Nel post di ieri ho citato il nome di don Anacleto Bendazzi, prete ravennate, uno dei più geniali autori italiani di giochi di parole. Talmente geniale che, per fare un esempio, se credete che la parola italiana più lunga sia precipitevolissimevolmente, di ventisei lettere, identificata nel 1677 da Francesco Moneti, vi sbagliate. Don Anacleto ne ha trovate tre più estese: incontrovertibilissimamente, particolareggiatissimamente e anticostituzionalissimamente (di ventisette e ventotto lettere). E ancora, talmente geniale da aver scritto una “Vita di Cristo in mille anagrammi”. Uno è questo: “Nell'orto di Getsemani, - sento dolenti lagrime”. Immaginate dunque un racconto di senso compiuto composto da mille frasi che si anagrammano a vicenda. La maggior parte dei giochi del Bendazzi sono contenuti in un libretto rarissimo, stampato in sole duemila copie, intitolato “Bizzarrie letterarie”. Il libro, pubblicato a spese dell’autore, risulta finito di stampare “il 15-1-‘51", una data scelta apposta perché palindroma (si legge anche da destra a sinistra) e ambigrammatica (si legge anche capovolgendo il sotto e il sopra). Sulla sua tomba, c'è l’epitaffio che don Anacleto si scrisse dice: Putredine - di un prete / storico di - Cristo Dio. Ovviamente, la seconda parte di ogni frase è l’anagramma della prima. Ma la cosa più incredibile è che Bendazzi è morto all'età di 99 anni (numero palindromo) in una data anch'essa palindroma e ambigrammatica, il 28-2-’82. Altro che madonnine che piangono sangue, sono questi i veri miracoli.
Mi è venuto in mente chi fu il primo a parlarmi di don Anacleto. Fu Giuseppe Pollicelli. Il nome non dovrebbe essere nuovo ai lettori di fumetti, dato che Giuseppe è stato, ed ancora è, uno dei più attivi, intelligenti ed acuti critici del nostro medium preferito, autore di molti libri e articoli, curatore di riviste, collaboratore di case editrici. Ho il forte sospetto , e non lo dico per farmene un vanto ma per la mia stessa curiosità di sapere se sia vero, di essere stato io il primo a scoprirlo facendolo scrivere non so se già su “Collezionare” o direttamente su “Dime Press”, un po’ come è accaduto per Stefano Priarone, comunque ha poca importanza: sicuramente era molto giovane quando l’ho conosciuto (è del 1974, dunque di dodici anni più piccolo di me), e ne ho subito ammirato la grande capacità di analisi e di scrittura, e per il poco che ho potuto ho cercato di valorizzarlo. Il merito non è mio, ma suo. Gli zagoriani, poi, dovrebbero dedicargli un monumento, o almeno un busto, visto che ha fondato il primo “Zagor Club” (ora ne esiste un altro) e ha diretto quella bellissima rivista chiamata “Darkwood Monitor” (oggi ricercatissima dai collezionisti). Chi segue un po’ quello che scrivo, si sarà accorto che è sua la prefazione al libro mio e di Graziano Romani dedicato a Gallieno Ferri, pubblicato da Coniglio Editore.
Pollicelli è anche un poeta (oserei dire pasoliniano, data la sua grande ammirazione verso PPP), e nel 2008 ha dato alle stampe la raccolta “Che quantità d’amore vuoi”, contenuta nella collana “Baguettes” sempre della Coniglio. Libro assolutamente consigliato. Ma, da qualche anno, Giuseppe si occupa soprattutto di teatro, sia come attore che come autore. La compagnia romana di cui fa parte, la AdLP, ha messo in scena, nella scorsa stagione, con grande successo, un suo testo intitolato “Suicide Veejay Show”. In fondo trovate il trailer della commedia, visibile su YouTube. Sempre cercando su YouTube si possono vedere diversi suoi interventi televisivi, in cui si occupa di calcio.
Forse vi state chiedendo (ma anche se non ve lo chiedete, ormai ve lo dico lo stesso) perché mai Pollicelli mi abbia parlato di don Bendazzi. Accadde nel 1997 quando Giuseppe pensò di dare alle stampe, a proprie spese come il sacerdote di Ravenna aveva fatto con il suo testo, un libro intitolato “Quisquilie letterarie”, in cui è evidente il riferimento bendazziano. Conoscendo come anch’io coltivassi la sua passione per i calembour e l’enigmistica basata sulle parole, Pollicelli mi chiese di scrivere una prefazione. Cosa che io feci con grande piacere. Da cosa deriva il nostro comune intetesse per questo tipo di cose? Dal fatto che non si può rimanere indifferenti di fronte alla constatazione che “attore” è l’anagramma di “teatro”, “bibliotecario” è “beato coi libri” e “Saturno” è “un astro”. Vien quasi da credere che non possa essere un caso (guarda la combinazione, anagramma di caos) ma che ci sia dietro un disegno divino, o una legge scientifica su cui forse potrebbe illuminarci Piero Angela (il cui anagramma, del resto, è “apre al genio”, definizione che si adatta quanto mai alla sua missione di divulgatore del sapere). Il sottoscritto, Moreno Burattini, non più bellissimo ma sempre inmnamorato, può del resto mescolare le lettere del proprio nome ottenendo la calzante bollatura di "bruttino in amore".
