venerdì 30 marzo 2012

IL RE DELL'ORRORE

Da cultore dell’opera di Stephen King fin da tempi insospettabili (lessi “L’ombra dello Scorpione” quando ancora non ne parlava nessuno, e ne rimasi folgorato), compro regolarmente anche i saggi critici dedicati allo scrittore di Bangor. Uno, peraltro, “Stephen King, l’uomo vestito di incubi” (Aliberti, 2004), è opera di Luca Crovi, mio vicino di stanza nella redazione di via Buonaroti, e da Stefano Priarone, coautore con me di due libri dedicati rispettivamente a Gallieno Ferri e a Guglielmo Letteri, oltre che di una storia di Zagor (“Thugs!”).

Ma, fra i tanti studi kinghiani, ce n’è uno particolarmente esaustivo, scritto da Graziano Braschi e Massimo Moscati, “Stephen King, da Carrie a La Metà Oscura” (Arnaud, 1990). In appendice al volume, compaiono varie cronologie e bibliografie critiche, italiane ed estere. Nella bibliografia critica italiana, si può leggere questa segnalazione: “Emanoritti Bruno, Stephen King, il re dell’Orrore, Collezionare n° 13, ottobre 1988”. Controllando le date di pubblicazione dei vari saggi indicati, si può facilmente vedere come questo articolo sia uno fra i primi apparsi in Italia a occuparsi di King (il più vecchio risale al luglio 1983 ed è una recensione di “Creepshow” apparsa sul Manifesto, ma non è che nei cinque anni successivi ce ne siano stati poi molti, mentre a partire dal 1989 la kingmania dilaga).

Dato che più volte vi ho parlato della fanzine Collezionare, di cui sono stato uno degli artefici e, se vogliamo, il “direttore” (qualcuno diceva il “dittatore”) autonominato, chiediamoci ora chi sia il fantomatico Bruno Emanoritti. Cercandolo su Google non si ottiene nessun risultato. Dunque, di chi si tratta? La B, la U, la R, la doppia T dovrebbero darvi degli indizi. Ma certo: è l’anagramma di Moreno Burattini. Dunque, Bruno Emanoritti sono io. Dato che firmavo fin troppi articoli, per non inflazionare la mia presenza talvolta ricorrevo a degli pseudonomi. Su La Cicogna, una rivista scolastica fatta al mio liceo, il Classico Cicognini di Prato, mi firmavo anche, per fare un esempio, Umberto Isacchi (e a chi mi conosce non ci vuole molto a capire perché). Sono andato a rileggere il mio articolo su Stephen King, e l’ho trovato carino anche dopo venticinque anni. Certo, ha il difetto di non essere aggiornato (ci si ferma a “Misery”). Però, qualche buona idea ci si può ancora rintracciare e magari può servire per spiegare il King delle origini (senza dubbio il migliore) a chi non conosce lo scrittore di Bangor. Perciò, ecco qua il pezzo di Bruno Emanoritti. Buona lettura.


STEPHEN KING
IL RE DELL’ORRORE

Di Bruno Emanoritti
(Moreno Burattini)

da Collezionare n° 13 – ottobre 1988


Che Stephen King sia un grande scrittore di storie dell’orrore (c’è chi dice: il più grande) è innegabile. Tuttavia, altrettanto innegabile è che sia un grande scrittore tout court, in senso assoluto. Per dirla con le parole di John D. MacDonald, “il fatto che Stephen King si diverta a scrivere di spettri e di incantesimi è la cosa meno utile e meno importante che si possa riferire sul suo conto”. Le cifre sembrano dar ragione a questa maniera di porsi di fronte all’opera dello scrittore americano: si calcola infatti che King abbia venduto oltre 65 milioni di copie in tutto il mondo, un numero strabiliante che trascende senza dubbio gli angusti confini del genere horror, e lo porta a inserirsi in un contesto più ampio e meritevole di una analisi approfondita. Il coinvolgimento di un così alto numero di lettori dimostra come i libri di King offrano molto di più del semplice brivido e raccapriccio, e arrivino in realtà a toccare corde ben più profonde e sensibili dell’animo umano; e questo con il talento letterario, la lucida consapevolezza ideologica e la profondità introspettiva e psicologica del grande narratore.


C'era una volta un Re

Quando si pensa ad un autore di libri e film dell’orrore, si immagina sempre che si tratti di una persona con lo sguardo allucinato e le movenze nevrotiche. Stephen King invece non sopporta il fatto che si pensi a lui come a un “tipo strano”, e cerca di rassicurarci il più possibile sulle sue condizioni mentali. E infatti come egli stesso si presenta nella Prefazione di “A volte ritornano”: “Mi chiamo Stephen King. Sono un uomo adulto con moglie e tre figli. Il mio mestiere è scrivere, un mestiere che a me piace molto. I miei lavori hanno avuto abbastanza successo da permettermi di scrivere a tempo pieno. È piacevole poterlo fare. A questo punto della mia vita, ritengo di essere ragionevolmente in buona salute. Vivo con la mia famiglia in una bella casa vicino a un lago relativamente non inquinato del Maine; l’autunno scorso, mi sono svegliato una mattina e ho visto un cervo fermo sul prato dietro la casa, accanto al tavolo da picnic. È una bella vita, la nostra”. Dunque, una persona felice, serena e del tutto normale. Per la cronaca, aggiungiamo che la casa di King, ne Maine, si trova a Bangor, ed è una villa in stile vittoriano circondata da un parco recintato da un cancello in ferro battuto nel quale sono istoriate ragnatele con tanto di ragno al centro e sulle cui punte troneggiano pipistrelli con ali spiegate.

Confessa ancora lo scrittore: “la sera, quando mi corico, sento il bisogno di assicurarmi che le mie gambe siano sotto le coperte, una volta spenta la luce. Non mi va di dormire con una gamba che sporge dal letto. Perché se una mano gelida si protendesse per caso da sotto il letto ad afferrarmi la caviglia, potrei anche urlare. Sono cose che non succedono, naturalmente, e lo sappiamo tutti. Nei miei racconti incontrerete esseri notturni di ogni genere: nessuno di essi è reale. L’essere che, sotto il letto, aspetta di afferrarmi la caviglia non è reale. Lo so. E so anche che se sto bene attento a tenermi i piedi sotto le coperte, non riuscirà mai ad afferrarmi la caviglia”.

Stephen Edwin King è nato a Portland, nel Maine (USA), il 21 settembre 1947. Come abbia fatto a nascere, è di per sé mistero: i medici erano infatti tutti concordi nel dire che sua madre, Nellie Ruth King, non avrebbe più potuto avere altri figli dopo David, il primogenito. Il secondi mistero riguarda un episodio accaduto quando il piccolo Stephen aveva solo quattro anni: e gli si reca a giocare a casa di un amico, situata nei pressi di una ferrovia. Quando torna a casa è pallido e stravolto e non riesce a spiccicar parola. Il giorno dopo il corpo l’amico viene trovato poco distante dai binari, travolto dal treno. King non ricorda ancora nulla di che cosa avvenne quel pomeriggio, e nessuno è mai riuscito a capire se la tragedia sia avvenuta mentre i bambini giocavano o in quali altre circostanze. Il racconto “Il corpo”, che parla appunto di un bambino ucciso dal treno, da cui è stato tratto il bellissimo film di Bob Reiner “Stand by me”, è forse collegato con questa traumatica esperienza infantile? “Non lo so”, rispose seccamente Stephen King in una intervista.

Fin da piccolo, Stephen si appassiona ai fumerri e ai racconti dell’orrore, e il primo film che ricorda di aver visto è “la creatura della Laguna Nera”, del ’53. Come se non bastasse, il padre Donald (fuggito di casa quando lo scrittore aveva due anni) gli lascia un intero scatolone di alibri di H.P.Lovecraft, Edgar Allan Poe, Richard Matheson: tutte letture che eserciteranno una grande influenza sui suoi futuri romanzi. Dopo il diploma, conseguito nel 1966, King si iscrive all’Università e comincia a pubblicare qualche racconto sulla rivista del college, sulla quale tiene anche una rubrica: “King’s Garbage Truck”. Frequenta un corso di creative writing, e sottopone al suo insegnante il dettiloscritto di quello che sarà Rage (romanzo pubblicato nel 1977 con lo pseudonimo di Richard Bachman, uscito da poco anche in Italia). L’insegnante confida a un collega: “Penso di avere tra le mani uno scrittore”.

