sabato 7 gennaio 2012

FATTO COSI'



Una dozzina di anni fa, durante un periodo piuttosto difficile della mia vita, concomitante con la fine di un matrimonio (una dramma che è impossibile attraversare senza riceverne dei traumi), ebbi bisogno di un sostegno psicologico e cominciai a frequentare uno psicoterapeuta una volta alla settimana. La cosa andò avanti per quattro anni, e credo di dovere molto al dottor Temperani che mi sopportò per tutto quel tempo. La frase con cui di solito metteva fine alle nostre sedute era: “Basta, non ne voglio sentire più”.

Da quando ho smesso di fargli visita, cerco di cavarmela da solo e mi reputo fortunato di aver imparato come reagire di fronte alle difficoltà, che ci sono sempre, perché, come mi disse lui una volta, “la vita non è una passeggiata”. No, non lo è. Anche se in molti possono pensare che io sia “uno spasso” durante i miei incontri con il pubblico, come mi ha scritto qualcuno su Facebook, o anche se mi sforzo di essere sempre disponibile e sorridente in redazione così come a casa, ho anch’io i miei momenti di angoscia e di sconforto, e i miei guai irrisolti, con me stesso, con i miei genitori, con il resto del mondo. Come tutti.


Aver fatto quattro anni di terapia (indubbiamente pochi rispetto ai lunghissimi periodi di cura di molti altri, anche fra i miei colleghi) mi ha però insegnato almeno a rendermi conto di quanto siamo tutti piccoli e fragili, anche quelli grandi e grossi che sembrano o si sentono i padroni del mondo. A volte penso che avrei bisogno di un altro piccolo aiuto, magari per riuscire a farmi valere un po’ di più, tirando fuori un po’ della cattiveria che il Temperani mi invita a farmi sfogare perché gli sembravo un po’ troppo buono, come Lupo de’ Lupis. Nessuno è davvero del tutto buono, così come nessuno è davvero completamente cattivo. Tutti però siamo sulla stessa barca: il mondo in cui ci svegliamo ogni mattina, che tante volte mi è sembrata la cella in cui riapre gli occhi al risveglio il condannato all’ergastolo.



Le mie sedute con lo psicologo sono sempre state di tipo tradizionale, vale a dire basate su conversazioni private con il terapeuta. Tuttavia, nel 2001 ho partecipato a una seduta collettiva di bioenergetica, consigliatami dal mio analista per vedere all'opera un luminare americano, il dottor Hochman, venuto a Roma per due giorni di incontri. Ciò che ho visto mi ha lasciato sgomento. Il gruppo, dove io ero soltanto un osservatore, era composto da una ventina di persone. A turno, ciascuno si presentava al dottore parlando brevemente di sé, poi Hochman faceva qualche domanda e iniziava ad agire sul loro fisico, stimolando con la mani particolari zone (di solito la schiena, la nuca, la bocca) e provocando convulsioni, grida, sfoghi di rabbia, pianti disperati. Tutti eravamo lì perché vittime di un qualche dolore. Il mio mi è sembrato improvvisamente piccolissimo di fronte all'angoscia e al mal di vivere degli altri. Ho visto uomini grandi e grossi piangere come bambini, rannicchiati in posa fetale nell'abbraccio catartico di Hochman che li baciava sulla fronte.

Fra le ragazze, ce n'è stata una che ha gridato più delle altre, vittima di un'angoscia insopportabile. Il dottore, che aveva una capacità straordinaria di leggere nell'anima delle persone, di lei ha detto: "Vedete, questo è ciò che succede quando un padre considera più importante un mobile, o un quadro, o un orologio, di sua figlia. Se si rompe un mobile, aggiustarlo costa. Se si rompe una bambina, aggiustarla costa molto di più". Il dramma di quella ragazza era appunto legato alla figura del padre assente. Enorme la responsabilità dei genitori dato che, secondo Hochman, la maggior parte dei traumi più gravi sono in età preverbale. Da rabbrividire. E' nei primi quattordici mesi di vita che un padre che pensa di più ai mobili rompe la sua piccolina. Mi chiedo quand'è che i miei hanno, involontariamente, rotto me. Freud diceva che per dimenticare bisogna prima ricordare.


