Beh, sì... se permettete, questa volta parliamo di quella cosa che, per dirla con il pittore francese Gustave Courbert, potremmo definire l' "Origine del Mondo", dal titolo di un suo quadro del 1866 esposto al Museo d'Orsay di Parigi (quello che vedete qua accanto). Oppure, del soggetto di un altro dipinto, meno famoso ma non meno bello, un'opera del trentino Paolo Vallorz datata 1970: "Ritratto di Alessandra" (più in basso), in cui l'unica porzione raffigurata del corpo della ragazza in questione, che intravede fra il drappeggio della biancheria intima, è proprio quella più interessante: la sineddoche per eccellenza, la parte per il tutto. Cesare Zavattini ha scritto una volta una poesia in dialetto mantovano (o, per la precisione, luzzarese), intitolata "Diu", cioè "Dio", in cui porta la sineddoche di cui sopra alle estreme conseguenze. I primi due versi, infatti, dicono: "Diu al ghè. / S'a ghè la figa al ghè". Dio c'è. Se c'è quella cosa lì, c'è.
Più o meno lo stesso concetto è quello espresso da un altro poeta italiano, Giovanni Pascoli, in quella che io reputo la sua poesia più bella, "Il gelsomino notturno". Lì, la parte di Alessandra raffigurata da Vallorz viene descritta come un calice aperto e un'urna "molle e segreta", perché il Pascoli è un bravo ragazzo, più morigerato di Zavattini. Però, sempre di quella si tratta e c'è da ringraziarne il Padreterno. Il poeta di Castelvecchio ci aggiunge però anche l'elemento olfattivo, che non è da trascurare, come ben sanno i pratici e gli intenditori, e scrive così: "Dai calici aperti s'esala / l'odore di fragole rosse". E' la più sensuale definizione poetica dell'afrore magico e misterioso del sesso che io abbia letto. Qualcosa di più e di diverso dal semplice, inebriante odore che emano i genitali femminili, appunto "l'urna molle e segreta" cui si accenna nei due versi finali della poesia. E' il richiamo ancestrale, il desiderio, l'attrazione irresistibile che gli uomini e le donne provano vicendevolmente. Pascoli parla da uomo, ma troverei limitata e sbagliata una interpretazione dell'odore di fragole rosse come il semplice richiamo femminile.
Qualche settimana fa, pur parlando di tutt'altro (cioè della generazione digitale a cui gli autori e soprattutto gli editori di fumetti dovrebbero cominciare a rivolgersi con convinzione offrendo contenuti destinati alle nuove tecnologie), ho citato un'altra poesia pascoliana, "Digitale purpurea", anch'essa dedicata a un fiore. Lì, se ricordate, è una donna a venire irresistibilmente attratta dal profumo della pianta proibita perché, le avevano detto delle suore, velenosa e mortale, ma che nonostante tutto è "un miele che inebria l'aria", una fragranza psicotropa che "bagna l'anima d'un oblìo dolce e crudele". Eppure, il Pascoli non era, stando a quel si dice e si sa, propriamente né un pratico né un intenditore, vista la vita morigerata e castigata che faceva, o era costretto a fare, praticamente segregato dalla sorella Maria, detta Mariù. Tuttavia, sentiva anche lui i ferormoni nell'aria e, soprattutto, era un magico descrittore perfino delle sfumature dei turbamenti dell'anima.
Ma perché vi sto dicendo tutto questo? Per mantenere una promessa. Proprio quando ho citato "Digitale purpurea" mi è stato chiesto da Massimo di Massa, anche lui un cultore del poeta romagnolo, di tornare sull'argomento: "Voto ovviamente entusiasta alla tua proposta di un post pascoliano, o magari una mini-sezione. Oh, parli pure della Sindone e dei cerchi del grano... che c'entrano con i fumetti, no? Eppure ce li leggiamo eccome, questi post. Quindi vai col gelsomino notturno, poesia da me molto amata per una mia personale interpretazione emotiva, lontana da quella ufficiale e 'sessuale', di cui probabilmente ci parlerai". Non è strana l'ammirazione di un massese per il Pascoli, dato che questi soggiornò a Massa tra il 1884 e il 1887 e lì insegnò presso il Liceo "Pellegrino Rossi" e le Scuole Tecniche Comunali, proveniente da Matera e prima di passare a Livorno. Se siete sorpresi anche voi, come lo fui io la prima volta, della sensualità delle metafore pascoliane, provate a continuare a leggere così come avete fatto (in tanti, devo dire) per i post sui cerchi nel grano, gli oroscopi e la Sindone.