Durante il suo ultimo anno di università, King conosce Tabitha Jane Spruce, e la sposa nel 1971. La loro vita è precaria: i due vivono con la loro prima figlia, Naomi Rachel, in una roulotte vicino a Hermon, e Stephan alterna il lavoro in una lavanderia ad alcune saltuarie supplenze come insegnante di inglese. I racconti che sottopone ai vari editori sono rifiutati sistematicamente, tranne rare eccezioni. Gli vengono tagliati i fili del telefono. King comincia a bere e la situazione si fa disperata. All’improvviso, la Doubleday accetta di pubblicare il suo primo romanzo: “
Carrie", e King riceve un anticipo di 2500 dollari. Poco dopo la bomba: la New Americana Library acquista i diritti dell’edizione economica per 400.000 dollari. Racconta lo stesso King che non appena gli venne comunicata la notizia per telefono non sapeva più cosa fare: “Mi ricordo che pensai: ora esco per fare un regalo a Tabitha e un ubriaco mi mette sotto, così ogni cosa torna al posto giusto. Sono uscito e ho comprato un asciugacapelli per ventinove dollari, e prima di attraversare la strada ho guardato attentamente a destra e a sinistra”. Era primavera del 1974.

I libri del Re

Fin dal suo primo romanzo, Carrie (da cui un film di Brian de Palma del 1976), Stephen King dimostra di non poter essere etichettato come autore Horror in maniera categorica e semplicistica. Carrie è sì anche una storia drammatica e terrificante, ma è soprattutto la storia di una bambina sola, emarginata ed esasperata che i lettori sentono inevitabilmente dalla loro parte in un crescendo di tensione e di rabbia che si scarica infine nella distruzione di una intera città, operata non solo dalla protagonista, ma anche da tutti noi che con lei sfoghiamo le nostre ire represse e quasi le invidiamo quei poteri paranormali che sono la sua dannazione. Sono pochi gli scrittori che riescono, come King, ad abbattere magicamente le barriere tra i personaggi di un libro ed i suoi lettori, e la cosa è ancor più eccezionale se di considera il carattere insolito delle vicende narrate. Il punto fondamentale è appunto questo: l’horror di Stephen King non si comipiace quasi mai di atmosfere gotiche, di castelli diroccati, di anni bui e lontani. Come ben dice Stefano Massaron sulla rivista Febbre Gialla: “King scrive romanzi i cui protagonisti potremmo anche essere noi”. L’horror di King fa parte della nostra vita quotidiana, e il suo mondo è quello che abbiamo sempre sotto gli occhi. Dopo una bella storia di vampiri , "Salem’s Lot"(in italiano, "Le notti di Salem"), del 1975, e il celeberrimo "The Shining", del 1977, da cui Stanley Kubrick ha tratto un film-capolavoro, nel 1978 Stephen King pubblica "The Stand" (in italiano "L’ombra dello Scorpione").


Secondo me uno dei romanzi più belli della letteratura mondiale contemporanea, indispensabile in ogni biblioteca priva di preconcetti verso il fantastico. Prendendo spunto da un racconto apparso anche nella raccolta Night Shift (“A volte ritornano”), "L’ombra dello Scorpione" narra la sconvolgente storia di una epidemia che distrugge quasi del tutto l’umanità, lasciando in vita solo pochissimi superstiti. I sopravvissuti, guidati da forze oscure e ancestrali, formano due distinti gruppi che si connotano subito come il Bene e il Male e che sono destinati ad affrontarsi in uno scontro finale e decisivo. L’incredibile ricchezza di simboli e apocalittiche suggestini si snoda sulla base di uno dei temi più ricorrenti nella letteratura di Stephen King: quello dell’infanzia. Spiega ancora molto bene Stefano Massaron: “è una specie di ritorno collettivo all’infanzia e alla chiarezza di vedute che essa comporta: nessun filtro, solo il bene e il male rappresentati in tutta la sua veemente brutalità; nessuna sfumatura di grigio, ma solo un abbacinante bianco e un nero di tenebra quasi solida. Il male e il bene fine a sé stessi, senza scopo, in una lotta per il dominio del mondo e delle anime, quali dovevano essere prima che la civiltà (l’età adulta) edulcorasse ogni cosa con la sua presenza infarcita di mezze vie e di compromessi”. Diventando adulti, entrando a far parte degli schemi sociali precostituiti, si perde la visione primordiale e globale del mondo e se ne acquista una più ristretta finalizzata e parziale: ne "L’ombra dello Scorpione" la fine della nostra società permette ai sopravvissuti di riafferrare l’essenza vera delle cose e li pone nella condizione di evitare la lotta. Allo stesso tempo svanisce l’obbligo della “razionalità” imposto dalla civilizzazione, e si è finalmente in grado di vedere tutto quello che di magico c’è al mondo, che noi vedevamo da bambini e che poi ci hanno imposto di dimenticare.

Questo affascinante tema è alla base di un altro capolavoro di Stephen King, scritto quasi dieci anni dopo “The Stand”, e cioè It, del 1986. It è una creatura che vive nelle fogne della cittadina di Derry, nel Maine: è il Male nella sua essenza ultima e definitiva, addirittura primordiale. It si nutre della paura altrui, e le sue vittime preferite sono i bambini che riescono meglio di tutti a percepirne la presenza. Ma proprio i bambini da vittime diventeranno cacciatori, nel momento in cui riusciranno a convincersi che esiste una “magia” buona capace di proteggerli e cesseranno di avere paura. Proprio per questo gli stessi bambini che già avevano sconfitto It nel 1958, chiamati ad affrontarlo di nuovo ventotto anni dopo, devono spogliarsi dei loro abiti mentali da adulti per combattere la nuova, definitiva battaglia. Come dice Stephen King: “Da bambini si impara a vivere; da adulti si impara a morire”. Un’altra costante della produzione dello scrittore americano e la presenza dei “perdenti”, personaggi cioè disadattati, emarginati, derisi e umiliati. In It, il gruppo dei perdenti è composto addirittura da sette persone, ma altri esempi si ritrovano, oltre che in Carrie, anche in Firestarter ("L’incendiaria", 1980), Christine ("Christine, la macchina infernale", 1983), Cujo (1981).

Tutti questi elementi (l’emarginazione, la perdita della viione del monfo dell’infanzia, il traumatico passaggio dell’età adulta, la magia) confluiscono infine in un unico filo conduttore che è l’incapacità di ciascuno di noi di accettare la realtà della morte. È questo il tema di fondo di quel fondamentale romanzo che è Pet Sematary (1983), in cui l’intera vicenda – una delle più terrificanti mai raccontate da Stephen King- si basa sull’incapacità di Louis Creed di accettare la morte di suo figlio Gage: appunto per questo ne seppellisce il corpo in un antico cimitero indiano che ha il potere di restituire la vita a chi vi viene sotterrato, con esiti tremendi e orripilanti. In un altro paio di racconti, King ci mostra come soltanto l’accettazione della tragica realtà della nostra mortalità può dare a ciascuno di noi la capacità di continuare a vivere, giacchè combattere contro la morte significa inevitabilmente soccombere. È il caso del racconto The Body ("Il corpo"), di cui abbiamo già parlato, contenuto nell’antologia Different Seasons ("Stagioni Diverse", 1982); ed è anche il caso del romanzo The Dead Zone ("La zona morta", 1979): un uomo si sveglia dopo quattro anni di coma profondo e scopre di avere poteri di chiaroveggenza. Ciò lo porta a sentire il dramma di una orribile responsabilità, che non vorrebbe accettare: è il dramma che, in altri termini, tutti noi viviamo non potendo prevedere nulla del futuro, tranne però la nostra morte. La paura della morte è lucidamente posta da Stephen King come spiegazione del successo dei suoi lavori. “Al mattino . scrive l’autore a proposito della sua opera- le persone anziane afferrano il giornale e si affrettano a consultare gli annunci mortuari per vedere a chi sono sopravvissuti”. Alla stessa maniera, leggiamo i racconti che parlano di morte per esorcizzare la nostra paura di morire. Tutte le nostre paure sono parte di un’unica grande paura: quella della nostra sagoma sotto il lenzuolo dell’obitorio. Gli orrori quotidiani raccontati, per esempio, da Dostoesvskij (l’odio, la guerra, l’alienazione, la vecchiaia senza amore) sono orrori a cui tutti crediamo; quelli raccontati da Poe e da Lovecraft sono sotterranei, ma giungono ugualmente a colpire il nostro punto debole. In altre parole, spiega Stephen King, “il racconto di mostruosità e di terrore è come un cesto riempito alla rinfusa di fobìe: quando l’autore passa accanto a voi, prendete dal cesto uno dei suoi orrori immaginari e deponete al posto di quello uno dei vostri orrori reali... almeno per un po’ di tempo”.

