martedì 15 novembre 2011

IL VEDOVO ALLEGRO

In tutte le mie biografie sparse in giro per la Rete o stampate su carta si legge che, oltre a potermi definire “scrittore” o “sceneggiatore di fumetti”, sono anche “autore teatrale”. Il che è vero, avendo scritto due commedie e alcuni monologhi registrati alla SIAE, più numerose altre cosette che non ho ritenuto di voler tutelare. Questa mia produzione per il palcoscenico risale ormai a diversi anni fa, dato che praticamente ho smesso di occuparmi di teatro poco dopo aver cominciato a lavorare a tempo pieno per i fumetti.

C’è chi lo ritiene un peccato, visto che quando una compagnia mette in scena uno dei miei testi, subito mi chiede se ne ho altri o se sono interessato a scrivere per loro. Al che io spiego che sono spiacente, ma proprio non ho il tempo. Tuttavia continuo a prendere appunti per una terza commedia che forse butterò giù quando andrò in pensione (e dunque, visto l’andazzo, fra una ventina d’anni). Ho già scelto il titolo: “Fresche frasche”. Ambientazione: Firenze, 1912. Anche la più rappresentata fra le mie commedie, “Il vedovo allegro” è ambientata a Firenze, ma nel 1920. Non posso davvero lamentarmi, quanto a rappresentazioni. Dal 1985, anno in cui l’ho scritta, è sempre stata ininterrottamente in scena, da qualche parte, fino a oggi. Per “ininterrottamente” intendo che c’è stato almeno un allestimento tutti gli anni. Non posso fare previsioni per il futuro, però una compagnia di Prato sta di nuovo per debuttare con il mio titolo nei prossimi giorni.

Ogni tre mesi, la SIAE mi fa arrivare un resoconto dei diritti d’autore: non saranno grandi cifre, ma sempre meglio di un calcio nei denti (diciamo fra i 50 e i 100 euro sugli incassi dichiarati per ogni spettacolo). Ovviamente non so nulla delle recite fatte senza denuncia, che sospetto essere altrettanto numerose di quelle regolari. Considerando che io ho fatto la fatica di scrivere il testo venticinque anni fa e da allora il mulino continua a macinare senza spinta, mi pare una gran bella cosa. Mi chiedo che razza di incassi facciano gli eredi di Pirandello o di Eduardo, che hanno decine di opere teatrali messe in scena contemporaneamente, opere che probabilmente riempiono teatri ben più grandi di quelli dove vengo rappresentato io. Non è del tutto vero che il mulino de “Il vedovo allegro” non ha bisogno di nessuna spinta: in realtà, di tanto in tanto spedisco qualche copione per posta o via mail all’indirizzo di compagnie teatrali che scopro su Internet o che mi vengono segnalate da amici e conoscenti. Se avessi un agente che mi rappresenta magari potrei fare di più, ma non ho la minima idea di come fare a procurarmene uno. Se ce ne fossero in ascolto, sarà meglio che spieghi però come stanno le cose.

Cominciamo dal principio. Sono sempre stato attratto dalle commedie tanto quanto non ho mai sopportato il teatro drammatico. Per me (per i miei gusti, intendo), il palcoscenico corrisponde al mascherone che ride, non quello (di solito affiancato) con la bocca all’ingiù. L’attore che piange o muore sulla scena non è credibile: mi commuovo leggendo un libro, vedendo un film, ascoltando una canzone, ma se vado a teatro a veder tragedie, mi addormento. Invece, di fronte a un attore brillante e a una commedia scoppiettante di invenzioni, di battute, di colpi di scena, di equivoci, mi diverto e mi raggomitolo dalle risate. Credo che il talento di saper divertire sia qualcosa di grande, che rende il mondo un posto più felice e più bello da abitare. Del resto, siamo al mondo per ridere: all’inferno e in purgatorio c’è poco da stare allegri, e ridere in Paradiso non sarebbe buona educazione.

