Proseguono le recensioni cinematografiche di Giorgio Giusfredi, giunte alla quinta puntata. Giorgio, esperto cinefilo oltre che cuoco sopraffino (ma anche scrittore, sceneggiatore di fumetti, organizzatore di eventi e sosia di Che Guevara), è la guida a cui mi affido per chiedere consiglio sui film da vedere.
A questo proposito, un commento al post del mese scorso diceva: "Sei l'unico italiano a cui non e' piaciuto il film 'Colpi di fulmine'...io trovo orrende le tue recensioni piuttosto". Non so se il fan di De Sica e Lillo & Greg (che vorrei ringraziare personalmente per l'argomentato intervento ma non posso dato che ha voluto, chissà perché, restare anonimo) ha scambiato me per Giusfredi ritenendo opera mia i giudizi espressi da Giorgio, ma mi permetto di rispondere invitando a considerare (e rispettare) le recensioni per quello che sono: pareri di spettatori. Niente vieta a chiunque di avere pareri diversi. Nulla impedisce di esprimere questi pareri e far valere considerazioni opposte, purché non si scenda mai negli attacchi ad personam e nei giudizi drastici sull'intelligenza altrui. Non ho mai censurato nessun commento su questo blog, se non lo spam (che giunge sempre copiosissimo e impedisce di togliere il blocco).
CINEMA AL CINEMA
di Giorgio Giusfredi
febbraio 2013
DJANGO UNCHAINED
Un film di Quentin Tarantino. Con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson, Kerry Washington. Titolo originale Django Unchained. Western, durata 165 min. - USA 2013.
Dopo aver visto per ben tre volte il film Django Unchained affiorano in me, oltre che al divertimento e alla commozione per la bellezza pura e cinematografica della pellicola, riflessioni sui messaggi che (consciamente e inconsciamente) Quentin Tarantino ci lancia. Andiamo con ordine. "Spaghetti Western" è il nomignolo che gli americani hanno dato al western all’italiana, associandolo alla pasta o alla pizza e talvolta anche alla cialtroneria. Ma che cos’è il western se non l’epica, la mitologia, di un paese ancora giovane come gli Stati Uniti? I film di Ford, Hawks e Mann, ma anche le più recenti opere letterarie di Cormac MacCarthy, infatti, sono paragonabili, per lo sforzo di narrare la nascita di una nazione, a opere classiche come l’Iliade e l’Odissea. Gli "Spaghetti Western" rielaborano quell’epica con un occhio ancora più sognante, se possibile, aggiungendo uno spessore scanzonato e ancora più iperbolicamente eroico. In narrazioni del genere la miscela tra infiniti e idilliaci spazi e imprese poetiche si intreccia con assurdi e vili risvolti di vite banali.
Il Tarantino di Django Unchained è uno scrittore raffinato. Il suo lirismo espresso attraversi la più grottesca violenza raggiunge picchi quasi filosofici. L’autore affresca una commedia mettendo in bocca degli attori dialoghi che parlano di amicizia, amore e vendetta. Ogni parola pronunciata fa riflettere e la psicologia dei personaggi non è mai storpiata dal messaggio che quasi sempre filtra veicolato dalle parole che pronuncia. Questa sceneggiatura è incastonata, accompagnata o (per meglio dire) dipinta da una serie di sequenze cinematografiche che strizzano l’occhio e danno di gomito allo spettatore. Si potrebbe dire che il magnifico e nudo script è vestito con un arlecchinesco abito dove ogni colore, ogni pezzo di stoffa, è un omaggio al cinema da parte del suo autore. Ma la cosa più fantastica è che i pezzi di questo puzzle di immagini, che arricchiscono i dialoghi (che sono il vero scheletro, come detto), possiedono un occhio e una magica possanza cinematografica. Quentin Tarantino cita, sì, ma alla fine tutto quello che vediamo è qualcosa che non abbiano mai visto, affascinante e malizioso; anche se lo riconosciamo sempre familiare e confortevole – è quello che succede con ogni grande opera, del resto. E ogni pezzo, ogni carattere, si incastra perfettamente con quello mostrato prima e dopo. Memorabili i dialoghi durante il raid degli incappucciati, che esorcizzano la violenza razzista ironizzando sul cappuccio bianco e sulla povera Jenny Willard, moglie di uno del clan, evidentemente non una grande sarta, autrice dei ‘sacchetti’, come li chiamano loro, dai quali “non si vede un cazzo”.