L'incubo del Re

Stephen King è oggetto, negli Stati Uniti, di un vero e proprio culto da parte di innumerevoli fan. Tale è la sua popolarità, che viene allestita mensilmente una fanzine intitolata Castle Rook in cui si esamina la produzione dell’autore, si tengono informati i lettori sulle sue attività, letterarie e non, si offrono occasione di compravendita per il collezionismo delle sue opere, sembra infatti che le prime edizioni, le prove di stampa, le tirature limitate, le copie firmate abbiano raggiunto quotazioni da capigiro: una edizione limitata de Il Talismano firmata da King e da Peter Straub (coautore del romanzo) vede oggi valutati i suoi due volumi circa 1600 dollari. Questo feticismo è un fenomeno dilagante del quale King ammette di avere anche un po’ paura. Sulle colonne di “Castle Rock” lo scrittore che un ragazzo, che anni prima gli aveva estorto una fotografia quasi con la forza, è diventato l’assassino di John Lennon. Da questa angoscia dell’autore è nato il suo romanzo più insolito (l’ultimo pubblicato dell’autore), intitolato Misery (1987),che racconta appunto l’allucinante vicenda di uno scrittore rapito da una delle sue fans, una infermiera folle, che lo tiene sequestrato e lo tortura obbligandolo a scrivere soltanto per lei.

L'altro Re

Ci sono alcune opere di Stephen King che si possono considerare episodi “particolari” sella sua produzione artistica, e dei quali è giusto rendere brevemente conto. Il più importante di esse è certamente il romanzo il talismano, scritto a quattro mani con il celebre narratore fantasy Peter Straub. Appena uscito, questo formidabile libro ha venduto 1 milione e 100.000 copie nel giro di un mese, sbaragliando la concorrenza di ogni altro volume presente dul mercato e stabilendo un record battuto poi da It (1.400.000 copie). "Il talismano" è oggi quasi unanimamente considerato il miglior romanzo di narrativa fantastica dopo “Il Signore degli Anelli” di Tolkien. Stephen King ha recentemente dato in seguito in questo suo “sconfinamento”nel regno della fantasy, pubblicando nel 1987 The Eyes of Dragon ("Gli occhi del drago"). Un altro episodio particolare della produzione Kinghiana è Cycle of the Werewolf, tradotto in italiano come “Unico indizio la luna piena”: questo romanzo breve nacque in origine come commento mensile alle immagini di un calendario dell’orrore disegnato da Berni Wrightson (l’illustratore di Creepshow).

Molto particolare è anche l’iniziativa che lo scrittore sta portando avanti, assai lentamente, da alcuni anni: si tratta di The Dark Tower, una serie che sarà composta da sei o sette volumi, ciascuno dei quali rappresenterà un episodio di una unica e più vasta vicenda. La caratteristica principale di questa produzione è che i volumi escono in edizioni limitate, su carta filigranata e con un lettering molto ricercato. Naturalmente costano un’enormità, ma vengono venduti tutti immediatamente. Per ora gli episodi usciti sono due (“The Gunslinger” e “The Drawing of the three”, 1982 e 1987). Per il 1990 è comunque prevista una edizione economica (in USA, perché in Italia ancora nessuno ha pensato ad una traduzione). Infine, meritano molta attenzione i cinque romanzi che Stephen King ha pubblicato con lo pseudonimo di Richard Bachman: si tratta di libri che si distaccano alquanto dalla tradizionale produzione dello scrittore, pur conservandone l’inconfondibile “impronta”. Eccone i titoli: Rage ("Ossessione", 1977); The long walk ("La lunga marcia",1979); Roadwork ("Uscita per l’inferno", 1981); The running man ("L’uomo in fuga",1983); Thinner ("L’occhio del male", 1984).

A questa produzione letteraria, vanno aggiunte le molte sceneggiature per film realizzate da King. Tralasciando quelle basate sui suoi romanzi, ecco un elenco dei copioni originali: Creepshow (1982) e Creepshow 2 (1987); L’occhio del gatto (1985); The world processor of the gods (1985); Gramma (1986). Nel 1986 Stephen King si è anche esibito come regista realizzando il film Maximum Overdrive (Brivido) su un copione tratto dal racconto Camion contenuto in “A volte ritornano”, ma i risultati non sono stati molto brillanti. Concludendo, segnalo Danse Macabre (tratto in parte anche anche in Italia) che è un grosso saggio critico scritto da King sulla letteratura Horror, che mostra tutta la sua erudizione in materia.



martedì 27 marzo 2012

LA DEA IDEA


La foto che vedete qui sopra mostra la pila delle proposte per storie di Zagor, inviate da aspiranti sceneggiatori, giacenti sulla mia scrivania al 21 marzo, e il soggetto arrivato in redazione in quel giorno che vi viene appoggiato sopra. Da allora, ne è giunto un altro paio. Nell’ultimo mese sono riuscito a leggere con attenzione, e a rispondere per lettera con la dovuta esaustività (cioè, commentando passo per passo e individuando i punti critici), due elaborati. Esiste comunque il problema di riuscire a esaminare tutti i rimanenti, dando la dovuta soddisfazione a tutti coloro che si sono fatti avanti e magari riuscendo a individuare, nel gran numero, qualcuno di meritevole.

Finora, mi sono sempre rifiutato, salvo qualche raro caso, di rispondere con frettolosità o con lettere circolari buone per tutti, e ho cercato invece di dimostrare a ciascuno dei mittenti che mi sono preso a cuore il suo caso, esaminando con attenzione ciò che ha mandato. Credo che siano parecchi quelli che possono testimoniare questa mia premura, che però va a discapito della velocità con cui evado le giacenze. Ci sono stati anche alcuni sceneggiatori che oggi lavorano con noi, selezionati (in prima istanza) proprio dal sottoscritto: Jacopo Rauch, Diego Paolucci, Mirko Perniola e Samuel Marolla (in ordine cronologico) sono fra questi. Certo, si potrebbe dire che uno su mille ce la fa. E si potrebbe anche sostenere che per incompetenza, strabismo o miopia non mi sono accorto del talento di altri ancora più dotati. Vero è che io ho giudicato seconda l’ottica zagoriana, e non è detto che una superstar del fumetto mondiale, mettiamo pure Neil Gaiman, riuscirebbe a scrivere una storia di Zagor che piaccia agli appassionati dello Spirito con la Scure più di una delle avventure di Cesare Melloncelli. Ma, insomma, almeno dalla redazione di Zagor qualche risposta a chi manda soggetti ogni tanto arriva.

Ne sa qualcosa Vittorio Sossi, di cui ho sceneggiato personalmente due soggetti, regolarmente pagati, (uno già uscito, “La malezione del Poseidon”, uno di prossina pubblicazione, “I lupi del gelo”), e ne sanno ancor di più, perché la memoria è fresca, altri due soggettisti autori di due proposte convincenti, una già accettata e una in procinto di esserlo, appena sarà stata messa a punto dopo varie riscritture. Tuttavia, sono tanti quelli che ancora attendono un riscontro e lo fanno addirittura da un anno. Potrei cavarmela facilmente rispondendo: “purtroppo lo staff è al completo, mi dispiace”. Ma penso che a me, venticinque anni fa, non andò così e ci fu qualcuno che lesse la mia prima proposta. Era infatti il 1987 quando presentai a Sergio Bonelli il soggetto della mia storia d’esordio. Ci vollero, è vero, due anni prima di una risposta ma, come ho già raccontato, ma alla fine Decio Canzio, un giorno del 1989, mi chiamò nel suo ufficio e si mise a spiegarmi punto per punto quel che non andava nel mio soggetto intitolato “La sindrome di Beelzebul”, bocciandolo. Tuttavia, aveva notato qualcosa in me da cui era rimasto favorevolmente impressionato e mi invitò a correggere quella storia superando le difficoltà che aveva riscontrato. Pochi mesi dopo, venivo assunto.

Oggi i tempi sono cambiati ed è tutto più difficile, non ci sono dubbi. Però continuo a pensare che chiunque coltivi il sogno di scrivere Zagor abbia il diritto a venire preso in considerazione. E anche se alla fine la risposta sarà “mi dispiace, non va bene”, credo che ogni autore voglia sapere di essere almeno stato preso in considerazione e magari consigliato sul modo migliore per perfezionarsi. Mi si dirà: ma allora, se sei convinto di tutto ciò, perché chi invia soggetti deve aspettare tanto? Non è meglio fargli sapere subito se ci sono delle possibilità oppure no? Certo, sarebbe meglio. Però, per esaminare con la dovuta attenzione un testo di diverse cartelle, farsene un’opinione e scrivere una risposta puntuale e dettagliata serve del tempo. Una, due, tre ore a seconda dei casi. Spesso, un curatore di testata di tempo non ne ha così tanto. Perché prima vengono, com’è ovvio, le scadenze dettate dal calendario delle uscite, in funzione del quale sono stabilite tutte le consegne dei vari passaggi redazionali. Zagor esce in edicola con oltre duemila tavole all’anno e io sono solo a occuparmene, lavorando in redazione soltanto una quindicina di giorni al mese. Quasi tutte le mattine, quando mi presento in ufficio, mi propongo di evadere un po’ di giacenze dalla pila dei soggetti in attesa, ma subito inevitabilmente mi scontro con la realtà dei fatti: arriva il letterista che deve ritirare il lavoro, i grafici attendono le indicazioni per le correzioni, un disegnatore aspetta che gli invii pagine di sceneggiatura, un collega vuole la rubrica della Posta e uno pretende il riassunto per il sito Internet o la presentazione per la pubblicità. Le otto ore alla mia scrivania sono, non di rado, una sorta di tour de force a cui mi sottopongo con entusiasmo ma che, certo, non mi permette di dedicarmi agli aspiranti sceneggiatori.