Dunque, sono sempre stato un frequentatore di quei teatrini parrocchiali o di provincia dove compagnie di attori improvvisati (a volte però anche molto bravi) mettevano in scena delle commedie in vernacolo, o dei teatri fiorentino dove mostri sacri della comicità toscana come Ghigo Masino o Giovanni Nannini riempivano le sale per mesi e mesi con i loro titoli. Non so se avete mai visto Ghigo Masino, alias Arrigo Masi, al teatro dell’Affrico, proprio nei pressi dello stadio di Firenze. Era una forza della natura. Bastava guardarlo per mettersi a ridere e non c’era una rappresentazione uguale all’altra perché improvvisava di continuo mettendo a volte anche nei guai la sua stessa compagnia, costretta a seguirlo in impreviste variazioni del copione. Immagino che a Genova accadesse lo stesso con Gilberto Govi. Ogni città ha avuto i suoi protagonisti della ribalta. La mia passione per il teatro vernacolare (nobilitato peraltro da titoli noti anche fuori della Toscana, come “L’acqua cheta”) mi portava anche a cercare di non perdermi le operette date in TV, o le antologie dell’avanspettacolo. Però non disdegnavo di girare per i teatri dove andava in scena Mariveaux o Feydeau, o si rappresentava la "Mandragora" di Machiavelli piuttosto che “Rumori fuori scena” di Frayn.

Quando seppi, più o meno all’età di diciotto anni, che una compagnia amatoriale di Campi Bisenzio cercava un “attor giovane”, mi presentai baldanzoso al regista e fui immediatamente ingaggiato. Cominciò un periodo di gran divertimento, perché mettevamo continuamente in scena nuove commedie, alcune attinte dal repertorio della tradizione, come “Le forche caudine” o “Il gatto in cantina”, altre scritte dal regista stesso, che aveva un notevole talento comico. Ho persino cantato in una operetta, “Giocondo Zappaterra”, dove interpretavo la parte del contadino Tonghe. Credo che la facilità con cui ancora oggi parlo in pubblico con il microfono in mano (non soltanto in ambito fumettistico, ma per esempio anche facendo lo speaker in manifestazioni di piazza) derivi da quell’esperienza.

A un certo punto, però, mi venne voglia di cimentarmi come autore. Le idee comiche non mi mancavano, si trattava soltanto di imbrigliarle e disciplinarle in una trama. Vista la compagnia da cui provenivo, però, mi parve inevitabile pensare a un testo in vernacolo fiorentino che si inserisse in quel tipo di tradizione che conoscevo così bene. Intitolai la mia commedia "Il vedovo allegro", senza sapere che già esisteva un film con quel titolo risalente agli anni Cinquanta. Per qualche tempo ebbi anche la segreta speranza che il mio copione potesse venire messo in scena proprio dal regista per cui recitavo. Non fu possibile: i programmi erano diversi e io ero un autore alla prima esperienza. Tanta però era la mia voglia di veder rappresentato “Il vedovo allegro” che decisi di mettermi in proprio e creare una compagnia amatoriale tutta mia. Convinsi un gruppo di amici (di varie età ma tutti più anziani di me: padri e madri di famiglia che frequentavano un circolo dove anch’io bazzicavo) a imbarcarsi nell’impresa e nacque la Compagnia del Teatro Poco Stabile dei Colli Alti di Signa, che aveva nello strepitoso Mario Baldinotti il suo mattatore. Nel giro di alcuni mesi, mettemmo in scena la mia commedia, che fu rappresentata per la prima volta, con la mia regia, nel febbraio del 1986. Fu un successo: andammo avanti con le repliche fino all’estate, girando per i teatrini parrocchiali della provincia di Firenze. Negli anni successivi, allestimmo vari altri spettacoli, dalla raccolta di scenette “Le magnifiche sette” a un’altra mia commedia “Da domani si fa i conti”.

