domenica 15 gennaio 2012

IL NONNO


Arriva finalmente in distribuzione il libro “Dal Risorgimento alla Resistenza: storie di Toscani che fecero l’Italia”, un progetto della Fondazione Sistema Toscana (dunque della Regione), a cui anch’io ho collaborato con lo staff di Lucca Comics & Games. La presentazione ufficiale reca la data del 16 gennaio, alle ore 12,15 presso la Mediateca di Via San Gallo a Firenze. Il volume, che contiene dieci racconti a fumetti, vanta una introduzione disegnata del grande Sergio Staino. Ve ne avevo già parlato e ancora ve ne parlerò nei prossimi giorni quando avrò fra le mani la prima copia e ci sarà modo di approfondirne le tematiche che sono, ve lo assicuro, tutte molto interessanti. Nell’attesa, vorrei cominciare a dirvi qualcosa sul racconto che porta la mia firma (i disegni sono del bravo Riccardo Pieruccini, con cui ho già realizzato il volume "La frontiera di ghiaccio").


Va innanzitutto premesso che quando mi è stato chiesto, dallo staff di Lucca Comics & Games con cui ho dato vita al progetto “Seconda Creazione”, di ideare un volume a fumetti che raccontasse l’Unità d’Italia dal punto di vista dei toscani, ho subito pensato che si poteva partire dalle dieci province che (almeno per il momento) compongono la Toscana. Se avessimo fatto dieci racconti, ciascuno ambientato nei dintorni di uno dei capoluoghi o con protagonisti personaggi nati in quei luoghi, avremmo ottenuto cento pagine a fumetti. Se poi queste pagine fossero state disegnate da autori toscani, magari scelti proprio fra gente originaria da quelle province o dalle zone limitrofe, sarebbe stato fantastico. Dato che c’era la possibilità e l’intenzione di valorizzare il lavoro di alcuni giovani autori, ecco l’idea di rivolgersi alla Scuola del Fumetto di Firenze, guidata da Marco Bianchini, per mettere insieme uno staff fresco e motivato. L’unico matusa ho finito per essere io, che oltre a fare da editor ai più giovani, ho imposto che la storia della provincia di Pistoia (dove sono nato) portasse la mia firma. Dopodiché, con gli amici di Lucca Comics, abbiamo individuato i dieci argomenti e i dieci personaggi e li abbiamo affidato agli sceneggiatori e ai disegnatori selezionati dalla Scuola, in gran parte collegati appunto al territorio. E qui mi fermo, rimandando a un prossimo futuro il racconto di come si è sviluppato il progetto nel corso di un anno di lavoro.


Per il momento, vorrei limitarmi ad approfondire com’è nata la storia realizzata da me e Pieruccini, intitolata “La tomba scomparsa” (ne vedete qui accanto una tavola). E per farlo, devo parlarvi del nonno. Incredibile ma vero, da qualche anno io chiamo regolarmente “il nonno” un personaggio molto famoso (anche se pochi, forse, saprebbero dire con esattezza perché gli sono state dedicate tante vie e tante piazze): nientemeno che Massimo D’Azeglio, il signore nel ritratto in apertura. Sarà meglio che spieghi, anche in ossequio alla mia fama di spiegazionista.

E’ successo infatti che mi sia messo a leggere uno dei suoi libri, sicuramente il più fresco e divertente, ancora oggi godibilissimo, benché rimasto incompiuto: “I miei ricordi” (ma oltre che scrittore, D’Azeglio fu anche pittore, musicista, diplomatico e uomo politico). Nell’introduzione intitolata “Origine e scopo dell’opera”, si trova scritto: “Delle cose serie, mi vien fatto assai sovente vedere il lato ridicolo, come delle cose ridicole mi si presenta tosto il lato serio”. Viene spontaneo entrare in sintonia con l’autore, che smette di essere il nome citato nei libri di scuola per diventare un amico. Mi ritrovo a tal punto, fatte salve le differenze di epoca e di condizione sociale, negli atteggiamenti e nello spirito del nobiluomo, da sentirlo pagina dopo pagina sempre più vicino a me. Finisce che mi leggo "I miei ricordi" divorandoli come se fossero l'ultimo giallo di Jeffrey Deaver. Anzi, andando avanti con la lettura, ogni episodio narrato con piglio brillante mi porta a farmi sospettare d’essere io stesso la reincarnazione del Taparelli (questo il vero cognome del Marchese, essendo D’Azeglio solo l’indicazione dei possedimenti di famiglia, come Cavour per Camillo Benso).


Di certo, ci sarebbe da escludere che io ne sia un discendente: di povere origini, inequivocabilmente toscane e montanine, il sottoscritto, nobile piemontese d'alto lignaggio il Taparelli. Sennonché, ecco che nel capitolo trentaduesimo del suo libro di memorie, il D’Azeglio racconta di un suo viaggio a San Marcello Pistoiese. Cioè, là dove sono nato io. “La valle ov’è posto San Marcello è larga un miglio e mezzo. A ponente, lontani, i gioghi di Lucchio, a levante monte Crocicchio. Non stavo nella pelle di veder Gavinana, v’andai subito”. Gavinana, a tre chilometri da San Marcello, e oltre cento metri più su, è la frazione (ne vedete la skyline nella foto qui sopra) di cui sono originari i miei genitori, e dove io ho vissuto fino all’età di due anni.