Scrive Umberto Eco: “Alle origini, enigma, poesia e metafora sono strettamente intrecciati, Aristotele lo sapeva. La più alta delle metafore poetiche e il più meccanico degli enigmi hanno in comune il fatto che le parole possano dire più di quel vogliono dire. Tra giochi di parole, lapsus, sogno e invenzione corrono legami sottili”. Uno dei miei autori preferiti, Isaac Asimov, scrisse una volta: “considero il gioco di parole la forma più nobile di umorismo”. Voleva dire, se non intendo male, che mentre gli scivoloni sulle bucce di banana o le torte in faccia sono un tipo di humour molto immediato, godibile anche da un analfabeta, il gioco di parole richiede non di rado, per essere perfettamente compreso, una certa cultura, una certa dimestichezza con le lettere, una certa raffinatezza di palato da parte del fruitore. Del resto, a quanto pare, il calembour deve il proprio nome a un conte, dimorante a Parigi sotto il Re Sole e molto dotato in questa ginnastica di parole. Ginnastica dunque praticata più da nobili che da plebei. Ma, come scrissi nella mia prefazione, ciò non significa che anche noi plebei non ci si diverta con dei nostri lazzi verbali. Ci sono calembour di una certa arguzia e complessità che circolano da secoli fra il popolaccio. Natalia Ginzburg, in Lessico Famigliare, ricorda un gioco di parole piuttosto osé che gli fu insegnato da un monello quando era bambina. Bisognava ripetere questa frase: “Il baco del calo del malo”, cambiando ogni volta una vocale: “Il beco del chelo del melo” e così via, fino al risultato (più o meno esilarante a seconda del contesto in cui avviene la ripetizione) che tutti possono immaginare quando si arriva alla “u”. Del resto, sono passate alla storia barzellette come questa: su un bus affollato, un giovanotto va a sbattere contro una signora: - Scusi il cozzo, dice lui, e lei: - Si figuri, a me pioce. E non è un gioco di parole fin dal titolo, il poema goliardico Ifigonia in Culide che fra la plebe è assai più noto della tragedia di Euripide, Ifigenia in Aulide? Non stonano, dunque fra le “quisquilie” verbali le più piccanti e triviali, che anzi fanno riferimento a una tradizione millenaria. La stessa a cui appartiene l’arcinoto indovinello: Berlusconi ce l’ha lungo, Fini ce l’ha corto (cambiare i nomi a piacimento), il marito lo dà alla moglie. Soluzione: il cognome.
Ma tornando ai giochi di parole più sofisticati, Ieri ho minacciato di deliziarvi con le facezie enigmistiche. Oggi, tanto per dimostrare che non minaccio invano, vi propongo quello che ritengo il mio sforzo meglio riuscito. Si tratta di un esercizio in cui mi sono divertito a giocare con le iniziali. E’ un gioco letterario fra i più noti: si tratta di sintetizzare la vita di un personaggio famoso o immaginario usando solo parole con l’iniziale del personaggio in questione. Dovendo riassumere la più celebre opera di Collodi, insomma, si potrebbe incominciare dicendo: “Povero Pinocchio...” e proseguendo il più a lungo possibile, creando un discorso di senso compiuto composto però soltanto da parole che inizino con la “p”. Nella mia prefazione a “Quisqulie letterarie”, ho fatto lo stesso con Pollicelli. Ecco il risultato.
Povero Pollicelli (per pochi: Peppe), perenne Peter Pan, Pierino perditempo, perché progetti pervicacemente passatempi paradossali? Per pecunia, per premi? Penso permangano poche possibilità. Per puro piacere? Puah! Piuttosto, per provare piccole prodezze. Perciò prendi parole, poi provvedi perciocché, pian piano, ponderatamente (pasticciando, plasmando) piglino parvenze pittoresche, pungenti, piccanti, parodistiche, proteiformi. Perfino psicanalitiche! Prestidigitazione? Piroette? Pop-art? Palle! Parliamone pure: pare piuttosto piccosa petulanza, persistente presunzione. Peppino: piantala, porca puttana! Pardon, paletta.
E dato che uno degli scopi di questo blog è lasciare qualche traccia e memoria di quel che ho fatto, concludo citando il passo finale della prefazione scritta per Giuseppe: «Mi si farà notare che non tutte le “quisquilie” di Pollicelli sono giochi di parole in senso stretto. Ci sono interviste, testi umoristici, parodie. Appunto, forse non sono giochi di parole in senso stretto, ma lo sono, eccome, in senso lato. Insomma, poco ci manca. Goal? No! Angolo. E, controllare, per credere, “Goal? No!” è appunto l’anagramma di “Angolo”». Applausi. Non per me. Per Pollicelli, scrittore, poeta e attore.