Sarebbe bello, adesso, parlare di Freud, anche alla luce del recente saggio di Michel Onfray “Il crepuscolo di un idolo”, che ne smitizza la figura, ma si tratterebbe di un discorso lungo destinato a portarci troppo lontano (il che non esclude che, a spizzichi e bocconi, non se ne possa parlare come in altre occasioni abbiamo parlato perfino di metrica latina o di poesia italiana). Ciò che mi preme adesso arrivare a dire è che, dopo aver dovuto superare la mia dose di prove e di esperienze, mi trovo a essere empatico con la maggior parte dei miei collaboratori e a essere io stesso, come alcuni potrebbero testimoniare, un piccolo terapeuta delle loro difficoltà. Non so come si comportano gli altri curatori di testata in ambito bonelliano e al di fuori di casa Bonelli, ma io tengo molto al contatto con chi lavora a Zagor insieme a me e mi faccio carico, fin dove posso, delle loro difficoltà. C’è chi attraversa un brutto momento in famiglia o a livello economico, chi ha problemi di salute, chi deve essere incoraggiato, chi ha un blocco creativo, chi non si sente a suo agio con la storia che gli è stata affidata, chi teme il giudizio dei lettori, chi ha bisogno di una pausa, chi fugge all’estero con una nuova fidanzata, chi ha tanti pregi e qualche difetto e bisogna valorizzare i primi e sopportare i secondi, chi deve essere richiamato all’ordine ma c’è modo e modo per farlo e i caratteri delle persone sono tanti e diversi e bisogna trovare la maniera giusta.

Non so se mi illudo, ma in tanti me lo hanno riconosciuto anche pubblicamente, di essere un buon curatore: perché so tenere unita la squadra, motivarla, fare in modo che tutti siano contenti di ciò che fanno, si sentano parte importante di un progetto. Cerco di fare in modo di vederci, incontrarci, stare insieme e insieme proporci al pubblico, durante gli incontri o i raduni degli appassionati.

Non credo che esista un gruppo di autori più unito, coeso, motivato di quello zagoriano. I lettori lo vedono e lo sentono, e anche loro si stringono intorno a noi con una affettuosità e un calore che stupisce gli osservatori esterni. A me sembra giusto questo tipo di approccio, e in ogni caso è quello che mi viene spontaneo. I frutti non mancano, visto che una testata che vent’anni fa Sergio Bonelli dava per spacciata è ancora viva e vegeta e soprattutto ha un buon indice di apprezzamento da parte dei lettori. Tuttavia, so che c’è chi preferirebbe approcci di tipo aziendale più asettici e più aspri con i collaboratori, chi è infastidito dalle manifestazioni di affetto dei lettori, chi non crede nei rapporti amichevoli e nella mutua collaborazione sul luogo di lavoro.

Io so che faccio del mio meglio, anche al di là dei miei compiti, diciamo così, istituzionali: il mio lavoro è la mia vita, e non potrei lavorare in un modo che non mi assomigliasse, così come non potrei vivere una vita che non fosse simile a me, pena il dover tornare di nuovo dal dottor Temperani. “No, I am that I am”, per dirla con William Shakespeare nel sonetto 121, quello da me più amato (un altro argomento di cui potremmo parlare, un giorno): “No, io sono quel che sono”. In fondo, “potrei essere io il giusto e loro gli storti” (I may be straight though they themselves be level). Probabilmente, anche il fatto che io compili questo blog o affidi con immediatezza e persino impulsività pensieri al vento nel “coso” su Facebook potrebbe dar noia a chi ritiene che un autore debba tenersi lontano dai rapporti troppo confidenziali con i suoi lettori, e colgo infatti, talora, frecciatine e ironie su questa mia tendenza all’empatia con il pubblico.