Si diceva delle difficoltà del Pascoli negli approcci con le donne (le poche fidanzate furono fatte fuggire a gambe levate da Maria, la signorina nella foto qui accanto). Nell'interessante biografia del poeta di S.Mauro di Romagna scritta da Gian Luigi Ruggio (uno studioso che ho conosciuto di persona), conservatore di Casa Pascoli a Castelvecchio di Barga e intitolata appunto "Giovanni Pascoli" (Simonelli Editore), si spiegano i retroscena che portarono alla composizione della poesia. Il Pascoli, che non ebbe mai una relazione vera e duratura con una donna, soffriva molto del fatto di poter solo assistere dall'esterno, da escluso, ai misteri e alla magia dell'amore sensuale. "Il gelsomino notturno" fu scritto in occasione delle nozze di un giovane bibliotecario di Lucca che aiutava il Pascoli nelle traduzioni dall'inglese, Gabriele Briganti.
I due erano molto amici, e il Briganti fu commosso dall'omaggio che il poeta gli fece di una sua opera, e poi di un'opera di quel livello. Per questo motivo, partendo per il viaggio di nozze, volle fermarsi a Castelvecchio a salutare il Pascoli. Arrivò in carrozza con la sposina, e fece mandare un biglietto al poeta in cui invitava lui e sua sorella Mariù a mangiare trote in un ristorante lì vicino. Il Pascoli si fece negare. Anzi, scrisse poi a un altro amico: "Io e Mariù amiamo mangiare trote con gli scapoli, o almeno con i maritati che non siano in viaggio di nozze". Perché un simile comportamento verso un amico? Ecco come lo spiega il Ruggio: "Privato, non si sa se volontariamente o meno, di un rapporto adulto con la donna, il suo comportamento nei confronti di chi tale rapporto lo raggiungeva, assumeva spesso aspetto nevrotici. Così, all'arrivo degli sposi novelli, fece dire che non c'era: invidia, stizza, insofferenza prevalsero anche nei confronti di una cara amicizia".
"Il gelsomino notturno" fu scritta il 21 luglio 1901 e venne inserita nella prima edizione dei Canti di Castelvecchio (1903). In fondo trovate un video dove viene letta da Alberto Lupo. Il perché del titolo e della scelta del fiore è subito chiaro: alcune piante aprono i loro calici ed esalano i loro profumi al sorgere della luna per attirare gli insetti notturni. Il richiamo che si spande nell'aria al calare delle tenebre è quello del sesso. L'abbinamento fra il buio e il desiderio sensuale sottolinea l'alone di mistero che, per il Pascoli (ma anche per noi), hanno le pratiche erotiche (intese in senso lato, non soltanto fisico). Quando la poesia comincia, è notte. La notte degli amanti. Mentre il poeta è prigioniero dei suoi ricordi e dei suoi drammi che gli impediscono di vivere, inibendolo soprattutto nella sfera sessuale, per gli altri è il momento dell'amore. L'odore di fragole rosse, l'odore del sesso, che il vento gli porta, è il segno che altrove, nel mondo, nasce l'erba sopra le fosse dei morti, che la vita continua. Lui invece non è in grado di staccarsi dalle sue tombe, dai suoi fantasmi, e può solo osservare dall'esterno, percepire il mistero e la magia dell'amore senza esserne partecipe.
E s'aprono i fiori notturni,
nell'ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Nella terza quartina, ecco l'odore di fragole rosse, ecco un lume spiato dall'esterno, ecco l'erba che nasce sopra le fosse, appunto il segno del sesso che perpetua la vita, che è la vita (di cui anche la luce nella sala vista in una casa vicina è simbolo).
Dai calici aperti s'esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.
Un'ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.
La Chioccetta è il nome popolare della costellazione delle Pleiadi, e dunque l'aia azzurra è il cielo notturno. Non potendo partecipare al mistero a cui gli altri sono invece stati iniziati, il Pascoli metaforicamente spia gli altri dall'esterno: guarda la luce accesa che brilla nella finestra di una casa la cui sagoma si staglia nel buio, vede il lume salire al primo piano, là dove c'à la camera da letto. La lampada di spegne. Che succede, nel letto degli amanti? Il Pascoli si sente come un'ape che, tornando tardi all'alveare, trova già occupate tutte le celle: per lui, non c'è posto. Nella casa, invece qualcuno bisbiglia parole d'amore che il Pascoli sente come sussurro, come se si sforzasse di origliare senza davvero intendere.
Per tutta la notte s'esala
l'odore che passa col vento.
Passa un lume su per la scala;
brilla al primo piano: s'è spento...
All'alba, quando la notte d'amore è trascorsa, il Pascoli pensa al sesso femminile, proprio all'interno del corpo di donna, al luogo più intimo, più umido, più caldo. E' un' "urna molle e segreta". E' là dove il compagno ha depositato il suo seme. In quel luogo, la vagina (l'utero?), forse nascerà una nuova vita (un bambino), forse no, di sicuro nasce la felicità, un "non so che" magico e indefinito che il Pascoli non conosce, e che solo l'unione di due corpi, di uomo e di donna, può dare. E' molto struggente quel "non so che", detto da chi non ebbe mai una compagna nella vita.