Gli attori sono tutti bravissimi. La coppia Jackson-Di Caprio funziona come quella Waltz-Foxx. Christoph Waltz è immenso e un istrionico. Il dottor King Shulz (gli omaggi e le autocitazioni si sprecano in ogni nome), il personaggio dell’attore austriaco, è un ex-dentista e possiede una forte e incalzante intolleranza per gli schiavisti che monta piano piano nel film come il ritmo di un romanzo slow burning. Jamie Foxx rispetta il suo ruolo di vero duro del West, parlando meno degli altri. Django, infatti, ha un carattere scontroso e pronto a prender subito fuoco. L’attore interprete di Ray, non sovrarecita come gli altri proprio per necessità di rispettare un cliché eastwoodiano di duro impassibile. Talvolta però, in questo film, il duro si lascia andare struggendosi per la dolce Broomihilda, la bellissima Kerry Washington, ricordando Navajo Joe (citato da Tarantino nella ‘cavalcata a pelo’ finale), di Corbucci, dove un giovane e sconosciuto Burt Reynolds ostentava l’empatica, umana fisicità di questo Django. La colonna sonora perfetta e per gran parte anch’essa italiana, sottolinea ancora una volta l’ammirazione verso il nostro paese da parte dell’autore americano. Le sparatorie e le scene d’azione sprizzano letteralmente divertimento e condiscono ulteriormente la pietanza "Spaghetti Western" che Tarantino fa sua, reinventandola ancora, come in un gioco di specchi: lui ha visto il West che l’Italia aveva visto in America, girando "Spaghetti Western col ketchup". Proprio riflettendo su questo punto la sottile e ironica filosofia dell’autore ci mette di fronte (volutamente?) alla nostra attuale condizione cinematografica. Tarantino nel film ricorda, a torto o a ragione, la netta supremazia culturale europea nei confronti di quella statunitense. Non a caso uno dei protagonisti è tedesco. Il dottor King Shulz, infatti, piomba in scena all’inizio come l’unico catalizzatore della vicenda. Un deus ex-machina grazie al quale le catene si spezzano. Come dice lo stesso Django, il dentista non conosce gli americani. Quello che filtra è una totale incredulità da parte del personaggio nei confronti dello schiavismo che, da europeo, non tollera non lo concepisce. L’ode che Tarantino fa alla cultura del Vecchio Continente si reitera ogni qual volta si narra il mito di Sigfrido o si suona il Fur Elisa di Beethoven. La realtà storica ci dice invece che gli europei, lo schiavismo, lo hanno inventato e anche con scientifica freddezza. Questa insistenza sulla supremazia della cultura europea, insieme all’italiano stampo per questo meraviglioso pasticcio, sembra essere proprio rivolta a chi lo "Spaghetti Western" lo ha inventato come a dire: "vedete come lo faccio bene? Perché voi noi riuscite più a produrre cose del genere, voi che lo avete inventato?".