Poi, come spesso succede, la vita mi portò altrove dato che aveva altri programmi per me. Furono però anni di grande divertimento, che tutti i miei attori ricordano con rimpianto viste le risate che ci facevamo sera dopo sera ritrovandoci per le prove, o andando in giro con il furgone carico di mobili di scena per raggiungere le località più improbabili. Se mancava un attore, io prendevo il posto dell’assente e recitavo la sua parte, anche se era una donna: mi truccavo con tacchi e parrucca e il risultato di solito era esilarante. Esilarante fu anche quando andai a iscrivermi alla SIAE. Mi volevano far pagare la sovrattassa per lo pseudonimo. “Ma io non uso uno pseudonimo”, dissi. “Come? Lei si firma Burattini”. “Eh, appunto”. “Non vorrà mica farmi credere che scrive teatro e si chiama DAVVERO Burattini!”.

Una volta, non so come andò, un regista trapanese mi chiese se poteva “tradurre” in siciliano “Il vedovo allegro”. Accettai, e lui mi mandò una copia del testo tradotto. L’unica cosa che ricordo è questa: l’esclamazione ricorrente del protagonista, “Mondo assassino!”, in siciliano diventava semplicemente “Minchia!”. Ben presto, dopo la fine dell’esperienza del “Teatro Poco Stabile”, altre compagnie vernacolari cominciarono a mettere in scena in copione, talvolta con risultati entusiasmanti. Ricordo un bellissimo allestimento in un teatro proprio di Firenze città, quando “Il vedovo” rimase in cartellone per tre mesi e proprio nel periodo delle Feste. Oppure quando fu messo in scena in piazza a San Gimignano, sullo stesso palcoscenico che aveva visto la sera prima recitare Nando Gazzolo.

A forza di veder rappresentata la commedia, e aver sempre visto il pubblico ridere e applaudire, ho finito per convincermi che forse il testo era davvero spiritoso. Era perciò un peccato farlo girare soltanto in Toscana. Forse sarebbe piaciuto anche nel resto d’Italia, se fosse stato rappresentato in italiano, anziché in vernacolo fiorentino. Mi sono così cimentato nell’improba impresa della traduzione. Una vera sofferenza. Non c’era battuta che nella versione originale non mi sembrasse più divertente. Tuttavia, prova e riprova, nel 2005, in occasione del ventennale dalla prima scrittura, ci sono riuscito. Ho persino cambiato qualche scena e aggiunto diverse battute. Grazie a Internet, ho potuto far girare qua e là il nuovo copione e infine “Il vedovo allegro” ha avuto il suo battesimo anche nella lingua del sì, sia pur risciacquata in Arno, grazie alla compagnia milanese “Scaenici 74”, che l’ha portata in scena per mesi interi approdando perfino su una TV locale. Un tour altrettanto lungo è stato quello della compagnia “Recremisi” di Ancona.

Adesso, ci risiamo. La compagnia teatrale "Gli AttoRicci" di Prato mi informa che sono pronti per il debutto. Stanno per mettere in scena un nuovo allestimento della mia commedia. Le prime due date sono venerdì 18 e sabato 19 Novembre 2011 alle ore 21,00 presso il teatro Kolosseum, in Via delle Gardenie (zona S.Giusto). Al primo dei due spettacoli assisterò anch'io. A questo punto, dato che “Il vedovo allegro” è stato scritto per i teatri di provincia e per le compagnia amatoriali, se ne conoscete qualcuna interessata al copione, non avete che da scrivermi. A patto che sia gente seria che denuncia gli incassi alla SIAE.


“IL VEDOVO ALLEGRO”:
alcune domande a Moreno Burattini
a cura del "Gruppo Teatrale Recremisi" (Ancona)

Caro Burattini, mi chiamo Camilla e faccio parte dell'associazione "gruppo Teatrale Recremisi". Le scrivo perché qualche mese fa lei aveva inviato ad uno dei nostri associati il copione de "Il vedovo allegro". Dopo esserci tutti "spanzati" dalle risate abbiamo pensato che sarebbe stato fantastico metterla in scena. La disturbo perché ho avuto il compito di scrivere le cosiddette "note di regia"... e sarebbe molto gentile da parte sua se potesse scriverci due righe in merito a questa esilarante commedia.

