sabato 15 febbraio 2014

CINEMA AL CINEMA 16



Proseguono le recensioni cinematografiche di Giorgio Giusfredi, mio personale consulente, nonché scrittore, sceneggiatore di fumetti e cuoco sopraffino. I pareri che esprime sono sua responsabilità, ma di solito li condivido. In ogni caso, i complimenti e le critiche vanno indirizzate a lui.

CINEMA AL CINEMA 16
gennaio 2014
di Giorgio Giusfredi


THE WOLF OF WALL STREET

Un film di Martin Scorsese. Con Leonardo DiCaprio, Jonah Hill, Margot Robbie, Matthew McConaughey, Kyle Chandler. Biografico, durata 180 min. - USA 2013. - 01 Distribution

Di sicuro si tratta del film più importante di questa puntata della nostra rubrica, perché le tre ore piene di proiezione tengono incollato il pubblico alla poltrona, esaltandolo. Ma anche perché riempie i cinema. Nonostante il sesso a bizzeffe, la droga e i rutti e peti alla Bombolo che attirano un pubblico, ahimè, vastissimo, ci sono altre cose che sfiorano l’altissimo cinema. Uno: l’interpretazione di DiCaprio (in odore di Oscar). L’attore, bistrattato da anni dall’Academy, è talmente bravo da impersonare lo stereotipo americano di cento anni di storia, da Gatsby al “Lupo” di cui parla il titolo di questo film. La sua performance è fin troppo perfetta: distrugge tutti gli altri personaggi, da la sensazione di assistere a un one man show. E questo è il secondo punto di interesse. Scorzese riesce, come già aveva fatto con “Quei bravi ragazzi”, nel difficile compito di utilizzare la voce fuori campo al cinema. Lo fa grazie al terzo punto che supporta questo film, ovvero la sceneggiatura. Terence Winter, già creatore e sceneggiatore della serie capolavoro "Boardwalk Empire", intesse dialoghi geniali e sfrutta, appunto, la prima persona per aggiungere un tono ancora più guascone alla vicenda, che di per sé non ha storia. Non c’è il soggetto: l’inevitabile ascesa e caduta criminale è la cosa che meno conta. Tutto è tenuto in piedi dal ritmo incalzante, da scene epocali che, però, potrebbero benissimo essere anche slegate e rimontate. Il vecchio regista è assolutamente uno dei più giovani, cinematograficamente parlando. Alcune trovate, come lo zoom out dopo una discussione del Lupo con la prima moglie in un attico tutto vetri a Manhattan, racchiudono in loro un universo narrativo a portata di mano dello spettatore che recepisce tutto senza la sensazione che ci sia qualcuno che vuol spiegare. Le scene di coppia, come quelle di amicizia, sono, poi, grandiosamente deludenti. Le scopate istituzionali che la seconda moglie concede al Lupo sono situazioni strappate alle pagine di Yates o Carver o Cheever. I rapporti tra gli uomini e le loro disquisizioni (come quella sui nani, i quali devono odiare ed essere odiati da Terence Winter) sono sublimi. Non è interessante l’alta finanza, come arrivano i soldi, come “funziona il meccanismo” ma, bensì, scene come quella di presentazione di Mad Max, il padre del Lupo: seduto con la moglie davanti alla TV, durante il serial preferito, viene interrotto da una telefonata. Il vostro genitore cosa avrebbe fatto? Interpretato da Rob Rainer rappresenta la figura di un grande padre che tutti vorrebbero avere, incazzoso, divertente e saggio, ricorda Ray Liotta in “Blow”.



DALLAS BUYERS CLUB

Un film di Jean-Marc Vallée. Con Matthew McConaughey, Jared Leto, Jennifer Garner, Denis O'Hare, Steve Zahn. Drammatico, durata 117 min. - USA 2013. - Good Films

