CINEMA AL CINEMA 13
ottobre 2013
di Giorgio Giusfredi
LA FINE DEL MONDO
Regia di Edgar Wright. Con Simon Pegg, Nick Frost, Paddy Considine, Martin Freeman, Eddie Marsan. Genere Azione, produzione Gran Bretagna, 2013.
La coppia Wright e Pegg, rispettivamente regista e protagonista di "Hot Fuzz", si riunisce e sforna un altro piccolo capolavoro: l’ultimo capitolo della “Trilogia del Cornetto” di cui fa parte anche "Shaun of the dead". I tre film, oltre a essere accomunati per autori e attori, sono, appunto, tenuti insieme dalla presenza del famigerato gelato racchiuso da una cialda conica della Algida. La storia racconta di un quarantacinquenne alcolizzato con la sindrome di Peter Pan, interpretato magistralmente dallo steso Simon Pegg. Questi veste, parla e si atteggia come faceva nell’anno della sua maturità (utilizza anche la stessa identica macchina scassata). Un giorno, alla riunione degli alcolisti anonimi, un tizio messo peggio di lui lo schernisce: Gary King – ovvero il Re, come il protagonista si fa chiamare per tutto il film – non è riuscito a completare il “miglio dorato”. Nei borghi di provincia inglese, quei paeselli tristi alla Miss Marple per intenderci, è consuetudine infatti sbronzarsi fino a schiattare bevendo una pinta in ogni singolo pub della cittadina. Il King con inganni e canzonature riesce a riunire il vecchio gruppo. Gli altri quattro che ne fanno parte sono interpretati tutti da attori inglesi di successo tra cui spicca l’interpretazione di Nick Frost. Ogni componente ha i suoi problemi e le sue fissazioni, ma solo Gary è rimasto adolescente. La sofferenza tipicamente maschile dell’essere abbandonati e blanditi dagli amici che “crescono” è uno dei temi più interessanti e delicatamente riusciti. Infatti il film viaggia su binari divertenti alla “Una Notte da leoni” fino a metà, quando i componenti del gruppo, stufi dell’immaturità e dell’esagerazione di quello che era un tempo il loro leader indiscusso, decidono di interrompere di nuovo il “miglio dorato”. Qui la pellicola ha una svolta geniale: i protagonisti capiscono che il paese della loro adolescenza, dove hanno fatto appena ritorno per bere, è completamente controllato dagli alieni. Non solo, tutti i vecchi personaggi sono rimpiazzati da dei replicanti che contengono una sostanza blu. L’evidente sinonimo della provincia uguale alienazione è chiaro, ma per niente raffazzonato. Ogni minuti e ogni sorpresa è dosata alla perfezione senza mai far uscire lo spettatore dalla “suspension of disbelief” fino Alla Fine del Mondo, nome dell’ultimo pub dove finiscono di bere tutte le pinte e avviene l’apocalisse. Attenzione: questi spoiler non sono importanti perché veramente imprevisti sono i comportamenti che ne derivano e ne conseguono e la narrazione si conclude sistemando ogni carattere senza snaturare i personaggi o migliorarli per forza: senza inutili e stupidi buonismi.
COSE NOSTRE (MALAVITA)
Regia di Luc Besson. Con Robert De Niro, Michelle Pfeiffer, Tommy Lee Jones, Dianna Agron, John D'Leo. Genere Thriller, produzione USA, Francia, 2013.
Finalmente, dopo anni e anni di faccine gigionesche, il buon vecchio Bob De Niro torna a recitare degnamente. Perché in questo film regala una prestazione intensa e sfaccettata senza caricare troppo un personaggio già grottesco da copione. Tratto da un romanzo omonimo uscito sull’onda del clamoroso e meritato successo de “I Soprano”, il film ci mostra la vita, la consuetudine di una famiglia mafiosa nel New Jersey. Padre, madre, figlio, figlia e cagnolone (dal nome Malavita) italoamericani, si nascondono in Francia spostandosi perché pentiti e reo confessi sotto protezione testimoni. Non è un caso che questo film comincia dove figurativamente finisce “quei bravi ragazzi”. Infatti la pellicola con Ray Liotta è ampiamente citata, anzi sbandierata persino in una bella scena, e il produttore esecutivo che ha ingaggiato il nuovamente carico di verve Besson è nientemeno che Martin Scorsese. Molti sono i punti di contatto con la serie televisiva sopracitata interpretata dal geniale compianto Gandolfini: i vestiti, certi modi di dire (uno dei quali costituisce una importante svolta narrativa), le acconciature e Pussy Bonpensiero. La prima parte è proprio eccellente, sul finale, quando il ritmo si impenna grazie all’entrata in scena dei killers, la narrazione risulta un po’ più sbrigativa e quindi posticcia. Attenzione, solo un po’, perché questo è senz’altro un film da vedere. Una menzione d’onore – oltre che a Michelle Pfeiffer, che va sempre ricordata (anche se il suo personaggio si perde nel finale come quello di De Niro) – va a una strepitosa Dianna Agron che interpreta una minorenne dura dal cuore tenero e che, grazie alla sua performance, avrebbe fatto girare la testa a più di un Nabokov.