D) Questa commedia unisce elementi decisamente seriosi (l’azienda di pompe funebri, la religiosità della zia Rebecca) a situazioni davvero esilaranti (la scoperta da parte della zia dei vizi del nipote, lo scambio di identità davanti al direttore dell’ospizio). Secondo lei, è proprio l’unione di questi elementi tanto contrastanti che rende la vicenda così esilarante?

R) L’umorismo nasce sempre dai contrasti. Non ci sarebbe niente di divertente nell’interazione fra personaggi tutti uguali, che reagiscono alla stessa, prevedibile maniera. Viceversa, è divertente mettere a confronto diverse tipologie di varia umanità. Lo possiamo constatare nella vita di tutti i giorni, anche soltanto pensando al gruppo dei nostri amici o ai colleghi d’ufficio. Nella vis comica del “Vedovo Allegro”, poi, c’è anche una componente che definirei “catartica”: tutti noi abbiamo i nostri piccoli “vizi segreti” che cerchiamo di nascondere alla “zia” di turno, sia essa la maestra a cui non vogliamo scoprire di non aver fatto i compiti, o la mamma a cui nascondere che abbiamo marinato la scuola, o il datore di lavoro che non deve scoprire il puntuale ritardo di tutti i giorni nel presentarci in ufficio. Tutti tifiamo dunque istintivamente per Aldobrando, impegnatissimo nel mettere in atto i suoi buffi stratagemmi per non farsi scoprire gli altarini. Catartica è poi, senza dubbio, la scelta di ambientare la scena in un’impresa di pompe funebri: il collocare proprio lì vicende ilari, e scherzare sulle casse da morto sbilenche piuttosto che sull’urna cineraria scambiata per un posacenere, è una forma di “trasgressione”: ridere di ciò di cui non si dovrebbe, serve a scaricare le pulsioni che ci spingono a fare ciò che è vietato, come i bambini che invitati a stare seri e fermi in certe circostanze che impongono un contegno, si guardano fra loro e non riescono a trattenere gli sghignazzi. L’umorismo smaschera l’assurdità e l’ipocrisia delle convenzioni sociali, in cui conta l’apparire più che l’essere.


D) Ma come ha avuto l’idea? (so che è una domanda banale…)