Un altro tassello fondamentale a convincerci di questa sottile ma insistente sfumatura della poetica tarantiniana è il personaggio che interpreta magistralmente Leonardo Di Caprio, ovvero, Calvin Candie. Candie è un ricco e giovane signore del Mississippi. Schiavista. Appassionato di lotta tra i mandingo. Verrebbe da dire che un personaggio più laido e ignobile non può esserci, ma è quello dietro al quale si cela l’autore. È ovvio che dietro a ogni personaggio della storia si nasconde un pezzettino dell’autore, ma Calvin è Tarantino. È americano e non ha il padre, non è nero ma si interessa ai neri. Anche se è un personaggio cattivo è commovente. La sua figura ricorda La macchia umana di Roth. Dice più volte che è cresciuto in mezzo ai negri, che conosce bene i negri e sa che i ribelli aumenteranno. Apostrofa Django come "quello speciale", "l’uno su diecimila", ovvero il nero che lui vorrebbe essere. Perché Candie è così? Perché è stato allevato dal classico zio Tom, uno straordinario e lui, sì, veramente cattivo, Samuel L. Jackson. Il rapporto padre figlio tra i due, come già detto, è il risvolto della medaglia del rapporto maestro allievo Django-Shulz. Calvin, nonostante brutali azioni commesse non è razzista perché anela essere nero, la sua cattiveria è solo frustrazione e autorepressione, coltivata dai credi reazionari del suo padrigno nero. Lui ammira Django come uomo e come uomo nero. Django a sua volta è più razzista: benché sia un uomo buono, mosso da nobili principi, disprezza gli altri neri che non si sono emancipati come lui e si autoproclama "l’uno tra diecimila". Django è razzista come Stephen (il vecchio zio Tom); e Di Caprio non lo è come Shulz. Questi continui e paradossali ribaltamenti di prospettiva insistono sulla necessità di Tarantino di omaggiare i suoi maestri destrutturandoli, riscrivendoli, ma con l’ambizione di creare un prodotto fedele ai topoi del genere citato. Lui vorrebbe essere Leone, o Corbucci o uno degli altri ‘neri’ del western all’italiana. Di tutte le citazioni presenti a perorare la causa del western all’italiana – ultime cronologicamente nella pellicola quelle di Lo chiamavano Trinità e de Il Buono Il Brutto e Il Cattivo, quasi in contemporanea - c’è da ricordare l’omaggio al duello finale de Il mercenario, sempre di Corbucci, suggerita dall’espertissimo Maurizio Colombo non appena visto il garofano appuntato all’occhiello del mefistofelico Di Caprio sulla prima immagine mesi e mesi fa. Un film che fa divertite tutti, ma proprio tutti!
FLIGHT
Un film di Robert Zemeckis. Con Denzel Washington, Don Cheadle, Kelly Reilly, John Goodman, Bruce Greenwood. Titolo originale Flight. Drammatico, durata 138 min. - USA 2012. - Universal Pictures
Come al solito Zemeckis ci regala una colonna sonora da urlo a confezione del suo prodotto cinematografico. I Rolling Stones del periodo "Vietnam" accompagnano le immagini in grande quantità. La canzone che si sente, per coinvolgimento emotivo, più delle altre è Give Me Shelther. Il titolo di questa canzone significa "dammi un riparo, accoglimi". Questo implorare con la voce graffiata di Mick Jagger è il leit motiv di questa storia. La canzone parla di guerra e la guerra che qui si affronta è quelle contro la dipendenza da droghe e da alcool. Il film è una riflessione profonda sul conflitto interiore di un alcoolista, sulle conseguenze di un eroe che è caduto nel vortice autolesionista falsamente caramelloso e solitario in verità. Danzel Washington smascella come a volte fa per caricare le sue caratterizzazioni, ma qui funzione, specialmente quando, nella parte, è ubriaco fradicio. Si intravedono alcune sequenze girate con tecniche care al regista. In queste si intuisce la diversa intenzione del messaggio: sono prive della grottesca scanzonata voglia di vivere che si sente in Ritorno al Futuro o in Forrest Gump. Ciò significa che il soggetto del film cambia profondamente la maniera di raccontare lo stesso e questo è giusto. La scena iniziale dell’atterraggio estremo è emozionante e veramente simile al risveglio ubriaco di un guidatore in difficoltà e la rimpiangi per tutto il film poiché non ce ne sarà un’altra altrettanto bella. Ma in complesso si esce soddisfatti dopo la proiezione di Flight, appagati dalla soluzione della storia con un grandissimo inizio.