E' l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.
La foto qua accanto mostra la "rosa" di Robert Gligorov (un artista di cui mi piacerebbe parlarvi a lungo). Il fotomontaggio dà l'idea dell' "urna molle e segreta" e il rosso ricorda l'odore che ne esala: l'ho sempre trovata abbinabile alla poesia del Pascoli, anche se non è un gelsomino.
E' interessante a questo punto anche il commento di Massimo, che non "confuta" l'interpretazione erotica del "Gelsomino notturno", ma vi aggiunge una sua valenza personale: "Dico solo come l'ho percepita io quando la lessi da ragazzo, senza conoscere la genesi per gli amici nubendi, e quindi relativa interpretazione sessuale dell'urna molle e segreta. Ho sempre amato stare sveglio la notte, perché come ebbe a dire Graziano Origa, 'di notte i pensieri pesano il doppio', e anche le sensazioni. E' uno dei motivi per cui amo Pascoli, visto che la calma notturna si sposa splendidamente con le atmosfere della sua poetica (un'altra delle mie stra-preferite è 'Mai più'). Nel Gelsomino credo che la sinestesia pascoliana arrivi al top, e non solo per lo scolastico odore delle fragole rosse, ma perché a me nel silenzio della notte, con la sensibilità solleticata e ampliata da queste letture, pareva davvero di sentir perfino crescere i fili d'erba. E alla fine, spesso arrivavo sveglio a mattina a veder sorgere il sole, che come sai da Massa nasce dalle montagne. Ecco, era in quel momento che 'sentivo' profondamente l'ultima quartina, perché i monti mi apparivano come una specie di urna, dai quali ora sorgeva questa bruma luminosa che era stata covata là dentro tutta la notte. E improvvisamente avvertivo questa 'non so che felicità nuova' che invadeva tutto il mio essere. E' qualcosa che non mi spiego bene, ma l'alba mi trasmette sempre un senso di felicità euforica, e pensavo che la stessa cosa succedesse a Pascoli, e stesse parlando di questo. Poi ho avuto modo di leggere la vera storia, ma dato che sono convinto che ogni opera d'arte diventa di proprietà di chi la 'sente', anche se fosse in un modo che non era nelle intenzioni dell'autore, continuo a darle questa lettura personale che mi 'trasmette' di più". Il che è tutto perfettamente condivisibile. La camera da letto nella foto è quella ancora oggi visibile a Casa Pascoli, a Barga.
Analizzando il testo, è inevitabile da ultimo approfondirne, sia pure in breve, la raffinatezza metrica. Dicevo già parlando della "Digitale" che il Pascoli sembra un poeta facile e semplice ma poi dentro le sue poesie ci trovi di tutto. Per convincersene, basterebbe far caso alla musicalità degli accenti nel "Gelsomino notturno". La poesia italiana, in generale, a differenza di quella latina, si basa sul numero delle sillabe e non sulla durata (lunga/breve) delle vocali, e quanto agli accenti conta soltanto l'ultimo, che stabilisce se si tratta di, per esempio, settenari o di endecasillabi. Tuttavia, il Pascoli lavora sul ritmo degli accenti come un poeta dell'antichità. Leggiamo i primi due versi del "Gelsomino" facendo caso a dove cadono gli accenti principali:
E s'àprono i fiòri nottùrni,
nell'òra che pènso ai miei càri.
E' facile vedere che in tutti e due i versi sono accentate le sillabe 2, 5 e 8.Lo schema è questo: (- /+ - - /+ - - /+ -), dove il segno più indica gli accenti.La barra separa i piedi, evidenziando due dattili (accentata, atona, atona) e un trocheo (accentata, atona).
Vediamo ora i secondi due versi:
Sòno appàrse in mèzzo ai vibùrni
lé farfàlle crépuscolàri.
Qui gli accenti principali cadono, in entrambi i casi, sulle sillabe 1, 3, 5, 8.Lo schema è questo: (+ -/+ -/+ -/ - /+ -). Qui ci sono quattro trochei (accentata, atona). Il primo andamento si dice giambico (dal "giambo" latino, composto da una sillaba atona e una accentata), il secondo si dice anapestico (dall'"anapesto" latino, composto da due sillabe atone e una accentata). Infatti, il ritmo è ascendente nella prima coppia di versi e di discendente nella seconda. Oppure, si potrebbe parlare di novenari dattilici nei primi due casi, o trocaici nei secondi due. Basta provare a ritmare gli accenti. Questo meccanismo si ripete in tutta la poesia: le rime si combinano in modo alternato, gli accenti procedono in versi accoppiati. Risultato: una struttura complessa che produce però una assoluta armonia.