Già una volta ho spiegato quanto sia difficile concentrarsi su un testo (talvolta molti lungo) da leggere con attenzione cercando di coglierne bene tutte le implicazioni: guardare delle tavole disegnate è un conto, esaminare un soggetto scritto è un altro. Non so come si comportino gli altri curatori rispetto alle proposte che ricevono: di sicuro ne arrivano tante a tutti. Io sono un po’ intimidito dai soggetti troppo lunghi (una volta ne ho ricevuto uno di settanta pagine scritte fitte fitte, che comunque ho letto), e talvolta mi sorprendo a pescare nel mucchio quelli un po’ più brevi così da poter capire subito se c’è qualcosa di interessante oppure no. Però, poi, quando vado a rispondere quasi sempre comincio con il dire che gli spazi sono molto stretti, dato che lo staff degli sceneggiatori zagoriani è già molto affollato. Guardando le sceneggiature che sono in fase di illustrazione in questo momento, la scuderia dei testisti comprende (in ordine alfabetico): Boselli, Burattini, Capone, Marolla, Mignacco, Paolucci, Perniola, Rauch e Zamberletti (quest’ultimo, sceneggiatore di fiction televisiva e giallista di una certa fama, di cui leggerete la prima storia nel corso del prossimo anno). Qualunque altro aspirante dovrebbe quanto meno cercare di presentare dei soggetti così brillanti da far superare l’obiezione più scontata: ma una storia di così ordinaria amministrazione, non possiamo scrivercela da soli, noi che abbiamo nove scrittori a disposizione? Il motivo per cui, a parità di soggetto, un professionista è preferibile a un esordiente è chiaro: chi ha meno esperienza, deve ancora farsela. Gli va insegnato il mestiere. Ogni tavola va corretta e riscritta due, tre volte. Una faticaccia. Chiunque faccia già parte dello staff, compreso Zamberletti che pure vanta un curriculum di scrittore già rodato, ha dovuto subire un certo addestramento, talvolta duro, da parte del sottoscritto (così come fanno, immagino, anche gli altri curatori di testata). Per convincere un editor a ricominciare con le lezioni a beneficio di un nuovo arrivato, bisogna che costui abbia davvero dei buoni argomenti. Il mio proposito è comunque quello di smaltire le giacenze prima dell’arrivo dell’estate, con le buone (lettura attenta e approfondita e risposte esaustive agli autori) o con le cattive (scrematura dei più meritevoli e lettere di circostanza ai m eno brillanti).

O almeno, questo era il mio proposito fino a stamattina. Perché, proprio oggi, una assurda polemica iniziata sul forum Comicus, di cui ho saputo soltanto a fuochi spenti, mi ha dato da pensare. Non ha molta importanza, in realtà, da che cosa sia nata la querelle, chi ne siano stati gli artefici. Sui forum possono scrivere tutti, e talvolta succede anche che si scrivano delle fesserie (è capitato persino a me). La questione sembra, fortunatamente, rientrata. Però, la questione sollevata è di una certa importanza, almeno dal mio punto di vista. Infatti, qualcuno ha accusato alcuni sceneggiatori bonelliani (non me, ma mi sento coinvolto rientrando nella categoria) di essersi appropriati di idee altrui fatte giungere in redazione sottoforma di proposte. Il problema non è nuovo, dato che c’è sempre qualcuno che si reputa un genio incompreso (e magari lo è) convinto di essere stato derubato del proprio progetto. In alcuni casi è perfino successo davvero (vedi la diatriba sull'invenzione del telefono fra Meucci e Bell), ma certo non credo proprio che esistano dei precedenti in casa Bonelli. Il forumista finito nell’occhio del ciclone per le sue accuse (poi ritrattate) avrebbe inoltre parlato di una "casta" accusata di fare il buono e il cattivo tempo in via Buonarroti: anche se fosse non vedo il problema dato che in ogni azienda è normale che ci sia staff di dirigenti, (c'è anche nelle cooperative), e qualcuno che alla fine decide ci vorrà pure, se si tratta di scegliere fra tante proposte. Ma, ripeto, quel che mi dà da pensare sono le accuse fatte a proposito del "furto di idee" da parte di sceneggiatori che avrebbero rubato lavori altrui.

Ecco, io ricevo una cinquantina di soggetti all'anno e, come ho detto, cerco di leggerli per rispondere a tutti, sia pure con i miei tempi biblici. Se in un soggetto presentato da un aspirante sceneggiatore (che magari non ho ancora letto) c'è un attacco a una diligenza e anche in una mia storia c'è un attacco alla diligenza, qualcuno potrà accusarmi di plagio? Se uno propone un viaggio in mongolfiera e anch'io uso la mongolfiera in un passaggio di una mia sceneggiatura, ho copiato? Alla fine, i soggetti girano tutti attorno a un numero limitato di situazioni, tant'è vero che nel novanta per cento dei casi io rispondo a chi li invia che purtroppo una storia molto simile o è in lavorazione o è già stata fatta in tutte le varianti possibili. Ovviamente, il talento di chi sceneggia sta nella capacità di rendere interessante anche uno spunto già visto. A volte uno spunto può essere buono ma presentato in modo da non essere utilizzabile: magari io o un altro con più esperienza avremmo potuto "confezionarlo" meglio.

Nell’ultimo soggetto che ho letto, l’autore proponeva un’avventura di Zagor ambientata su un’isola dell’Atlantico meridionale realmente esistente, Tristan da Cunha, sulla base di una leggenda che davvero riguarda quel luogo. Ho fatto notare come l’idea di fondo (il sepolcro di uno stregone protetto da creature demoniache) fosse già stata sfruttata in più occasioni, proprio con situazioni molto simili a quelle da lui proposte. In questo caso, è l’aspirante sceneggiatore che, non conoscendo tutta la serie dello Spirito con la Scure a menadito, non si è accorto di aver avuto idee che già altri avevano avuto prima di lui (e che sono poi sempre le stesse che girano e rigirano in attesa del guizzo di qualcuno che le affronti da un punto di vista almeno un po’ diverso). Ma se fosse stato il contrario? Se l’aspirante sceneggiatore avesse mandato il suo soggetto e poi, dopo qualche mese, avesse visto uscire lo Speciale Zagor “Il sepolcro dello stregone”, scritto da Diego Paolucci? Nessuno dei due soggettisti, nella realtà dei fatti, ha mai letto niente dell’altro (almeno così mi ha assicurato l’aspirante autore in questione), però a volte succede che le storie si sovrappongano perché tutti ci nutriamo dello stesso humus narrativo. Ma, dopo che ho scartato il soggetto ambientato a Tristan da Cunha, secondo voi, sarà possibile che io o qualcun altro si possa immaginare di far tornare Zagor su quell’isola (dove è già stato), con una storia del tutto diversa, o soltanto il fatto di far ricorso a una certa location, e magari a una certa leggenda realmente circolante, già configura un mezzo plagio?

Altro esempio. Anni fa, uno aspirante autore propose una storia imperniata sulla leggenda del Demone Falena, che ha ispirato anche un celebre film, The Mothman Prophecies. Per vari motivi, l’idea (pur non malvagia) venne scartata. Ora, se uno sceneggiatore del nostro staff proponesse una sua avventura basata sullo stesso Demone e magari suggeritagli da quel film, e la storia fosse diversa (nonostante il medesimo spunto), essendo peraltro io del tutto certo che lo scrittore B non ha mai potuto leggere il testo di A, che dovrei fare? Il primo propositore potrebbe saltar fuori rivendicando il plagio di una sua idea? Ulteriore esempio. Un nostro sceneggiatore (uno dello staff) ha proposto una storia con una rivolta carceraria. Però, così com’era congegnata, la storia non funzionava. Per mesi, sono andato avanti trovando obiezioni e cercando di suggerirgli possibili correzioni. Ugualmente, l’autore non trovava il bandolo della matassa. Arriva a quel punto un secondo collaboratore (sempre facente parte dello staff), che senza nulla sapere del primo e dei suo sforzi, mi mette sul tavolo un soggetto dicendo: “Ho avuto un’idea: una storia con una rivolta carceraria”. Leggo la sua proposta: è perfetta! Invio per mail al primo il soggetto del secondo e gli dico: dimmi il tuo parere. Il primo non ha avuto nessuna difficoltà ad ammettere che il soggetto altrui funzionava: era quello che lui aveva inutilmente cercato di scrivere per tanto tempo. Con la massima serenità ha acconsentito che fosse dunque l’altro a occuparsi di quella storia e lui ha ripiegato su una seconda, nello scrivere la quale non ha avuto particolari problemi. Ma ammettiamo che fosse accaduto lo stesso con la proposta di un aspirante sceneggiatore: l’autore della storia non convincete della rivolta carceraria, potrebbe ritenere di aver subito il furto di un’idea? E se un soggetto bocciato avesse riguardato questo argomento (particolare ma non certo strabiliante quanto a originalità), per tutta l’eternità gli sceneggiatori dello staff avrebbero dovuto tenersene lontani per evitare l’accusa di scippo?