Il guaio è che se riesco a essere un buon allenatore e perfino un padre spirituale, un confessore o un fratello maggiore per i miei collaboratori, non ho nessuno che coccoli me quando salgo al piano di sopra, là dove probabilmente in molti non capiscono. Ma io, come canta Qualcuno (quanto mi ci sono riconosciuto in quella canzone, che trovate in fondo al post), sono “fatto così”. Il che non significa che io sia fatto male: la cosa più sbagliata che si possa fare è tranciare giudizi negando i pregi degli altri e vedendo soltanto i difetti. Come diceva il cardinale Richelieu, chiunque potrebbe essere impiccato per tre parole dette estrapolate dal contesto.

Una cosa che io considero una grave ingiustizia (e in certi casi mi pare anche un qualcosa di offensivo) è il mancato riconoscimento dei meriti. Non è vero che tutto è dovuto e che non si debba mai dire “grazie” a chi fa il proprio dovere, ma soprattutto è intollerabile che non si riconoscano i pregi di chi il proprio dovere lo fa bene e fa perfino di più di ciò che gli è richiesto. I miei genitori, per esempio, non erano abituati (per retaggio famigliare) a elargire troppe coccole e particolari affettuosità, e pur essendo persone buone e disposte a ogni sacrificio per i figli, non sapevano gratificarmi per i successi scolastici o per le mie iniziative (dipingere un quadro, scrivere un articolo per il giornaletto parrocchiale, recitare in una piccola compagnia teatrale, inventarmi un club).

Immagino che da questa mia sofferenza infantile e adolescenziale nasca la mia ribellione attuale verso chi non vede il bello e il buono nel lavoro degli altri e crede che si debbano trattare i collaboratori sempre come degli incapaci. Probabilmente ci sono strategie aziendali che prevedono questo tipo di tecnica in chiave motivazionale: immagino, anzi, che la maggior parte di coloro che mi stanno leggendo la subiscano sulla propria pelle. Io non la applico, invece, con chi lavora con me. E chi lavora con me, me ne è grato (o almeno, di questo mi illudo). Preferisco motivare i collaboratori con la gratificazione e il riconoscimento, e se c’è da chiedere (come chiedo di continuo) di riscrivere una sceneggiatura o rifare dei disegni, giustifico con abbondanza di argomenti e vicinanza emotiva le mie richieste. Poi succede (come del resto succede a me stesso, nelle cose che scrivo io) che i risultati non siano ugualmente all’altezza delle aspettative, nonostante il tanto impegno. Ma certo, non sarà un parziale fallimento nel tentativo di dare il massimo, a farmi dimenticare tutto il bello e il buono dei precedenti anni di lavoro insieme, e il contributo dato da ognuno alla serie. Mi piacerebbe, certo, venire ripagato con la stessa moneta da chi deve valutare il mio, di contributo. Ma non lavoro per sentirmi dire “bravo” e sono abituato, dall’infanzia, alla mancanza di ringraziamenti. Mi basta sapere che faccio del mio meglio.


Però, è chiaro che le dinamiche psicologiche contano, e contano parecchio. Prima di aver bisogno anch’io del mio sostegno terapeutico, ricordo che mi meravigliavo nel sentir dire che non pochi dei miei colleghi andavano in terapia. Leggevo i romanzi di Sclavi e mi stupivo del fatto che se le etichette delle camicie gli davano noia, non le togliesse come facevo io e come, credevo, tutti fossero in grado di fare. Poi è venuto il mio turno: ho cominciato a essere incapace di cavarmela da solo, e affogavo (a causa dei problemi che mi portavo dentro) in ogni bicchiere d’acqua. Anche se ho smesso, da molto tempo, di frequentare il mitico dottor Temperani, qualche forma di autoanalisi me la devo pur concedere. Ed eccoci al dunque, al motivo cioè che mi ha portato a tutte queste riflessioni, insolite in questo spazio e apparentemente sconclusionate. Il punto è che mi sono messo a rileggere le ultime cose scritte, di getto, sul mio “coso” su Facebook. E con sorpresa ho scoperto che non si tratta di considerazioni qualunque, fatte pourparler (niente, in realtà, è fatto davvero pourparler, ma questo è un altro discorso). Che cosa ho scritto su FB? Ecco i testi.