R) Le domande non sono mai banali, casomai possono esserlo le risposte. Cercherò di non far sembrare tale la mia! Scrivo storie da quando ho imparato a tracciare le lettere dell’alfabeto sul quaderno della prima elementare, e professionalmente da oltre venti (cioè, mi ci guadagno da vivere): non ho mai saputo da dove mi arrivano le idee. Ancora oggi mi sorprendo nell’andare a letto con mille dubbi su come risolvere un problema in una sceneggiatura e il mattino dopo mi sveglio con in mente chiarissima la soluzione. Raramente, tuttavia, un’idea nasce già matura, perfetta e ineccepibile, soprattutto se si tratta di una trama complessa. In genere si tratta di uno spunto che assomiglia al galleggiante di un amo: ti accorgi che qualcosa ha abboccato, provi a tirare su e solo allora vedi che cosa hai preso: a volte è un pesciolino che catturi con un solo strattone, altre volte è un pesce enorme con cui devi lottare. Altre volte il pesce ti sfugge o lo ributti in acqua perché non ti piace. Nel caso del “Vedovo Allegro”, mi proposi di scrivere un testo nel solco della più classica tradizione della commedia in vernacolo fiorentino (quella dei Novelli e dei Palmerini, tanto per citare due nomi), dunque l’ambientazione fu pensata in costume (anni Venti), un po’ come nella celebre operetta “L’Acqua Cheta”. Agli inizi degli anni Ottanta, infatti, recitavo come “attor giovane” in una compagnia amatoriale che metteva in scena testi vernacolari come “Giocondo Zappaterra” o “Le forche caudine”. Dato che mi sarebbe piaciuto comporre una commedia per il gruppo in cui militavo, ricordo di aver pensato che, per scrivere qualcosa di originale che non assomigliasse a quelle che già esistevano (i cui intrecci erano, alla fine, sempre un po’ gli stessi e quindi prevedibili), dovevo evitare di rappresentare le solite tresche famigliari, con le figlie da maritare, i bisticci fra marito e moglie o le scappatelle dell’uno o dell’altra. Dunque eliminai l’ambientazione nel classico salotto di casa, e mi proposi di non usare interazioni famigliari. Questo fu lo spunto da cui partii. Mi venne in mente che avrebbe potuto trattarsi di un posto di lavoro, con il titolare di un’azienda e i suoi dipendenti. Partendo da questi presupposti, cominciai ad mettere in moto gli ingranaggi del cervello. Ricordo che ridevo fra me ogni volta che, passeggiando in montagna o guardando fuori dal finestrino del treno, mi venivano in mente i tipi umani dei miei personaggi e le situazioni con cui avrei potuto complicare loro la vita. Avevo anche ben chiara l’esigenza di dotare ogni personaggio di un ruolo interessante: avevo recitato tante volte in commedie in cui c’erano delle comparse a cui toccavano solo poche battute, e volevo evitare l’uggia di dover trovare attori da chiamare in ballo per così poco. Ognuno dei miei personaggi avrebbe avuto una “parte” di tutto rispetto! Aggiungo che, negli anni immediatamente precedenti alla scrittura della commedia, avevo fatto due esperienze che si rivelarono fondamentali nella mia crescita come autore. La prima è questa: all’università, avevo affrontato un seminario sulle opere teatrali di Niccolò Machiavelli e ad avevo approfondito in particolare “La Mandragora”. Ero rimasto affascinato dal micidiale meccanismo ad orologeria di quel testo, ancora divertentissimo a distanza di cinquecento anni, e chi volesse approfondire troverebbe certamente nel “Vedovo Allegro” qualche citazione machiavelliana. La seconda esperienza fu la mia frequentazione, in quel periodo, di un piccolo teatro fiorentino, chiamato “Il Punto”, dove venivano rappresentate le commedie di autori come Marivaux e Feydeau. Le opere di questi autori mi sembravano, e in effetti lo sono, dei capolavori non solo di umorismo ma anche di intreccio e di perfetto funzionamento delle trame: inevitabilmente decisi di provare a imitarne il metodo. Ecco perché la trama del “Vedovo Allegro” funziona come un ingranaggio in cui una ruota dentata ne mette in moto altre.


D) Leggendo la commedia (ancor prima di sapere che lei fosse sceneggiatore di fumetti) ci è sembrato proprio di essere di fronte a personaggi che sembravano usciti da una strip (in particolar modo la marxista donna delle pulizie Cesira, che ci ricorda tanto la moglie di Enrico La Talpa). E anche l’avvicendarsi delle situazioni che sono così fluide, proprio come se si stesse leggendo un fumetto. E’ un caso, o c’è un’interconnessione?