Vi chiederete perché mai il piemontese D’Azeglio non stesse nella pelle per vedere Gavinana. E’ presto detto: perché è lì che, combattendo per la patria, morì Francesco Ferrucci, il 3 agosto 1530. Pure al Ferrucci, detto anche il Ferruccio, sono state dedicate piazze e vie, anche se probabilmente in pochi saprebbero dire chi esattamente fosse. Un po’ più famoso è il suo assassino, Fabrizio Maramaldo, un mercenario al soldo dell’imperatore Carlo V, entrato persino nei linguaggio comune quando si parla di “maramaldeggiare”, o si dice di un’azione che è “maramaldesca” o ancor più di frequente allorché si invita qualcuno a “non fare il Maramaldo”. Tutto deriva dalla famosa frase che secondo il Varchi avrebbe detto Francesco Ferrucci, condotto ormai moribondo davanti al nemico, che voleva avere il dubbio privilegio di finirlo con le proprie mani: “Vile, tu uccidi un uomo morto”. Da allora in poi, comportarsi come Maramaldo o uccidere un uomo morto vuol dire infierire su qualcuno che non si può difendere o sparare sulla Croce Rossa. In genere lo dicono delle squadre di calcio di prima grandezza che battono con una goleada le ultime in classifica. Comunque sia, tutto deriva da ciò che avvenne a Gavinana in quel lontano giorno d’agosto.

Dunque, il D’Azeglio va a Gavinana a cercare la tomba del Ferrucci. Perché costui gli interessava così tanto? Perché aveva in animo di scrivere un secondo romanzo dopo il successo del primo, “Ettore Fieramosca”, e voleva documentarsi. Il libro si sarebbe intitolato “Niccolò de’ Lapi” e, fra le altre cose, avrebbe raccontato l’assedio di Firenze, a opera degli imperiali, del 1529-1530. L’argomento non era stato scelto a caso, così come non a caso era stato scelto quello della disfida di Barletta del primo romanzo. Gli anni in cui viveva il D’Azeglio erano quelli del Risorgimento, e dove c’erano eroi italiani che combattevano per la Patria contro degli stranieri, gli scrittori e i poeti dell’epoca ci andavano a nozze. E Francesco Ferrucci era proprio un eroe del genere.

I fiorentini, nel 1530, da un paio di anni aveva cacciato i Medici e, liberi dai tiranni, volevano darsi da soli un proprio governo ed eleggere i propri governanti. Papa Clemente VII, che era un Medici, ottenne l’appoggio dell’imperatore Carlo V per riportare la propria famiglia al potere a Firenze e da qui ebbe origine uno fra i più drammatici e avventurosi assedi della storia italiana, durato quasi un anno. Il Ferrucci fu appunto un capitano della Repubblica Fiorentina, temutissimo dai nemici perché, nonostante la povertà dei suoi mezzi, aveva dimostrato di essere un condottiero di genio, capace di ribaltare l’esito scontato di qualunque battaglia. La storia dell’assedio e della morte dell’eroe ve la racconterò un’altra volta. Torniamo a “I miei ricordi”.

E’ evidente che per il patriota Massimo D’Azeglio la figura del fiorentino era degna di essere non solo fatta oggetto di un romanzo, ma anche onorata e portata a esempio agli italiani della sua epoca. Dunque, ecco il Taparelli raccontare della sua visita a Gavinana. Parte da San Marcello e sale in carrozza fino al paese: “Giunsi sulla piazza: mi pareva impossibile, in una terra di vie strette e tortuose ove si giunge per rompicolli, si fosse maneggiata la cavalleria e combattuta tanta guerra. Dubitavo di essermi ingannato. Cercai del pievano e lo trovai. Conobbi subito che si trattava proprio della Gavinana del Ferruccio; ché il prete si mostrò informato di ogni cosa. Mi mostrò a manca la casa davanti alla quale fu ammazzato il virtuoso Ferruccio da Maramaldo”. Però, subito il D’Azeglio ha una delusione: la tomba del capitano fiorentino non è indicata in alcun modo. Anzi, non si sa neppure dove sia. Probabilmente il Ferrucci fu sepolto in una fossa come con i suoi soldati. Però, continua il Marchese, “seppi dal prete che nel cavar certe fondamenta innanzi alla Chiesa, fu trovato uno scheletro grande; il quale era avvolto da panni di color turchino, con bottoni tondi e suvvi una crocetta. Dio sa di chi furono, le ossa ed i panni! Tuttavia, la tradizione narra che Ferruccio fosse sepolto sotto la gronda della chiesa”. Ora, molti testimoni concordano nel dire che Francesco Ferrucci fosse un uomo molto più alto della media, per gli uomini dell’epoca, e dunque il fatto che negli scavi si fosse trovato “uno scheletro grande” fa pensare al D’Azeglio che quello potesse essere proprio lo scheletro dell’eroe che, a quanto gli fu detto, era stato si nuovo seppellito più o meno lì dove lo avevano scoperto. Restava il fatto che niente, a Gavinana, ricordasse la battaglia e il capitano morto combattendo per la libertà della Patria.

