleria e combattuta tanta guerra. Dubitavo di essermi ingannato. Cercai del pievano e lo trovai. Conobbi subito che si trattava proprio della Gavinana del Ferruccio; ché il prete si mostrò informato di ogni cosa. Mi mostrò a manca la casa davanti alla quale fu ammazzato il virtuoso Ferruccio da Maramaldo”. Però, subito il D’Azeglio ha una delusione: la tomba del capitano fiorentino non è indicata in alcun modo. Anzi, non si sa neppure dove sia. Probabilmente il Ferrucci fu sepolto in una fossa come con i suoi soldati. Però, continua il Marchese, “seppi dal prete che nel cavar certe fondamenta innanzi alla Chiesa, fu trovato uno scheletro grande; il quale era avvolto da panni di color turchino, con bottoni tondi e suvvi una crocetta. Dio sa di chi furono, le ossa ed i panni! Tuttavia, la tradizione narra che Ferruccio fosse sepolto sotto la gronda della chiesa”. Ora, molti testimoni concordano nel dire che Francesco Ferrucci fosse un uomo molto più alto della media, per gli uomini dell’epoca, e dunque il fatto che negli scavi si fosse trovato “uno scheletro grande” fa pensare al D’Azeglio che quello potesse essere proprio lo scheletro dell’eroe che, a quanto gli fu detto, era stato si nuovo seppellito più o meno lì dove lo avevano scoperto. Restava il fatto che niente, a Gavinana, ricordasse la battaglia e il capitano morto combattendo per la libertà della Patria.

Così, al Marchese viene un’idea. “Mi nacque tosto la voglia di porre una lapide sulla sua tomba, perché non rimanesse così inonorata: ne parlai a costoro del paese: tutti si mostrarono pronti a parole. Volli stringere e combinare perché la cosa avesse effetto: divennero a un tratto tutti freddi. Ebbi a dire che avrei pagato del mio, fu inutile. Credo che avessero paura: di che? Lo sa Iddio. In Italia un uomo che dette la vita per la patria, che potendo salvarsi senza infamia scelse morire per non vedere l’ultima sua rovina; un uomo che in otto mesi seppe far immortale se stesso colle sue virtù, seppe ritardare l’eccidio di Firenze, e rimaner esempio ai posteri di quanto possan riuniti, l’amor patrio, il valore, la costanza, e l’oblio di ogni privato interesse, quest’uomo non può, perdio, non aver croce, né sasso sulle sue ossa perché si ha paura!”.

Insomma, “il nonno” si arrabbia per l’atteggiamento dei miei antenati, restii a far porre nella loro piazza la lapide che il D’Azeglio pagherebbe di tasca sua. C’è da chiedersi il perché della loro paura. Il motivo è chiaro: nel 1840 regna ancora in Toscana quel bell’uomo di Leopoldo II di Asburgo-Lorena che, pur non essendo un tiranno, è comunque uno degli austriaci contro cui combattono i patrioti e contro cui si susseguono i moti indipendentisti, con il loro seguito di incarcerazioni e condanne a morte. Anche porre una lapide in cui si parli di un eroe “morto per la Patria”, potrebbe portare dei guai al paese: polizia che viene a indagare, sospetti di trame politiche, magari qualche arresto preventivo per timore che si annidino nella zona dei rivoltosi che inneggiano alla cacciata degli stranieri dall’Italia.

Fatto sta che il D’Azeglio la spuntò: ancora oggi, sulla piazza di Gavinana, c’è una lapide che ricorda il Ferrucci e una sigla avverte: “M.A.P. 1840”. Cioè, Massimo d’Azeglio Pose, più la data. Nel museo Ferrucciano sono conservati autografi, quadri e disegni a testimonianza della sua passione per l’eroe fiorentino e della sua visita a Gavinana.


Dunque, il Marchese che tanto mi pareva assomigliarmi, aveva appunto visitato il mio luogo natale. Ora, io ho avuto un nonno, quello che vedete nella foto qui accanto, nato a Gavinana nel 1893. Sicuramente, quando avrà avuto dieci anni, e cioè nel 1903, avrà conosciuto un suo compaesano di un’ottantina d’anni che, da giovane, aveva fisicamente visto e incontrato il D’Azeglio. Insomma: fra la mia nascita e la visita di Massimo D’Azeglio sembra che sia passato tanto tempo (circa 120 anni), ma tutto sommato io ho conosciuto persone che hanno conosciuto persone che hanno conosciuto il Marchese. Ma perché chiamo il Taparelli, sia pur scherzosamente, “il nonno”? Perché, è risaputo, Massimino fu un dongiovanni. Era di bell’aspetto, soprattutto da giovane, biondo, con il baffetto da sparviero, con la chitarra sempre pronta a suonare per ogni ragazza. Non so ben dire quanto si sia trattenuto fra San Marcello e Gavinana, ma nulla vieta di immaginare che più di una fanciulla del luogo possa essere stata attratta dai suoi occhi azzurri e che lui le abbia appunto fatto l’occhiolino. E siccome da cosa nasce cosa, perché mai non potrebbe essere che nove mesi dopo la visita del Marchese sia nato, in qualche casa in pietra, un bambino che un montanino abbia creduto suo mentre invece suo non era? E se da quel bambino si fosse arrivati fino al mio nonno?


Insomma, guardate la foto poco sopra e il ritratto qui accanto: la somiglianza fra il vecchio della foto e il Marchese D’Azeglio è evidente. Potrei persino chiedere la prova del DNA e avanzare qualche pretesa sui possedimenti dei Taparelli.

Al di là delle congetture e degli scherzi, ho sempre ritenuto che la storia di Francesco Ferrucci fosse da raccontare in un fumetto. Non avendo mai avuto (finora) la possibilità di farlo, ho almeno raccontato la storia della visita di Massimo D’Azeglio a Gavinana, e della sua ricerca della tomba dell’eroe fiorentino. E’ appunto questo l’argomento del fumetto, mio e di Riccardo Pieruccini, contenuto nel libro di cui abbiamo cominciato a parlare. Purtroppo, in sole dieci pagine, non c’è stato posto per far vedere anche la bella montanara a cui il nonno fa l’occhiolino, ma adesso che abbiamo rotto il ghiaccio chissà che prima o poi non si possa continuare la narrazione.