LINCOLN
Un film di Steven Spielberg. Con Daniel Day-Lewis, Sally Field, David Strathairn, Joseph Gordon-Levitt, James Spader. Biografico, durata 150 min. - USA, India 2012. - 20th Century Fox
Daniel Day-Lewis è probabilmente vicino al terzo Oscar. Record. Ma anche se non lo vincerà questa volta, la sua straordinaria prestazione di attore regge da sola il livello d’importanza di questa pellicola. I giochi di luce, i campi e i controcampi e persino talvolta il montaggio sono inconfondibilmente spielberghiani. I controluce polverosi alle lunghe finestre delle case coloniche ricordano la nebbia illuminata di Incontri ravvicinati del terzo tipo e gli ambienti stessi recitano come nelle più classiche pellicole Western. Nel film non c’è azione. Ed è un film lungo. È un film lungo nel quale il saliscendi emozionale è dato dal contino alternarsi tra adorare e infrangere la filosofia del diritto. Non era facile fare un film in cui i dibattiti, anche con linguaggi vetusti, si perpetuano quasi in ogni scena, e quello di cui si parla non è sempre facilmente comprensibile. Grazie, come detto, all’abilità descrittiva del regista e alla bravura degli attori – soprattutto del protagonista – questa lezione di storia e di civiltà riesce a incuriosire come le lezioni e i saggi dovrebbero fare, ma il consiglio e di non affrontare la visione con del sonno arretrato. I dialoghi studiatissimi e calibrati potrebbero allontanarsi mentre si profonda tra le braccia di Morfeo. Da ricordare alcune immagini quasi allegoriche come la carriola piena di arti umani e grondante di sangue svuotata nella fossa comune all’ospedale militare.Curiosa la polemica scaturita da uno storico del Connetticut, discendente di uno dei senatori dello stesso stato nordamericano, presenti al congresso per l’approvazione del XIII emendamento. Il suddetto emendamento, in poche parole, trattava l’abolizione dello schiavismo negli Stati Uniti. Nel film Spielberg racconta che i senatori del Connetticut, appunto, votarono no tacciandoli, di fatto, di razzismo. L’erede nonché storico ha fatto causa ai produttori per diffamazione sostenendo che i due senatori del suo stato votarono sì, come si può riscontrare dai documenti storici e che il suo stato di origine non è razzista, ma bensì un fervente abolizionista.
LOOPER
Un film di Rian Johnson. Con Bruce Willis, Joseph Gordon-Levitt, Emily Blunt, Paul Dano, Noah Segan. Fantascienza, durata 119 min. - USA 2012. - Walt Disney
Looper è un film sorprendente per certi versi. Scritto in prima persona dallo stesso regista, infatti, presenta alcuni punti originali – se è consentito l’uso del termine "originale" a chi racconta storie dopo migliaia di anni di letteratura . Specialmente quando si parla di fantascienza si ha la sensazione di essere fermi a quei geni di Dick e Asimov con qualche spruzzata di Matheson e pochi altri. Quindi quando l’idea ha veramente il sapore del futuro funziona e da soddisfazione. La trama poi si risolve, toccando i delicati tasti del viaggio nel tempo, in maniera piuttosto lineare e divertente miscelando anche il paranormale, il sovrannaturale al futuribile. Questo aspetto esplode nel finale e lo accettiamo perché avvisaglie dello stesso erano già inserite qua e là mascherate dall’azione godibile a da una crime story tutt’altro che banale. Se, poi, si scava più a fondo nel significato di questo film, non si trova altro che la voglia di raccontare un rapporto intergenerazionale che potrebbe essere identificato anche come padre figlio anche se, i due protagonisti, alla fine, interpretano lo stesso personaggio ma di due epoche diverse. Il giudizio dell’autore al riguardo è quello che più barcamena e rende incerto il susseguirsi della vicenda. In parole semplici: il regista tifa per il giovane o per il vecchio? A chi lo vede scoprire la risposta che non è affatto scontata o demagogica. Joseph Gordon-Lewitt truccato da giovane Willis fa impressione. E fa impressione la bravura dell’attore dal doppio cognome. Infatti non solo somiglia nelle sembianze ma somiglia negli atteggiamenti e persino nelle smorfie di recitazione senza però scadere in macchietta e sovrarecitare. Insomma: una grande prova di attore che aiuta il successo e il funzionamento di questo film. Bruce Willis è difficile che sbagli un film. È il duro perfetto. E ci credi anche quando, incredibilmente, uccide un mucchio di persone nonostante l’età che (come detto) è una delle lettura cardine della storia. La morale che ne esce non è affatto moralista (come lo sono i giudizi sull’abbigliamento dati dal personaggio interpretato da Jeff Daniels) e questo sdogana ognuno di noi a sentirsi da una parte intelligente e, dall’altra, per niente offeso da un giudizio cripticamente versato. Perché questa è una storia raccontata e non spiegata e perché i trucchi che la trascinano avanti sono invisibili, furbi e nuovi. Il film funziona, è divertente e diverte.