R) La commedia risale al 1985, e la mia prima storia a fumetti apparve in edicola solo nel 1990. Quindi la mia attività di commediografo (peraltro brevissima) precede quella di sceneggiatore di fumetti (viceversa, ormai ventennale). Dunque, scrivendo “Il vedovo allegro” non avevo ancora fatto esperienza come fumettista e se c’è una relazione è in senso inverso. Diciamo però che l’interconnessione fra le due attività è evidentemente collegata con una mia certa forma mentis che mi rende istintivamente capace di affabulare attraverso scene e immagini. Questo deriva sia dalle mie tante letture fumettistiche sia dalla mia frequentazione con ambienti teatrali, sia pure amatoriali: leggendo molti fumetti e recitando molti copioni ho finito per fare mie, a livello istintivo, certe tecniche. E’ un po’ come chi impara a suonare a orecchio. Va detto inoltre che se nei miei fumetti come nel “Vedovo allegro” tutto scorre in modo fluido e il meccanismo funziona senza intoppi, ciò non significa che all’autore la scrittura sia venuta facile e spontanea. Al contrario, mi sobbarco di una fatica preventiva per smussare i punti di attrito e facilitare la fruizione del lettore o dello spettatore, al quale tutto, poi, dovrà sembrare immediatamente convincente, come se gli eventi scorressero e si concatenassero da soli in modo naturale, mentre dietro c’è un gran lavoro di architettura (che non si deve vedere): il motore si mette in moto e la macchina parte, ma gli ingranaggi girano silenziosi sotto il cofano chiuso. Il fumetto e la commedia non sono forme espressive semplici o banali: vengono fruite, è vero, molto spesso solo per divertimento, ma hanno strutture complesse e richiedono molto lavoro da parte di chi le confeziona. Gli autori colpiscono nel segno se il pubblico si diverte senza percepire il peso della complessità. Riguardo a Cesira, poiché leggevo Lupo Alberto (di cui alcuni anni dopo sono diventato sceneggiatore, realizzando peraltro molte storie con Enrico La Talpa protagonista), può darsi che il nome mi sia stato suggerito proprio dal character di Silver, e l’ho utilizzato dato che è un nome buffo e plebeo (lo stesso motivo, immagino, per cui l’ha scelto Silver). Tuttavia, al di là della capacità di battibeccare che contraddistingue i due personaggi, non ci sono altri punti di contatto, credo. Cesira è nata dalla necessità di aumentare il grado di difficoltà degli ostacoli posti davanti ad Aldobrando: dopo il problema di evitare il nuovo matrimonio, quello di non farsi riconoscere da Arduino Bigotti come autore degli scherzi al cardinale, quello di continuare a giocare ai cavalli e a bisbocciare con gli amici, quello di non farsi scoprire le letture licenziose, la trovata della donna delle pulizie socialista mi parve una buona idea. Conoscevo poi persone reali pronte a dire, nella vita di tutti i giorni, le stesse battute di Cesira. La Toscana, si sa, è terra di bandiere rosse e il Partito Comunista Italiano nacque a Livorno. Lungi da me, tuttavia, l’intento di fare politica in una qualunque delle mie opere: me ne guardo da sempre. Tant’è vero che Cesira si dichiara “socialista”, alla vecchia maniera, e la sua fede marxista mi interessa solo come dato caratteriale o, se vogliamo, antropologico, al pari della “cattolicità” di Rebecca.

D) Per quanto riguarda la drammatica scoperta del figlio della ballerina, ci chiediamo un po’ tutti se questo evento vada inscenato con estrema serietà o se si gli si debba dare una connotazione comica. All’inizio la ballerina ci è sembrata un po’ “svampita”, insomma la classica ragazza che va avanti nella vita con l’aspetto, non certo col cervello… eppure sta vivendo una situazione proprio triste.