Una volta un lettore mi disse: "Ho un'idea straordinaria". "Sentiamola", dico io. "Zagor incontra Lincoln", dice lui. "Bene: e che succede?", dico io. "Beh... Zagor incontra Lincoln", conclude lui. Non sapeva andare avanti, ma credeva che bastasse quello per fare una storia. Ecco, se io ora scrivessi una storia in cui Zagor incontra Lincoln, potrei essere accusato di aver rubato il lavoro di un altro? Mi chiedo se non sia il caso di smettere di leggere i soggetti di chiunque, rimandandoli indietro appena arrivano con una lettera che dica: "Il soggetto non è stato mai esaminato e non ne conosciamo il contenuto. Qualunque possibile somiglianza con nostre sceneggiature in corso d'opera o future è da ritenersi puramente casuale".

Ho scritto questa mia riflessione in un commento sul mio “coso”. Ed ecco che cosa mi ha scritto per mail un giovane collega (uno di quelli a cui qualche anno fa ho letto dei soggetti inviati come aspirante sceneggiatore, mi accorsi che era bravo e adesso lavora con noi): "ho letto il tuo post su Facebook relativo alla polemica nata su Comicus. Chiudi il post suggerendo, forse provocatoriamente, di rispondere agli aspiranti soggettisti rimandandogli indietro il testo senza neanche leggerlo. Bene, ma lo sai che per esempio la Disney lo fa veramente? Quattro anni fa circa, quando ho inviato i soggetti per Zagor, contemporaneamente ne avevo mandati un paio alla Disney per Topolino. Mi risposero dopo moltissimo tempo, con una busta che conteneva la mia busta, integra e rincollata, con una lettera firmata dalla direttrice. Il testo diceva quello che ipotizzavi tu: abbiamo ricevuto la sua lettera, e appena ci siamo resi conto che erano soggetti, abbiamo interrotto la lettura, abbiamo richiuso la busta, e gliela rispediamo intonsa. Non possiamo essere accusati di plagio se troverà in edicola una storia pubblicata simile alla sua. Va bene. Legalmente forse funziona (ma ho i miei dubbi). Ma ti garantisco che l'effetto sull'aspirante autore è mortificante. Suonava come 'non ci interessa NIENTE di lei e dei suoi lavori, si tenga la sua roba, vada a fare altro nella vita'. O perlomeno, per ME questo è stato l'effetto ". Ecco, è bastato leggere questo per farmi ricredere dal mio proposito (che era in effetti provocatorio) e convincermi più che mai a leggere tutti, ma proprio tutti i soggetti in arrivo.



lunedì 26 marzo 2012

DUE FILASTROCCHE

E' una vita che, fra le altre cose, scrivo filastrocche. Non credo di essere capace di scrivere un solo verso "serio" o di metterne quattro in fila che non facciano rima fra loro, così come non saprei comporre in metrica libera ma sono ossessionato dal ritmo degli ottonari (il metro principe delle filastrocche) o degli endecasillabi, quello dei più importanti poemi. Proprio in endecasillabi, del resto, ho composto un poema io stesso, la famosa Eneode di cui vi ho giù fatto lettere prima il canto undicesimo e poi il canto ottavo (e chissà che non vi infligga anche gli altri diciotto). Non riuscendo a essere serio nel poetare, non potrò mai pubblicare nessuna raccolta di poesie, e di questo mi sono molto grati i parenti (di solito, i congiunti, e talvolta gli amici, sono gli unici a comprare, perché costretti, i libri dei poeti). Tuttavia, proprio i parenti sfruttano il mio piccolo talento per le filastrocche chiedendomi di improvvisarne una per le più svariate circostanze, dai battesimi, ai compleanni, ai matrimoni, agli anniversari di nozze. Talvolta queste rime estemporanee fatte in famiglia sono molto più divertenti delle canzoncine di Cico (di cui credo di essere diventato, negli anni, il principale compositore, e che a pensarci bene potrei riunire in un post). Di solito, a ogni richiesta del parentado ("scrivi la filastrocca per questo o per quello") io gioco a farmi pregare un po': "Non ho tempo, non ho voglia, ho finito le idee". L'estate scorsa, in occasione del matrimonio di mia sorella, nessuno mi ha chiesto di scrivere niente. Così io ho scritto lo stesso una filastrocca lamentando di non essere stato invitato a farlo. E, devo dire, l'uditorio si è divertito più del solito. In quel caso temo di aver regalato alla sposa l'unica copia, scritta su un foglio di bloc notes, della filastrocca, e dunque non ce l'ho più. Laura, vedi di farmi avere una fotocopia, grazie! Alcune delle mie filastrocche sono riuscito a riciclarle, cambiandole un po', come canzoncine di Cico. Perciò, giusto per dare un assaggio di quel che faccio e mostrarmi a trecentosessanta gradi (che è sempre meglio che a novanta), ho pensato di tirar fuori le versioni originali dei due pezzi in questione. Eccole.


QUEL GRAND' UOM CHE INVENTO' IL LETTO
(UN GENIO SCONOSCIUTO)
di Moreno Burattini


Io non so se tu lo sai,
ma saperlo è bene assai,
che ci sono dei signori
- e si chiamano inventori -
che con grande intelligenza,
con bravura e con pazienza,
costruiscon macchinari
belli e a volte necessari.

Ci è arrivato tramandato
che Leonardo un dì ha inventato
il paracadute, il telo
che fa scender giù dal cielo;
così pur, grazie a Marconi,
noi sentiam le trasmissioni
della radio, e oggi in più
vediam anche la tivù.

Pur si sa chi è il costruttore
della pila e del motore,
e sappiamo anche più o meno
chi per primo fece il treno;
poi la bici e l'aeroplano,
e persin la bomba a mano,
il giradischi e il frullatore
hanno tutti un inventore.

Ma saper mi piacerebbe
chi fu mai colui che ebbe
quell'idea così grandiosa
d'inventar quella gran cosa
che a tutti tanto piace,
che dà forza, che dà pace,
che dà gioia e dà diletto:
chi fu mai che inventò il letto?

Con la rete e col cuscino,
che sia grande o piccolino
sempre il letto fa dormire,
fa sognare, fa poltrire,
fa guarir la malattia,
la stanchezza manda via.
Senza stringere il guanciale
si starebbe tutti male.

Non consuma la corrente,
non si guasta mai con niente:
invenzione più perfetta
mai fu fatta, e benedetta
sia per sempre la memoria
(che il Signore l'abbia in gloria)
di quel tale che un mattino
fece il letto col cuscino.

Che fantastica invenzione!
Altro che televisione!
Sempre a letto si sta bene,
con le gioie e con le pene,
e col sonno, poi, si vola
a cercare le lenzuola!
Con il capo messo giù
non si lascerebbe più.

Che cervello, che intelletto
ebbe il tal che inventò il letto!
E chissà come si stava
se nessuno lo inventava!
Sai che male, sai che duro,
dormir ritti accanto al muro,
oppur stesi sopra un sasso
senza avere il materasso!

Vadan lodi, vada onore
al magnifico inventore;
è un peccato, ed è un tormento
che neppure un monumento
mai si sia a lui innalzato:
ma chissà chi sarà stato!
Sconosciuto è, poveretto,
quel grand'uom che inventò il letto.


UNA CONFESSIONE INUTILE
di Moreno Burattini

Mi accingo a fare una confessione
davanti a voi, in questa riunione,
state a sentire perchè questa qua
è la pura e sacrosanta verità.

Io qui presente a tutti dichiaro
d'essere proprio un perfetto somaro,
e m'hanno detto, non uno ma mille,
che oltre a questo son anche imbecille.

Al mondo, credete, proprio non c'è
uno che sia più grullo di me,
e tutti sanno che fin da bambino
io sono stato un perfetto cretino.

Anche se non me ne importa un bel niente
c'è chi mi dice che son deficiente,
ma più che altro, man mano che invecchio,
divento scemo, e scemo parecchio.

E' anche vero, e qui lo confesso,
che di voi tutti io sono il più fesso;
e credo sia un dato di fatto
che tra i presenti sono il più matto.