Così, al Marchese viene un’idea. “Mi nacque tosto la voglia di porre una lapide sulla sua tomba, perché non rimanesse così inonorata: ne parlai a costoro del paese: tutti si mostrarono pronti a parole. Volli stringere e combinare perché la cosa avesse effetto: divennero a un tratto tutti freddi. Ebbi a dire che avrei pagato del mio, fu inutile. Credo che avessero paura: di che? Lo sa Iddio. In Italia un uomo che dette la vita per la patria, che potendo salvarsi senza infamia scelse morire per non vedere l’ultima sua rovina; un uomo che in otto mesi seppe far immortale se stesso colle sue virtù, seppe ritardare l’eccidio di Firenze, e rimaner esempio ai posteri di quanto possan riuniti, l’amor patrio, il valore, la costanza, e l’oblio di ogni privato interesse, quest’uomo non può, perdio, non aver croce, né sasso sulle sue ossa perché si ha paura!”.

Insomma, “il nonno” si arrabbia per l’atteggiamento dei miei antenati, restii a far porre nella loro piazza la lapide che il D’Azeglio pagherebbe di tasca sua. C’è da chiedersi il perché della loro paura. Il motivo è chiaro: nel 1840 regna ancora in Toscana quel bell’uomo di Leopoldo II di Asburgo-Lorena che, pur non essendo un tiranno, è comunque uno degli austriaci contro cui combattono i patrioti e contro cui si susseguono i moti indipendentisti, con il loro seguito di incarcerazioni e condanne a morte. Anche porre una lapide in cui si parli di un eroe “morto per la Patria”, potrebbe portare dei guai al paese: polizia che viene a indagare, sospetti di trame politiche, magari qualche arresto preventivo per timore che si annidino nella zona dei rivoltosi che inneggiano alla cacciata degli stranieri dall’Italia.

Fatto sta che il D’Azeglio la spuntò: ancora oggi, sulla piazza di Gavinana, c’è una lapide che ricorda il Ferrucci e una sigla avverte: “M.A.P. 1840”. Cioè, Massimo d’Azeglio Pose, più la data. Nel museo Ferrucciano sono conservati autografi, quadri e disegni a testimonianza della sua passione per l’eroe fiorentino e della sua visita a Gavinana.


Dunque, il Marchese che tanto mi pareva assomigliarmi, aveva appunto visitato il mio luogo natale. Ora, io ho avuto un nonno, quello che vedete nella foto qui accanto, nato a Gavinana nel 1893. Sicuramente, quando avrà avuto dieci anni, e cioè nel 1903, avrà conosciuto un suo compaesano di un’ottantina d’anni che, da giovane, aveva fisicamente visto e incontrato il D’Azeglio. Insomma: fra la mia nascita e la visita di Massimo D’Azeglio sembra che sia passato tanto tempo (circa 120 anni), ma tutto sommato io ho conosciuto persone che hanno conosciuto persone che hanno conosciuto il Marchese. Ma perché chiamo il Taparelli, sia pur scherzosamente, “il nonno”? Perché, è risaputo, Massimino fu un dongiovanni. Era di bell’aspetto, soprattutto da giovane, biondo, con il baffetto da sparviero, con la chitarra sempre pronta a suonare per ogni ragazza. Non so ben dire quanto si sia trattenuto fra San Marcello e Gavinana, ma nulla vieta di immaginare che più di una fanciulla del luogo possa essere stata attratta dai suoi occhi azzurri e che lui le abbia appunto fatto l’occhiolino. E siccome da cosa nasce cosa, perché mai non potrebbe essere che nove mesi dopo la visita del Marchese sia nato, in qualche casa in pietra, un bambino che un montanino abbia creduto suo mentre invece suo non era? E se da quel bambino si fosse arrivati fino al mio nonno?


Insomma, guardate la foto poco sopra e il ritratto qui accanto: la somiglianza fra il vecchio della foto e il Marchese D’Azeglio è evidente. Potrei persino chiedere la prova del DNA e avanzare qualche pretesa sui possedimenti dei Taparelli.

Al di là delle congetture e degli scherzi, ho sempre ritenuto che la storia di Francesco Ferrucci fosse da raccontare in un fumetto. Non avendo mai avuto (finora) la possibilità di farlo, ho almeno raccontato la storia della visita di Massimo D’Azeglio a Gavinana, e della sua ricerca della tomba dell’eroe fiorentino. E’ appunto questo l’argomento del fumetto, mio e di Riccardo Pieruccini, contenuto nel libro di cui abbiamo cominciato a parlare. Purtroppo, in sole dieci pagine, non c’è stato posto per far vedere anche la bella montanara a cui il nonno fa l’occhiolino, ma adesso che abbiamo rotto il ghiaccio chissà che prima o poi non si possa continuare la narrazione.