Matthew McConaughey, dopo anni di film Blockbuster in cui era poco di più che un manichino con il profumo di Dolce e Gabbana, grazie al grande e morboso “Killer Joe” di William Friedkin diventa improvvisamente un attore impegnato e di puro talento. Lo abbiamo visto nelle ultime uscite, come nel sopracitato "Wolf of Wall Street", magro e con occhiaie infossate e scure. Persino nelle foto dell’attesissimo serial HBO, “True Detectives”, che lo vede al fianco di Woody Harrelson, non ha per niente una buona cera. Perché? Per il "trattamento" sul proprio fisico che si imposto per interpretare questo film, in cui la sua trasfigurazione come malato di AIDS è così sostanziale che potrebbe sottrarre a DiCaprio l’Oscar anche quest’anno. In una scena in cui si ferma in macchina in mezzo alla desolazione del confine Tex-Mex e, finalmente, realizza la sua situazione, e piange, il suo volto diventa un fascio disperato di rughe che neanche Yoda di sogna. Coglie perfettamente l’animo del personaggio che interpreta: un elettricista (come suo padre prima di lui) cavalcatore di tori al rodeo e scommettitore incallito. Un bevitore che si “fa” e si fotte qualsiasi cosa che proprio durante un misero, desolante, incidente sul lavoro ai pozzi di estrazione petrolifera (un affresco di cosa è l’America con le mani sporche di morca), viene ricoverato e scopre la sua condizione. Due dottori lo accolgono all’ospedale con la mascherina. Il più vecchio, l’inquietante attore feticcio di "American Horror Story", lo dà per spacciato in pochi giorni. L’altro dottore, l’ingenua Jennifer Gardner, a cui il ritorno a uno stile “acqua e sapone” giova molto, è la parte buona. Lei cerca di capire e, oltre a intraprendere una “per-niente-celata-al-principio” liason con il protagonista, ha anche un bel rapporto (e ben reso) con Raylan, il coprotagonista interpretato da Jared Leto. Quest’ultimo, famoso frontman e fondatore dei "30 second to Mars", ha conquistato il ruolo spogliandosi e truccandosi via Skype durante una chiamata con il regista. È proprio vero. Non ci sono più i provini di una volta. Ma l’effetto è riuscito. La sua interpretazione gli varrà sicuramente l’Oscar. Il modo in cui muove le gambe e i polsi, il suo scuotere i capelli a mento alto, il suo atteggiamento femminile, insomma, è sexy. Il suo strazio è commovente e con la sua uscita di scena il film poteva concludersi. La storia vede il protagonista ribellarsi al sistema farmaceutico e, grazie a uno straordinario “guru” (spiantato e geniale come un hippie) in Messico, tentare di far star meglio i sieropositivi allungandogli la vita. Il rude texano interpretato da McConaughey, Ron Woodroof, diventa un benefattore. Sfruttando dei cavilli burocratici, spaccia legalmente un cocktail (che viene tutt’ora usato, la storia è ambientata nella seconda metà degli anni ottanta) di medicinali e vitamine che aiuta a vivere una vita degna ai malati. I soldi che guadagna li utilizza per curare se stesso dopo l’emarginazione dal suo mondo dovuta alla malattia. Si fa aiutare da Raylan per entrare nel mondo gay, il più flagellato dal mostro AIDS. La loro struggente amicizia e senz’altro da lacrimoni e, alla fine, poco importa del messaggio sociale che denuncia l’assoluto cinismo delle case farmaceutiche che sappiamo esser vero paragonato alla bellezza triste dei protagonisti.



A PROPOSITO DI DAVIS

Un film di Joel Coen, Ethan Coen. Con Oscar Isaac, Carey Mulligan, Justin Timberlake, Ethan Phillips, Robin Bartlett. Titolo originale Inside Llewyn Davis. Drammatico, durata 105 min. - USA, Francia 2013 - Lucky Red

Cosa c’è di peggio del sogno americano infranto? E chi, meglio dei Coen, sa raccontare tale fallimento? La filmografia dei famosi fratelli di Hollywood è, infatti, un insieme di storie di personaggi presi nella loro spirale di anonima disperazione. Per ogni storia gloriosa, ogni sogno diventato realtà, per ogni formazione dell’eroe, ci sono milioni di altre che raccontano insuccessi. Grazie al loro sguardo disincantato e al loro gusto per la personalità umana riescono a elevare il carisma dei loro protagonisti che, prima del loro tocco magico, non avevano niente in più di speciale. Allora i dialoghi, i piccoli gesti, i dettagli, come in un grande romanzo, ti fanno capire quanto sia dannatamente importante come si racconta una storia più della trama stessa. Il Davis di cui si parla è interpretato da Oscar Isaac, che qualcuno forse ricorda prendere il cencio insanguinato come dono da Ipazia, o come padre buono-a-nulla in Drive, restituisce il perfetto artista ricco di ambizione, pieno di una buona dose di superbia e con anche un pizzico di sfiga cosmica. Un cantautore folk, reciprocamente disprezzato dalla famiglia e maltrattato da una donna (una finalmente sexy Carey Mulligan) che non è neanche la sua (e che si rivela un pessimo stereotipo di cattiveria femminile), perché lui ha bisogno di una cosa e una sola: realizzarsi. L’unica pecca del film è che si ammoscia dopo l’uscita di scena di Goodman. Il viaggio in macchina da New York a Chicago è il punto più divertente e poetico nel quale, il corpulento attore, snocciola una serie di battute argute che fanno ridere di gusto. Con lui e Davis, in macchina, c’è anche uno pseudo James Dean, il belloccio con le pose da marchettaro che il grosso feticcio dei Coen già protagonista de “Il Grande Lebowski” chiama “ il suo valletto”. Si chiama Johnny Five, fa la parte del burbero taciturno ed è interpretato da Garrett Hedlund, che forse qualcuno ricorda essere il beneamato Patroclo di “Troy”. Le scene ai distributori durante questo viaggio sono foto d’epoca in movimento. Le pose del marchettaro che fuma, dello stralunato Davis e, soprattutto, la straordinaria goffaggine del jazzista logorroico e eroinomane, interpretato da Goodman, intabarrato e frustato dalle intemperie, sono da antologia. Proprio quest’ultima immagine, che ha del mistico, candida assolutamente John Goodman per interpretare Mr. Wednsday il misterioso personaggio del bellissimo “American Gods” di Neil Gaiman, in un ipotetico film dei nostri sogni.