A ogni scherzo che fanno, ci abbocco:
perchè sono tonto, perchè sono sciocco.
Si sa che la zucca l'ho proprio vuota
e per chiamarmi mi dicono: - Idiota! -

Ma ripensandoci, che parlo a fare?
Quello che avete potuto ascoltare,
lo sapevate già perfettamente
anche se non vi dicevo un bel niente.


venerdì 23 marzo 2012

I PONTI DI MADISON COUNTY


La biblioteca di Babele 5

Per ricapitolare che cos’è questa rubrica mensile, basterà dire che fin dai tempi del liceo, ogni volta che ho letto un libro mi sono appuntato le mie impressioni a caldo scrivendo una piccola recensione che servisse a ricordarmi meglio il contenuto del volume. Con il tempo ho ricopiato sul computer i fogli scritti a mano, e ho cercato di coltivare questa abitudine. Così, ho finito per accumulare centinaia e centinaia di mini-recensioni, alcune troppo brevi e frettolose per essere pubblicate, altre invece decisamente più elaborate. "La biblioteca di Babele" mette a disposizioni di tutti proprio queste ultime, sperando di fare cosa gradita ai più e magari suggerire a qualcuno il recupero di qualche libro del passato.



I libri già recensiti (in ordine alfabetico):

L’arte di ottenere ragione, di Arthur Schopenauer (febbraio 2012)

Il codice da Vinci, di Dan Brown (gennaio 2012)Il diario di Eva, di Mark Twain (marzo 2011)

Storia delle mie disgrazie, di Pietro Abelardo (dicembre 2011)




Robert James Walker
I PONTI DI MADISON COUNTY
Romanzo – Sperling & Kupfer
Collana Sperling Paperback
Titolo originale: “The Bridges of Madison County”
Traduzione di Maria Barbara Piccioli
brossurato - 180 pagine

“Hanno avuto quattro giorni, quattro giorni soltanto in una vita intera”. Così i figli di Francesca Johnson commentano la breve, ma intensissima storia d’amore della loro madre con un fotografo di National Geographic, dopo averla scoperta. E’ la stessa Francesca a rivelarla loro, lasciando una lettera e tutte le testimonianze perché essi le ritrovino dopo la sua morte. Non so se I ponti di Madison County sia davvero, come pretende la scritta in copertina, “uno tra i più bei romanzi d’amore di tutti i tempi”. Di sicuro è uno tra i più bei romanzi d’amore che io abbia mai letto.

La trama, trasportata in film in maniera splendida da Clint Eastwood, con Maryl Streep nel ruolo di Francesca, narra di Robert Kincaid inviato dalla rivista per cui lavora a realizzare un servizio fotografico sui ponti coperti della Contea di Madison, nello Iowa. Lì giunto a bordo del suo furgone, Robert incontra, per caso, Francesca, una donna di origini italiane sposata con Richard Johnson, proprietario di una fattoria nei dintorni di uno dei ponti. Francesca è sola in casa, perché il marito e i figli sono andati via, per una settimana, a una fiera del bestiame in Illinois.

Tra Robert e Francesca scocca prima una reciproca simpatia, poi l’attrazione, poi l’amore. Intensissimo. Lei vive un’esistenza rassegnata nel tran tran della vita domestica, devota a un uomo per cui non ha ormai nessuna passione, e che non si accorge neppure se si depila oppure no. Lui, divorziato e lupo solitario, è l’opposto esatto del marito. Leggiamo infatti a pagina 61: “Francesca non fece commenti, ma si interrogava sul conto di un uomo al quale sembrava importante la differenza tra prato e pascolo, che si entusiasmava per le sfumature del cielo, che scriveva poesie. Che suonava la chitarra, si guadagnava da vivere con le immagini e portava la sua attrezzatura in due zaini. Che assomigliava al vento. Come il vento si muoveva. E forse dal vento era venuto”.

E’ questa forse la chiave di lettura che spiega il resto della storia. Lui è il vento, che non si può recingere. Un vento che le faccia volare i capelli e scacci la nebbia, e che sfogli violentemente le pagine della sua vita. E' la passione di cui lei sente la mancanza. E neppure la passione si può recingere si può recingere. “Ormai quasi tutto quello che concerneva Robert Kincaid aveva cominciato ad apparirle erotico. Perché con Richard non era in quel modo? In parte, lo sapeva, a causa dell’inerzia che sempre provocano le abitudini protratte nel tempo. Capitava in tutti i matrimoni, in tutte le relazioni. L’abitudine conduce alla prevedibilità e la prevedibilità ha i suoi lati positivi, era consapevole anche di questo. Ma fra loro stava succedendo qualcos’altro. La prevedibilità è un conto, la paura di cambiare un altro. E Richard aveva paura dei cambiamenti, di ogni tipo di cambiamento, nell’ambito del loro matrimonio. Non voleva affrontare l’argomento in generale e, in particolare, non voleva parlare di sesso. L’erotismo era, per certi versi, una faccenda pericolosa, estranea al suo modo di pensare. Non era il solo, naturalmente, e in realtà non era neppure da biasimare. Da dove traeva origine la barriera che era stata eretta contro la libertà? Non solo nella loro fattoria, ma nell’intera cultura rurale. E forse anche in quella urbana. Perché quei muri e quelle recinzioni a impedire relazioni aperte, spontanee, tra uomini e donne? Perché quella mancanza di intimità, quell’assenza di erotismo?” (pagina 92).

I due si innamorano. Non solo si attraggano, si desiderano. Proprio si innamorano. “Tutte le emozioni, tutto il suo lavoro di ricerca e di riflessione, una vita di emozione tornarono ad assalirlo in quel momento. E si innamorò di Francesca Johnson, moglie di un agricoltore della Madison County, Iowa, originaria di Napoli. E lei s’innamorò di Robert Kincaid, fotografo e scrittore di Bellingham, Washington, arrivato al volante di un vecchio furgone” (pagina 94).

“Quel martedì sera, mentre ballavano in cucina, si erano gradatamente e spontaneamente avvicinati sempre di più l’uno all’altra. Premuto contro il suo petto, Francesca si chiedeva se lui percepiva i suoi seni attraverso la stoffa ed era certa che fosse così. Lui le rimandava sensazioni stupende. Avrebbe voluto che quel ballo durasse per sempre. Stava diventando di nuovo una donna. Aveva ritrovato lo spazio per ballare ancora. Ora lui stava sprofondando in lei, e lei in lui. Staccò la guancia dalla sua, lo guardò con i suoi occhi scuri, e quando lui la baciò ricambiò il suo bacio, un bacio lungo e dolce che era come un fiume” (pagina 106).

Robert e Francesca trascorrono insieme solo quattro giorni in tutta una vita. Ma sono quattro giorni che segnano le loro vite. Intensissimi. Struggenti. Ma sono quattro giorni soltanto. Al termine dei quali, Robert chiede a Francesca se voglia seguirlo. Lei risponde di no. Lui se ne va. Non senza esitazioni. Ma se ne va. Lei non lo ferma. La partenza di Robert Kincaid coincide con il ritorno di Richard Johnson. Lei resta con il marito. Perché? Perché lui parte, perché lei resta? Perché lui è il vento. Francesca sa che se partisse con lui, lo zavorrerebbe. E l’amore supremo è lasciare la libertà a chi si ama. E lui riparte perché sa di essere un lupo solitario: non può fermarsi, può solo essere seguito. “C’erano state delle donne prima di te, qualcuna, ma nessuna dopo – scrive Robert a Francesca – Non mi sono votato deliberatamente alla castità: è solo che non provo alcun interesse. Una volta ho avuto modo di osservare il comportamento di un’oca canadese la cui compagna era stata uccisa dai cacciatori. Si uniscono per la vita, sai. Dopo l’episodio, ha continuato ad aggirarsi intorno allo stagno per qualche giorno. L’ultima volta che l’ho vista, nuotava tutta sola tra il riso selvatico, ancora alla ricerca. Più o meno è così che mi sento anch’io”. E giù lacrime.


mercoledì 21 marzo 2012

IL DIZIONARIO DEGLI INSULTI

Ho ricordato spesso con divertimento e un pizzico di nostalgia il periodo della mia vita, all’inizio degli anni Novanta, in cui ho collaborato con “Lupo Alberto” e con “Cattivik”. In particolare, per la testata dedicata al Genio del Male, ho curato per diverso tempo anche i redazionali umoristici e ho risposto alle lettere dei lettori nei panni del Professor Gustavo La Fogna. Ha avuto un certo successo, qui sul blog, la riproposta di alcuni scherzi da me suggeriti a suo tempo in una rubrica, durata dieci puntate, che si chiamava "Queste cose non si fanno". Ma c’è stato un altro appuntamento di successo, durato dal febbraio 1992 (Cattivik n°41) fino al novembre 1994 (Cattivik n°62): ventuno mesi filati. Mi inventai, infatti, una rubrica intitolata “Il dizionario degli insulti”, in cui, in ogni puntata, suggerivo ai giovani lettori degli epiteti coloriti con cui apostrofare il prossimo.