GRAVITY
Regia di Alfonso Cuarón. Con Sandra Bullock, George Clooney, Ed Harris, Orto Ignatiussen, Phaldut Sharma. Genere Fantascienza, Ratings: Kids+13, produzione USA, Gran Bretagna, 2013.
Se siete affetti da agorafobia questo film è altamente sconsigliato. Altrimenti, è assolutamente da vedere. Il genere Fantascienza non rende a pieno la paura dell’infinito dovuta a una straziante deriva in stile "Vita di P" nello spazio. La sensazione di ansia causata allo spettatore è senz’altro un punto a favore della pellicola. Come spettacolari e sorprendenti sono alcuni piano sequenza che ruotano in continuazione la camera a trecentosessanta gradi entrando e uscendo dalle soggettive dei protagonisti stessi; esplorando interni ed esterni senza mai staccare. Quando ci chiediamo: “Come avrà fatto questa cosa Cuarón?”, significa che il regista ha fatto qualcosa di strabiliante. Realistico persino il personaggio di George Clooney (identico a Buzz Lightyear di Toy Story con il casco da astronauta); i suoi interminabili e prolissi aneddoti ci regalano un aspetto dello spazio che è quantomeno verosimile: quello di un’astronauta che continua a parlare per mantenere la lucidità di tutto l’equipaggio. Sandra Bullock non è certo un’attrice scoperta ieri, per questo il film si fonda tanto anche sulla sua prova da attrice che, a lungo, resta da sola in scena. Due note su di lei. Uno: o ha il sedere ritoccato in digitale o la proporzione cosce-culo è il frutto di un personal trainer folle. Due: o ha i capelli più imbrillantinati di un mafioso di altri tempi o nel film c’è un errore, a gravità zero la chioma non se ne sta attaccata alla testa come lo scalpo di un playmobil. Bellissime anche le riprese della terra dallo spazio.
ANNI FELICI
Regia di Daniele Luchetti. Con Kim Rossi Stuart, Micaela Ramazzotti, Martina Gedeck, Samuel Garofalo, Niccolò Calvagna. Genere Commedia, produzione Italia, Francia, 2013.
Luchetti difficilmente sbaglia un film. Anzi gli attori che assolda regalano sempre delle prestazioni superiori alle loro capacità. Anche qua Micaela Ramazzotti da il meglio di se; specialmente in quelle scene in cui deve decidersi se lasciarsi andare all’amore saffico o no: possiamo quasi sentire il suo desiderio verso l’avventura sessuale sconosciuta. Kim Rossi Stuart è probabilmente l’attore italiano più bravo in attività. Caratterizza un altro personaggio completamente diverso dai precedenti regalandoci un artista romano anni settanta perfettamente in linea con l’immaginario collettivo, (infarcito di ossessioni, tic, semibalbuzie e atteggiamenti) che regge per tutta la durata del film. Molto interessante il confronto che il personaggio ha con la madre – terribile donna ultracritica zittita solo quando snobba il nipote – e con gli amici artisti – molto bella l’immagine del disprezzo provato per chi diventa “fumettaro”, mestiere ancora on ritenuto abbastanza nobile all’epoca. Ma in questa storia d’amore tra due genitori che, appunto, si lasciano e si riprendono in un periodo di rivoluzione socioculturale, la vera parte da leoni la fanno i due bambini che letteralmente rubano la scena e che da soli valgono il prezzo del biglietto. Grazie a una sceneggiatura perfetta lo sguardo dei due bambini verso quel mondo è tagliente e interessante e il loro rapporto di fratelli è struggente e riuscito. D’altronde il fratellino più grande, probabilmente, altri non è che l’alter ego di Luchetti. Non a caso, infatti, ha la passione per le riprese e, come scopriremo in fondo anche un innato talento. La scena più bella del film avviene durante il raduno di femministe in Camargue dove questo ragazzino dà il primo bacio a una francesina pari età in un contesto di amore infantile idilliaco che ognuno vorrebbe vivere.