IL CAPITALE UMANO

Un film di Paolo Virzì. Con Valeria Bruni Tedeschi, Fabrizio Bentivoglio, Valeria Golino, Fabrizio Gifuni, Luigi Lo Cascio. Thriller, durata 109 min. - Italia 2014. - 01 Distribution

Tolto di dosso il pacchiano allure toscano, Virzì, che annovera comunque tra la sua produzione alcuni dei più bei film italiani degli ultimo anni come “Ovosodo” e “La prima cosa bella”, realizza il suo miglior lavoro. Un sorprendente ritratto intrecciato del brianzolo, uno scontro tra classi sociali e generazioni, ben scritto (questo darà dei punti in più allo scrittore Francesco Piccolo candidato al prossimo premio Strega) e recitato ancor meglio. L’unica pecca, probabilmente imbastita per lasciare un colpo di scena nella trama gialla, è la scelta dell’utilizzo degli episodi per raccontare la storia. Perché il primo episodio con Bentivoglio e Gifuni  è straordinario. I due personaggi da loro caratterizzati raggiungono il livello drammatico-divertente-grottesco tipico della tanto, e giustamente, osannata Commedia all’italiana. È un peccato che, più prosegua il film, meno si vedano. Anche gli altri attori non sono da meno però. Bravissima Valeria Bruni Tedeschi: nella sua scena con Lo Cascio c’è tutto il “vorrei ma non posso (o non voglio)” della sua generazione. Strepitosa è addirittura Matilde Gioli, nuova scoperta del regista di Livorno. Virzì l’ha definita: “la risposta lombarda ad Angelina Jolie”. Se possibile, questa giovane ragazza, è ancora è ancora più sensuale e, grazie anche ai costumi e alla sceneggiatura, racchiude in se uno stilema riconoscibilissimo attualmente in Italia. Un uomo, un poveraccio, un cameriere italiano che lavora per una ditta di catering gestita da un ex immigrato, torna a casa in bici di notte per risparmiare; muore in seguito ad un incidente con un pirata della strada. Chi è stato?


THE COUNSELOR - IL PROCURATORE

Un film di Ridley Scott. Con Michael Fassbender, Penelope Cruz, Cameron Diaz, Javier Bardem, Brad Pitt. Titolo originale The Counselor. Drammatico, durata 111 min. - USA, Gran Bretagna 2013. - 20th Century Fox