La filosofia che animava la serie di articoli era quella di spingere i pargoli a usare il cervello anche nella pratica della contumelia: mi raccomandavo, infatti, di evitare i soliti oltraggi triti e ritriti, o sempre le solite parolacce. Bisognava invece, come cercavo di insegnare, essere creativi ed espressivi anche nell’offendere, facendo sfoggio di un ricco vocabolario, all’interno del quale scegliere il termine più adatto e dimostrando perciò di conoscerne l’etimologia e l’esatta accezione. Scrivevo infatti: “Abbiamo preso questa iniziativa per insegnarvi a ingiuriare come si deve chi vi sta sull'anima, chi vi rompe i corbelli, chi volete mandare a quel paese. Non che non siate già bravi da soli: sappiamo che ve la cavate benissimo con le parolacce. Però c'è sempre da imparare, e noi vogliamo suggerirvi qualche bella e pittoresca contumelia con cui apostrofare i vostri avversari, invece di ripetere loro le solite, banali offese. Come vedete, la redazione di Cattivik pensa alla vostra cultura ed è qui per arricchire il vostro vocabolario con tanti, begli insulti da distribuire a volontà”. Insomma, arrivando alla "C", non ho preso neppure in considerazione le solite parole, banali e stantie, come "cretino", "cornuto" e "carogna”. Io lavoravo per arricchire il vocabolario dei miei lettori, e volevo insegnare loro parole nuove e più espressive. Ci sono infatti insulti che soltanto per come suonano, insultano il doppio rispetto al loro più comune sinonimo.


Mi si perdonerà se, per fare degli esempi, sarò obbligato a citare espressioni non proprio da educande, ma la cultura è cultura e anche le parolacce hanno le loro brave etimologie interessanti da studiare. Dunque, prendiamo il caso di “puttana”. Ormai il termine è inflazionato e, a forza di usarlo, ha finito per diventate inoffensivo. Ma, se uno dicesse invece “bagascia”, le cose cambiano. "Bagascia", riempie la bocca come se qualcuno stesse biascicando e dà il senso della depravazione più svaccata e spregevole. L’etilmologia è incerta, ma una delle ipotesi (quella che io sposerei) è che derivi dal provenzale baga, che significa “borsa” (come in inglese bag), più il dispregiativo settentrionale italiano –assa. Sarebbe come dire: borsaccia, e si capisce che il riferimento è all’organo genitale femminile smodatamente usato. Per metonimia, poi, dall’organo si passa alla donna.
Per "baldracca" vale lo stesso discorso: è un epiteto che suona offensivo prima ancora di sapere che cosa vuol dire, dà proprio soddisfazione già nel pronunciarlo. Volete sapere da dove ha avuto origine questo termine? Da "Baghdad", città araba ritenuta dissoluta e depravata per antonomasia: i fiorentini, nel medioevo (quando ancora non era nato Saddam Hussein), ne storpiarono il nome come solo loro sanno fare, al solo scopo di usarlo come pastosa ingiuria. Anche "marchettara" significa puttana. Vale la pena di spiegare perché: fino a qualche decennio fa esistevano le cosiddette "case di tolleranza", cioè i bordelli dove i frequentatori si recavano per scegliersi le prostitute come se andassero al mercato a comprare le patate. Ce n'erano per tutti i gusti, e una volta fatta la scelta, il cliente pagava anticipatamente alla tenutaria del bordello, che consegnava una ricevuta detta "marchetta". Il cliente quindi si ritirava in una stanza con la fanciulla, consegnandole il tagliandole che dava diritto alla prestazione. A fine settimana, le prostitute venivano pagate proprio in base al numero di marchette che riuscivano a esibire: più ne avevano raccolte, maggiore era la retribuzione.

Mignotta”, ugualmente, vuol dire prostituta, lo sanno tutti, e come offesa suona parecchio bene, perché dire a qualcuno "figlio di prostituta" non fa nessun effetto, ma dirgli "figlio di mignotta" invece fa imbestialire. Deriva dalla parola francese mignot, variante di "mignon" che vuol dire "grazioso, vezzoso, civettuolo". In pratica, una donna che si imbelletta tutta per attirare i maschietti e va a ronzare con mille moìne attorno a tutti gli uomini del circondario, può essere graziosa, vezzosa e civettuola quanto si vuole, ma è pur sempre una mignotta. C’è anche chi sostiene che in realtà “mignotta” deriva da “minette”, cioè “gattina”, un vezzeggiativo diffuso fra le cocotte (parola, questa, che indica le donne che si vendono ma non suona offensiva, anzi). Non risulta fondata, invece, la falsa etimologia secondo la quale “figlio di mignotta” deriva da “figlio di m(adre) ignota”).

Ma attenzione! C’è anche “battona”, parola che ha lo stesso significato di “puttana” è un utile sinonimo, dato che non è mai elegante ripetersi. Sinceramente non è granché, come offesa, dato che, come abbiamo visto, ce ne sono di più pittoresche. Però si può tenerla di scorta: quando avrete già chiamato qualcuna "baldracca", "bagascia", “marchettara” e “mignotta”, ditele anche "battona" così almeno quella è a posto e non se ne parla più. Il termine deriva dal verbo "battere" (nel senso di "percorrere" una strada o un marciapiede), ma fin qui c'eravate arrivati anche voi, scommetto: nessuno vuol mettere in dubbio la vostra competenza sull’argomento.


Ci sono poi insulti che non si dovrebbero mai usare, e sono quelli omofobi (come “finocchio” o “frocio”), razzisti (“rabbino”), “ o quelli legati agli handicap (“cerebroleso”, “nano”). Tuttavia, memore dei miei studi di linguistica, mi soffermerò un istante sui primi due, dato che hanno delle spiegazioni piuttosto divertenti sulla loro origine, e per fortuna su queste etimologie si può ancora scherzare Partiamo da “finocchio”. Che collegamento c'è fra l'ortaggio che mangiamo lessato o in pinzimonio, e gli omosessuali? E' presto detto: il seme del finocchio è una spezia aromatica molto profumata, con cui si preparano molti piatti. In alcune bettole di infimo ordine, un tempo era uso comune da parte dei disonesti tavernieri condire con i semi di finocchio i cibi andati a male, in modo da mascherare il gusto di marcio e imbrogliare così i clienti. Il verbo "infinocchiare" deriva appunto da questa pratica, riferita ovviamente ai travestiti, che hanno l'abitudine di profumarsi e imbellettarsi come delle donne, e cambiano aspetto così come i piatti aromatizzati col finocchio cambiano gusto. E c’era chi, convinto di avere a che fare con una donna (per metafora: un buon piatto), scopriva poi di essere in compagnia di un uomo (per metafora: un piatto diverso da quello ordinato). “Frocio” è un termine che, invece, deriva dalle guardie svizzere del Papa, che in passato, erano spesso ubriachi e avevano perciò dei gran nasi rossi. Siccome le "froge" sono le narici dei cavalli, i romani designavano questi soldati con il termine di "frogioni". Dato che, però, le guardie in questione erano (a torto o a ragione) credute omosessuali dal popolino, "frogioni" cominciò a voler dire non più "nasoni" ma "pederasti". Da frogio a frocio, poi, il passo è breve.

Il massimo studioso dell’argomento è Gianfranco Lotti, autore di un vero e proprio “Dizionario degli insulti” (Siad Edizioni, 1984), un saggio di oltre trecento pagine scritte fitte fitte, che mette in ordine alfabetico epiteti oltraggiosi da “abbacone” (chi almanacca troppo con il cervello, e si perde in mille fantasticherie, dunque una persona svagata) a “zuzzurellone” (adulto sempre dedito a giochi infantili). Più di recente, Alfredo Accattino ha dato alle stampe un libro dal titolo “Gli insulti che hanno fatto storia” (Piemme, 2005). Qui, in 350 pagine, si leggono le peggiori offese di personaggi famosi ad altri personaggi famosi, secondo l’ ordine alfabetico degli insultati. Per esempio: Giulio Andreotti sarebbe “l’unico gobbo che porta sfortuna” secondo Umberto Bossi.
Prima di passare a sottoporvi una selezione degli insulti da me suggeriti su Cattivik, un’ultima considerazione: oggi, in epoca di moralismo e di politicamente corretto, nessuna rivista dedicata ai minori pubblicherebbe mai una rubrica del genere. E se lo facesse, l’Associazione Genitori trascinerebbe in tribunale il direttore.

IL DIZIONARIO DEGLI INSULTI
Di Moreno Burattini
(da “Cattivik” 1992-1994)

ARPIA
Nella mitologia greca, le arpìe sono creature orripilanti e puzzolenti con la testa di donna e il corpo di uccello. Abitavano nelle isole Strofadi, nel mar Ionio e aggredivano in stormi gli esseri umani, rubando loro un po' di tutto, e soprattutto ricoprendoli della loro cacca puzzolente (come fanno i piccioni che ci bersagliano nelle nostre piazze). Quale modo migliore di ingiuriare una donna brutta, sporca, scarmigliata, perfida e rapace, se non quello di chiamarla "Arpìa"?