THE GRANDMASTER
Regia di Wong Kar-wai. Con Tony Leung, Ziyi Zhang, Chen Chang, Qingxiang Wang, Tielong Shang. Genere Biografico, produzione Cina, Hong Kong, 2013.
La vita di Yip Man, il maestro di Bruce Lee, era stata già raccontata dal film Ip Man. Questa pellicola più che essere un film di arti marziali è una storia d’amore tra il protagonista che procrastina una tecnica essenziale di poche mosse efficaci e Gong Er (interpretata da un immarcescibile Ziyi Zhang, già nota star del jet set hollywoodiano) l’unica figlia del maestro della tecnica dei “64 palmi”. Infatti le parti che descrivono i combattimenti sono incredibilmente più noiose di quelle di riflessione in cui si vedono scorci di Cina pre e post bellica; in cui capiamo la struggente situazione di un amore impossibile e quindi desiderato. I duelli comunque servono come motore dell’azione. I principali riguardano appunto il vecchio maestro, padre della donna d’onore Gong Er, che viene sconfitto e ucciso dal suo allievo prediletto; quello che vede “il rasoio” altro infallibile guerriero protagonista della Storia sconfitto da quello che poi diventerà The Grandmaster; e quest’ultimo stesso sconfitto dalla ragazza, Gong Er, di cui dopo si innamorerà perdutamente (solo per essersi sfiorati un attimo il naso durante il combattimento!!). Alla fine ci saranno le rese dei conti che riguardano appunto l’orgogliosa figlia del padre ucciso e disonorato ma che ai fini della narrazione non importano perché quello che interessa allo spettatore è: riuscirà il nostro eroe a farsi quell’orgogliosa, dura e bellissima maestra delle arti marziali? La risposta è… L’unico motivo per cui andare a vedere il film. In fondo, a giochi fatti, nell’epilogo, fa capolino un ragazzino curioso nella palestra appena aperta dal maestro. Questo ragazzino è proprio quello che tutti si aspettano.
BLING RING
Regia di Sofia Coppola. Con Israel Broussard, Katie Chang, Taissa Farmiga, Claire Alys Julien, Georgia Rock. Genere Drammatico, produzione USA, Gran Bretagna, Francia, Germania, Giappone, 2013.
Un consiglio è non andare a vedere questo film se già odiate certi atteggiamenti di giovani “Fashion Victim”. Potreste uscire furiosi. Sofia Coppola inquadra con il suo solito sguardo attuale un gruppo di ragazzine usando come soggetto un’inchiesta di Vanity Fair su dei furti in case di star a Hollywood realmente avvenuti per mano di un gruppo di adolescenti. Queste ragazzine, insieme all’immancabile amico gay, tra droghe leggere e pesanti, corse su macchine veloci e serate in disco vestite come meretrici dell’ultima generazione per rimorchiare lo young agent di turno, svaligiano allegramente le case dei vip facendo passare anche questi ultimi come dei perfetti imbecilli. Le star non si accorgono nemmeno che stanno sparendo degli oggetti di valore in mezzo a montagne di paccottiglia supercostosa nelle loro case museo arredate tra il kitsch e il trash. Come al solito a fare la figura più mera risulta Paris Hilton. L’odio dello spettatore arriva al culmine fin quando finalmente le scoprono e arrestano. Da questo punto il film e le interpretazioni si fanno più interessanti e viene fuori il talento di Emma Watson, la più viziata di tutte, che riesce, con le sue faccine, a descrivere l’incredulità di una stronzetta che non capisce dove ha sbagliato perché nel suo mondo fatto da madre accondiscendente con chihuahua annesso, tute rosa shocking aderenti e uomini ai piedi tutto le era concesso, a suo pensare. Menzione speciale per il candore ingenuo anche di Taissa Farmiga, già star di American Horror Story e sorella della più famosa (e vecchia) Vera, cardine del triangolo amoroso con Di Caprio e Damon in "The Departed". Farà strada. Ah, come al solito, a subire i danni più grossi della vicenda è l’unico, povero, ragazzino di turno il quale seguiva le sue amiche solo in cerca di integrazione sociale. Non era interessato ai furti, ma all’amicizia, e viene duramente punito.