R) Ogni regista, ovviamente, è libero di interpretare il testo alla propria maniera, così come ogni attore è chiamato a metterci del suo. Ricordo di aver visto un allestimento in cui quando Milly racconta di essere stata sedotta e abbandonata e di aver subito lo strazio di un figlio strappatole e messo in collegio, si faceva buio sul palco e un faretto illuminava solo l’attrice, dando così una interpretazione drammatica della scena. Se però devo esprimere una preferenza basandomi sui miei intenti di autore, direi che nel copione esistono già dei precisi suggerimenti per impostare la scena in modo ilare e non cupo. La faccenda non è semplicissima ed è richiesto un certo talento da parte degli attori che interpretano sia Milly che Aldobrando. Provo a spiegarmi: da una parte Milly carica un po’ di toni melodrammatici le sue parole, facendo anche gesti da attrice del cinema muto (appunto degli anni Venti): mano con il dorso sulla fronte, gesto con il braccio languido davanti a sè, sguardo al cielo. Però tutto ciò sembra (ed è) vagamente caricaturale. Tuttavia l’intento parodistico non è così marcato da sconfinare nel grottesco, ci si tiene sul filo del rasoio, e nello spettatore si instilla persino il dubbio che, tutto sommato, Milly sia sincera e soffra realmente. Se Milly fosse troppo “buffa” nell’esagerare la melodrammaticità, finirebbe per sembrare semplicemente una macchietta. Invece, se fa la melodrammatica ma in modo ironico, lieve, il suo personaggio ne guadagna spessore. Aldobrando, invece, soffiandosi il naso, e commentando con voce piagnucolosa i vari passaggi della rivelazione, da lui paragonati alla vicenda di Oliver Twist, serve a tenere agganciata la scena all’impianto comico della commedia e a non farla sembrare avulsa dal contesto. Riguardo a Milly, io non ho mai pensato a lei come a una svampita, ma come a una ragazza che gioca con il suo aspetto e se ne serve come se fosse un talento ricevuto in sorte dal destino per vivere la propria vita; le carte che ha in mano sono quelle, e lei cerca di sfruttarle e si arrangia come può, anche se poi vive i suoi drammi che certo la segnano. Credo di aver pensato a Marilyn Monroe, che era svampita sexy sullo schermo, e poi la sensibile e bisognosa d’affetto Norma Jean Baker nella vita reale (autrice peraltro di toccanti poesie).


D) Infine: ha qualche suggerimento, relativo ai personaggi? Magari di tipo descrittivo, come li ha immaginati quando scriveva il testo… noi ci stiamo muovendo in tal senso e qualcuno è venuto fuori davvero simpatico, ma chi meglio dell’autore potrebbe descriverceli.


Inutile il dire che è l’interprete di Aldobrando degli Aldobrandi l’attore a cui è richiesto il maggior sforzo nel dare il ritmo alla commedia. La sua parte non è facile ed è anche pesante per il gran numero di scene che lo vedono alla ribalta. Confido molto sul fatto che il prescelto abbia il phisique du role e il talento istrionico per sostenere la parte. Riguardo a Gustavo, ho pensato molte volte di togliergli la balbuzie perché, con il tempo, mi è parso un po’ di cattivo gusto scherzare su un handicap che certo provoca molte sofferenze a chi ne è affetto. Però è vero anche che, tutto sommato, non c’è niente di “cattivo” nel limitarsi a caratterizzare un personaggio come uno un po’ imbranato e “sfigato” con le donne, e la balbuzie è un po’ il “segno” di questa sua “esitazione” nell’affrontare la vita. Basta dunque trattarla come un tic e non sottolinearla troppo. Arturo deve essere uno con l’aria dell’assoluto fannullone e perditempo, ma di quelli che vivono di rendita e si permettono di passare le giornate al bar o a giocare ai cavalli, con il cappello di paglia e il farfallino, mi piacerebbe se l’interprete ripetesse spesso, come un tormentone, il gesto di spolverare con il giornale (rigorosamente di ippica) le sedie o le poltrone su cui sta per sedersi. Il consiglio principale che, però, mi sento di dare è questo: è essenziale il ritmo! Le porte di chi esce e di chi entra devono aprirsi e chiudersi all’unisono, niente tempi morti, i personaggi si dovrebbero muovere come in una coreografia in cui ognuno va al suo posto e si incrociano senza esitazioni nel momento giusto. Chi ha visto “Rumori fuori scena” di Michael Frayn capisce che cosa intendo richiamando la necessità di questa puntualità nelle entrate e nelle uscite e nel porgere la giusta battuta alla giusta risposta.