Cosa è un Bolito? Una cravattina di cuoio texana? La risposta la conoscerete solo vedendo questo film. In sala, durante la proiezione di “The Counselor”, si capisce il perché gli autori del recente “American Hustle” abbiano infarcito una ottima pellicola di inutili spiegazioni. Usciti dalla proiezione si sentono frasi del tipo: “Bello, ma non ho capito…”, “Ma quello là poi era…”, “Boh?”. In realtà la trama è semplicissima. La pellicola parla di avidità e di violenza, temi cari allo scrittore Cormac McCarthy, gigante della letteratura americana e autore della sceneggiatura. Chi ha letto il sopracitato romanziere di El Paso, non può far altro che eccitarsi dopo i continui pugni nello stomaco che, come al solito, lo scrittore promette e dà. La miseria della violenza umana, l’uomo in quanto pezzo di carne da macello, la spietata incontrollabile legge della vita reale, raccontano quanto poco ci sia di divertente nel fare soldi illegalmente. Quanto inutile sia pugnalare alle spalle e fregare il prossimo, per quello che, Sergio Leone, avrebbe definito un pugno di Dollari. C’è anche chi, alla fine, la spunta riuscendo a farla in barba agli altri, ma si evince chiaramente che lo fa a discapito della propria anima. Alcune scene sono memorabili e non fine a se stesse. Come quella che coinvolge una sensualissima Cameron Diaz, una Ferrari e uno schockato Bardem. Sebbene tagliata la parte finale, forse quella più bella, non è inserita solo per far vedere le doti acrobatiche di una ballerina argentina, ma serve, come le altre, per capire la psicologia dei personaggi e cosa li conduce al loro inevitabile destino. “Ognuno paga le conseguenze delle proprie scelte. E la scelte sono state fatte molto tempo prima che ognuno se ne renda conto”. Un’altra sequenza interessante è quella copiata da una puntata dei Simpson (chissà i Simpson, a loro volta, chi hanno citato…) dove un fantomatico “uomo dei fili” tende un cavo d’acciaio su di una strada deserta: ha bisogno di una testa. L’unica pecca di questo film è che la sua bellezza non migliora sul grande schermo, ovvero leggendo la sceneggiatura hai già tutto quello che ti serve per godere della storia. Ridley Scott non ha trovato il verso  di trasporre uno scrittore di per se già cinematografico come McCarthy. I Coen avevano utilizzato uno stile quasi documentaristico in “Non è un paese per vecchi” è aveva funzionato. Aveva anche funzionato “La strada” di John Hillcoat con il suo filtro grigio e struggente. Senza parlare del mappazzone di Billy Bob Thorton, “Passione Ribelle”, che, del romanzo da cui è tratto, “Cavalli Selvaggi”, non è neanche un’ombra sbiadita. Aspettando il giovane James Franco e il suo “Figlio di Dio”, si può dire che questo film è riuscito a metà, ma esalta tutti i fan del vecchio scrittore di El Paso.


THE BUTLER - UN MAGGIORDOMO ALLA CASA BIANCA

Un film di Lee Daniels. Con Forest Whitaker, Oprah Winfrey, Mariah Carey, John Cusack, Jane Fonda. Titolo originale Lee Daniels' The Butler. Drammatico, durata 132 min. - USA 2013. - Videa - CDE

Scorre via piatto, ma, come tutti i biophic del genere, è da vedere in quanto racconta anni e anni di storia americana. La velocità democratica di un’egemonia molto giovane se paragonata a quella europea. L’ingiustizia razziale che per anni ha serpeggiato, e, forse, continua a strisciare, vista con gli occhi di un maggiordomo che combatte la sua posizione sociale con il duro lavoro, l’abnegazione silenziosa, scontrandosi con l’amato figlio ribelle attivista politico e “follower” anti litteram di Martin Luther King. Il rapporto padre/figlio è il fulcro più interessante della pellicola che non sorprende mai lo spettatore: lo conduce dolcemente dove sa di andare, ma, proprio per questo dà la soddisfazione che ci si aspetta dalla storia che non si può riscrivere. In Italia è stato nelle sale proprio nel giorno della memoria dedicato al reverendo nero sopracitato. Menzione d’onore per la bellezza in stile blaxploitation della fidanzata del figlio del maggiordomo. Una “bella e cattiva” da brividi.


IL GRANDE MATCH

Un film di Peter Segal. Con Sylvester Stallone, Robert De Niro, Kevin Hart, Alan Arkin, Kim Basinger. Titolo originale Grudge Match. Commedia, durata 113 min. - USA 2013. - Warner Bros Italia

“The Razor”, Silvester Stallone e “The Kid” Robert DeNiro. Due pugili contro. Non basta per un film? Basta eccome! Lo scontro infinito tra due uomini come Joseph Conrad insegnava ne “i duellanti”, ha un che di epico. Se poi ci focalizziamo sul momento del loro tramonto fisico diventa addirittura crepuscolare. Alla base del rancore, oltre che al classico odio sportivo, c’è anche il fattaccio sentimentale. Il classico triangolo di tradimenti con cardine Kim Basinger che, inquadrata in campo medio potrebbe far invidia a lei stessa da giovane (una volta avvicinata la telecamera i difetti si vedono, ma tant’è…). Stallone è il buono ingenuo e, DeNiro, il mascalzoncello. Niente di nuovo. Un ora e mezzo di intrattenimento condito da buone interpretazioni e culminante nella classica resa dei conti che, udite udite, avrà un vincitore. Nota: Alan Arkin è un attore formidabile, diverte solamente alzando un sopracciglio, avrebbe dovuto fare molti più film.  



Giorgio Giusfredi