Una volta tanto, lasciatemi scrivere un articolo che parla di bistecche, funghi, vino rosso, zucchine dell’orto, buccellato lucchese e cantucci di Prato. I fumetti c’entrano soltanto fino a un certo punto, anzi, a ben guardare non c’entrano quasi per niente. Quasi, perché poi, dove ci sono io, ci sono per forza anche loro. Però a volte succedono serate come quelle di sabato scorso, e bisognerà che qualcuno le racconti, se non su questo blog, su un altro, per lasciare un indizio di ore piccole che non si fanno soltanto nelle discoteche alla moda, di cene che non si consumano per forza nel ristorante di tendenza, di amici con cui si esce che non sono quelli che si tirano a lucido e sfoggiano le fidanzate con i tacchi a spillo e sguardi da star. Un indizio, un brano di diario che, se parrà inutile a voi, servirà almeno a me, per recuperare fra qualche anno un frammento di memoria e rivivere per un attimo il ricordo di certe (tu chiamale se vuoi) emozioni.
La storia è semplice fin quasi essere banale. Comincia un sabato mattina alla stazione di Prato, dove vado in macchina a prendere Graziano Romani e Marco Verni che arrivano in treno uno dall’Emilia e uno dalla Romagna. Li devo accompagnare in una fumetteria, dove è in programma una presentazione del secondo Zagorone (ed ecco perché i fumetti un pochino c’entrano). Passando per il centro di Prato, però, faccio vedere ai miei amici lo storico forno della città dove da secoli si preparano i celebri “cantucci”, i biscotti secchi da inzuppare nel vin santo. E’ una bottega, dalla foggia antica, quella in cui li porto, dove si fanno praticamente soltanto quelli. Ci si mette in fila, perché c’è sempre la fila, e si aspetta permeati dal profumo dei dolci appena sfornati. Compro un paio di chili di cantucci e un tre bottiglie di vin santo. Un po’ perché Marco e Graziano se li portino a casa, un po’ in previsione della cena. Già, perché la serata si prospetta speciale. Abbiamo un secondo incontro in un libreria di Viareggio, e poi via, a casa di Giorgio, a Lucca.
Giorgio è Giorgio Giusfredi. Un amico del tutto particolare. Innanzitutto perché è il sosia sputato di Ernesto Che Guevara. Quindi, perché è uno chef. Vabbé, diciamo un cuoco, per parlare come si mangia. Un cuoco particolare, dato che, per scelta, e nonostante la giovane età, fa il free lance e cucina soprattutto nelle case private, là dove lo chiama chi vuole mettere a tavola un po’ di invitati. Ogni tanto parte per l’Inghilterra, a volte per gli Stati Uniti. Gli dicono: porta più roba che puoi. Cioè funghi, tartufi, parmigiano, salumi, olio, pasta, quello che all’estero non si trova andando a fare la spesa, perché anche nelle grandi città si può vedere qualcosa che ha sull’etichetta il nome di un prodotto tipico italiano, ma poi, a parte il nome, di italiano non c’è altro o comunque non è roba di qualità. Così lui viaggia con quel che riesce a portare e mette a tavola la gente. Sa cucinare di tutto, ma gli chiedono quasi sempre i piatti della tradizione toscana, lucchese in modo particolare, a partire dalla zuppa alla frantoiana.
A Lucca, Giorgio ha una casa in campagna con un bell’orto, un pergolato di vite americana, un forno all’aperto. Più o meno tutte le estati, e talvolta anche in inverno (ma allora su va nella grande mansarda all’ultimo piano) organizza delle cene per gli amici fumettari, dato che il fumetto è, dopo la cucina, la sua più grande passione. Lui dice che un po’ è colpa mia, per via di quella volta che, quando era ancora alle elementari, suo padre lo portò a vedere una conferenza su Zagor che io tenni a Campi Bisenzio, e rimase folgorato. Non so che cosa abbia potuto dire per far così tanta presa sul piccolo Giorgio. Magari fatevelo raccontare direttamente dall’interessato, dato che capita spesso, a chi frequenta le mostre dei fumetti, di incontrarlo. Proprio in ragione dell’imprinting che gli diedi (parole sue, che non mi sento di mettere in dubbio) ha finito per far parte dello staff di Lucca Comics e organizzare eventi a ripetizione che lo hanno messo in contatto con un po’ tutto l’universo bonelliano. Si è messo anche a scrivere, dopo aver frequentato la scuola di scrittura creativa di Sebastiano Mondadori, e di recente è uscita una antologia, “Salsicce e rapine”, con due suoi racconti.
Visto che io, Verni e Romani eravamo a Viareggio, Giorgio ha preso la palla al balzo e ci ha proposto di andare a mangiare da lui, promettendo che avrebbe cucinato per noi. Ci siamo andati, portando il vin santo e i cantucci di Prato. Giorgio aveva apparecchiato alla buona sotto la pergola, al fresco, in giardino, e c’eravamo solo noi. Quattro amici attorno a un tavolo, con un menu semplice e preparato in gran parte all’impronta, ma di quelli in grado di lasciare chiunque a bocca aperta. Per antipasto una insalata di pollo, mandorle e aceto balsamico. Graziano Romani, galvanizzato, si è fatto spiegare la ricetta e conta di stupire gli amici a Reggio Emilia preparandola anche lui a casa sua. Poi un risotto di funghi. “Ho del riso che viene proprio dal produttore in Piemonte, e al mercato ho trovato i porcini buoni”, spiega Giorgio, che considera l’arte dello scegliere gli ingredienti il principale ingrediente essa stessa dei suoi piatti. Non so come descrivervi quel risotto, gente. Immaginatelo voi.
Poi, sul tavolo sono comparse due bistecche alla fiorentina. Ora, per essere fiorentine, le bistecche devono essere in grado di stare in piedi da sole. E’ inutile, cari ristoratori milanesi, che mi scriviate “bistecche alla fiorentina” nei vostri menu e poi mi portate quelle che, ai miei occhi, sono delle braciole. Giorgio ha mostrato allo stupito Marco Verni, che quasi non ci credeva, come sono fatte e, soprattutto, come si fanno: spolverandole bene di sale e pepe prima della cottura e mettendole sulla brace a cuocere su tre lati, compreso lo spessore, ma lasciando il sangue dentro. Per contorno, zucchine dell’orto fatte con un sughino rosso e piccante che non so cosa ci fosse dentro, ma era roba buona, più pezzo di cipolla, sedano e carote da mangiare a morsi, come fossero mele. E che dire del dolce? Giorgio prende del buccellato, il “panettone” tipico lucchese, lo taglia, abbrustolisce le fette sulla brace, le dispone in tre scodelle, le ricopre di fragole, ricopre le fragole di crema, sbriciola sulla crema delle scaglie di cioccolato fondente, e il gioco è fatto. Il tutto, annaffiato con vino rosso locale.
Ma, naturalmente, non si è trattato soltanto di mangiare del buon cibo. C’eravamo noi, io, Giorgio, Marco e Graziano, tutti per una sera senza fidanzate, come gli amici di “Rotta per casa di Dio” degli 883. E allora, senza bisogno di locali con le stroboscopiche, senza superalcoolici, senza happy hour, senza cocktail, abbiamo riso, chiacchierato a ruota libera, parlando e sparlando, finché si son fatte le due. Non posso farvi assaggiare niente, spero vi bastino un po’ di foto scattate con il telefonino.