4 gennaio. Un rapido calcolo di fine anno mi ha permesso di appurare che nel 2011 ho sceneggiato 892 tavole di Zagor. Sono tante? Sono poche? Poche di sicuro in confronto a Boselli ma anche contro quelle di Mignacco o di Vietti. Però ho anche curato, da solo, le 2182 tavole di Zagor mandate in edicola, risolvendo problemi in ogni vignetta. Ho tenuto unita e motivata la squadra, ho partecipato a decine di incontri in Italia e all'estero, ho organizzato mostre, ho allestito albetti, ho pubblicati libri, ho suggerito e promosso iniziative, ho scritto articoli, ho fatto conferenze, sono stato una sorta di pierre aziendale in molte circostanze, ho rilasciato interviste, ho tenuto i contatti con i lettori e i forumisti, ho portato avanti un blog con ben 131 elaboratissimi post. Ah già, e poi c'è anche il "coso".

5 gennaio. Qualche mese fa, ho proposto alle alte sfere di aprire un profilo Facebook ufficiale di Zagor. Incredibile ma vero, l'ho proposto io che non ho mai usato FB e che ho difficoltà persino a vedere un video su YouTube. Però, per mia abitudine, cerco sempre nuove idee e propongo, che so, di stampare materiale rimasto inedito, o di ricominciare con i Cico o di allegare poster o di curare un albetto speciale o di pensare a una rivista o di fare a colori gli almanacchi, eccetera eccetera. Quando qualche lettore mi chiede: "ma perché non fate...?'", io di solito ci ho già pensato e l'ho già proposto. Il novantanove virgola nove per cento delle mie proposte vengono bocciate e di solito giudicate prive di buon senso, il che - ne sono convinto - è vero. Ma l'entusiasmo mi trascina. L'idea del profilo ufficiale di Zagor è stata però ponderata e si è deciso di verificare, con i giusti tempi di riflessione e di studi di fattibilità, se si poteva creare un profilo collettivo di tutti gli eroi della Casa editrice, perché non stava bene che Zagor avesse qualcosa che gli altri non avevano, e poi c'era da capire chi avrebbe seguito l'iniziativa e quale taglio bisognasse dargli, e via dicendo. Non so se l'idea abbia avuto un seguito e qualcuno ci stia lavorando (non partecipo a nessuna riunione di quelle importanti e conto come il due di picche). Nell'attesa, prevedendo tempi lunghi, non mi sono perso d'animo e ho creato allora una pagina non ufficiale ma privata, il "coso" che state leggendo, appunto (così come quasi tutti gli autori, credo, hanno pagine simili). Mi auguro di stare fornendo comunque, sia pure a titolo personale e gratuito, un servizio ai lettori e alla Casa editrice (lo stesso mi illudo che accada con il blog: un mio sforzo da "dopolavoro"). E non mi attendo riconoscimenti di nessun tipo: mi basta la soddisfazione di aver creato qualcosa, almeno per i 334 pochi intimi dei "mi piace" di oggi.

Nel frattempo i “pochi intimi” sono diventati 336, per un bacino di 110.700 persone (gli amici degli amici). I contatti del blog sono quasi ventimila al mese (se siano tanti o pochi non lo so). Qual è la riflessione che ho fatto dopo aver riletto tutto ciò? Che è diventata questa, la mia forma di autoanalisi. Scrivere sul “coso” e sul “blog”. Immagino che abbia una funzione catartica. Mi serve per liberarmi di qualcosa che ho bisogno di dire, di spiegarmi meglio anche e soprattutto a beneficio di me stesso. Forse riesce anche a farmi dare qualche incoraggiamento e a farmi dire qualche grazie, cose di cui è così avara la vita, e avarissimo l’ambiente lavorativo.