BABBEO
Benchè molti babbi siano babbei, la parola "babbeo" non deriva da "babbo". Deriva dal latino volgare "babbaeus", un termine che fa il verso al modo di parlare impacciato. Un babbeo, infatti, non sa spiccicare parola e balbetta: "Boh... beh..."! Come la maggior parte dei ciclisti e dei calciatori quando vengono intervistati in televisione, insomma. Si dice di una persona sciocca e buona a nulla, ed è una gran bella parola da usare come offesa, perchè permette di atteggiare la faccia a disprezzo mentre la si pronuncia: tutte quelle "B" fanno mettere le labbra nella giusta posizione di schifo. Provate a dirla, e vedrete che è vero.

BABBUINO
Benchè molti babbi siano babbuini, la parola "babbuino" non deriva da "babbo". Deriva dal francese babouin, che designa una scimmia dell'africa centro-orientale con il muso simile a quello di un cane. Sicché, se voi dite "babbuino" a qualcuno, gli date della scimmia e del cane tutto in una volta.









BACUCCO
Si dice "bacucchi" per indicare dei vecchi decrepiti e rimbambiti, come la maggior parte degli uomini politici. Il nome deriva da una statua raffigurante il profeta Abacuc scolpita a Firenze da Donatello, nel Quattrocento: i fiorentini, sempre salaci e spiritosi, trovando somiglianze fra la faccia brutta e rugosa della scultura con quella di certi nonnetti acidi e rincartapecoriti, storpiarono il nome Abacuc in bacucco, e cominciarono ad affibbiarlo a destra e a manca senza pensarci due volte. Fatelo anche voi, mi raccomando.






BUZZURRO
Il "buzzurro" è una persona rozza, zotica, villana, sgarbata: un tamarro, insomma. Bisogna proprio dire che anche senza spiegarlo, solo a sentirlo dire, anche chi non lo sa lo capisce. E' proprio questo il bello di queste parole che riempiono bene la bocca: sono ingiurie espressive, che danno soddisfazione a dirle e vengono immediatamente comprese da tutte, pur non essendo banali. Infatti, se dite "beota" a un buzzurro quello può anche pensare che gli abbiate fatto un complimento. Ditegli "buzzurro", e anche se è voltato da un'altra parte si volterà subito e capirà che state parlando di lui, anche se non sa quel che vuol dire.


BARBAGIANNI
Il barbagianni è un rapace notturno. Chissà perché, questi poveri volatili vengono sempre utilizzati come offese: non solo si crede che l’allocco sia cretino, ma anche la civetta è considerata poco seria e persino il gufo è sinonimo di persona cupa e d'aspetto tetro. Il barbagianni, in effetti, è un po' bruttino e ha l'aria più scema degli altri. E poi, ha un nome così ridicolo che suona proprio bene come ingiuria. Perciò, di fronte a una persona sciocca e ottusa, ditelo pure. Se non si offenderà il vostro avversario, si offenderà senz'altro il barbagianni.

BEFANA
Il nome "Befana" deriva da "Epifanìa", ricorrenza che tutte le feste si porta via: è quella brutta megera che il sei gennaio, a cavallo di una scopa, passa casa per casa a mettere dolci e regali nelle calze appese al caminetto. A differenza di Babbo Natale, che in quanto babbo è più babbeo, la Befana non offre doni a occhi chiusi: ai bambini buoni dà chicchi e caramelle, ma a quelli cattivi riempie la calza di carbone. Dunque, non solo è brutta ma anche stronza! Potete pertanto prendere in prestito il suo nome per designare certe vostre amiche, nemiche o semplici conoscenti, che siano sgraziate, racchie, inacidite con un porro sul nasone o con la schiena ringobbita. E ce ne sono... oh, se ce ne sono!


BEDUINO
Chi sono i beduini, lo sanno tutti: gli abitanti del deserto, quei nomadi che si spostano sul dorso dei cammelli e si abbivaccano nelle oasi. Costoro saranno magari tutte persone per bene, resta il fatto che dando del "beduino" a qualcuno, quello s'offende. Fate pure un esperimento: uscite in strada e avvicinatevi al primo passante che incontrate, uno che magari non ha mai visto un beduino in vita sua. Quindi, di punto in bianco, ditegli: beduino! Scommettiamo che si imbestialisce? Sicché, è un'ingiuria da tener presente.



BEOTA
Letteralmente, questa bella ingiuria significa "abitante della Beozia". Nell'antichità si diceva infatti che la gente di quella regione della Grecia fosse tutta rozza e ottusa. La stessa credenza l'abbiamo anche noi riguardo agli abitanti di qualche paese vicino: qualunque cittadina italiana ha sempre, lì intorno, un'altra località da dispregiare nella convinzione che ci abitino persone sceme. I livornesi, per esempio, disprezzano (contraccambiati) i pisani; i pratesi si fanno beffe (contraccambiati) dei pistoiesi; i padovani ridono (contraccambiati) dei rodigini. Eccetera eccetera. In ogni caso, la prossima volta che dovete dire "imbecille" a qualcuno di un paese vicino, ditegli "beota". Fa più figura.


BIFOLCO
E' una parola che deriva dal latino volgare bufulcus, che significa "bovaro". E trattandosi di un insulto, il fatto che derivi dal volgare è una garanzia. Ci saranno pure dei guardiani di vacche profumati, colti, raffinati e pieni di buone maniere, però solitamente si ritiene che siano rozzi, puzzolenti e zoticoni. Perciò, se incontrate qualcuno così, ditegli pure "bifolco!" con una certa convinzione. E' un modo come un altro per fargli capire (per il suo bene) che ha un modo di fare adatto solo per le mandrie bovine.





CEFFO
In francese, chef significa "capo" nel senso di colui che comanda. Ma in passato significava "capo" nel senso di testa, in particolare di un animale. Ceffo è dunque chi ha la faccia somigliante al muso di una bestia, il volto animalesco, l'espressione losca e poco raccomandabile. Si tratta insomma di brutti soggetti. Attenti a non farvi sentire quando dite "ceffo" a un ceffo, se no quello vi piglia a ceffoni.


CICISBEO
L'avete mai sentita dire, questa parola? No? Vedete allora come vi insegno cose nuove? Fatelo vedere a chi vi dice che il nostro giornalino è diseducativo, e se quello non cambia idea voi chiamatelo "cicisbeo" e non parlateci più. Nel Settecento i cicisbei erano i corteggiatori che ronzavano attorno a una dama, tutti imbellettati come si usava allora: cipria sul viso, neo di bellezza dipinto sulla guancia, parrucca bianca in testa, vestito attillato di raso. Come se non bastasse questo abbigliamento da checche, i cicisbei facevano anche i galanti con i baciamano, gli inchini cerimoniosi, la declamazione di versi e tutte queste smancerie. Insomma, uno schifo. Ai giorni nostri, si può chiamare cicisbeo un tipo che si veste in maniera eccessivamente raffinata, si esibisce in troppe galanterie, parla usando le parole più colte e ricercate (così che non ci si capisce nulla), e mostra disgusto verso le cose divertenti della vita. Sembra che il termine derivi dall'incrocio fra il verso del bisbiglio lezioso (ci-ci-ci) e la parola "babbeo".

DEBOSCIATO
In genere le ingiurie vogliono dire una sola cosa: per esempio, scemo vuol dire scemo, bestia vuol dire bestia e buzzurro vuol dire buzzurro. Se invece andate a leggere sul dizionario cosa significa "debosciato" ci trovate una sfilza di significati che non finisce più: "dissoluto, depravato, corrotto, vizioso, gozzovigliatore, scostumato, rifiuto umano". In francese, la parola bauge significa "covo fangoso del cinghiale o del maiale, pantano, luogo sudicio". Siccome il de- iniziale indica una provenienza, vuol dire che il debosciato è uno venuto fuori direttamente dal porcile, un perverso che fa schifo al solo guardarlo. Non è meraviglioso poter dire tutto ciò a un vostro avversario, direttamente con una sola parola?


DEPRAVATO
Già a dirlo, questo termine, dà un senso di disprezzo: "depravato", se pronunciato con una erre lunga e sonora, suona proprio offensivo. Se poi storcete la bocca, fate uno sguardo schifato, arricciate il naso disgustati, il depravato in questione si sentirà oltraggiato dalla punta dei capelli alle unghie dei piedi. Usate questo insulto al momento giusto, però: significa "pervertito, vizioso, traviato", un po' come il debosciato di cui abbiamo detto prima. Quindi potete chiamare così l'amico sorpreso a sfogliare una rivista di donnine nude, ma non un seminarista che vi ha tagliato la strada con la sua bicicletta (a meno che il seminarista non pedalasse leggendo una rivista di donnine nude e fosse distratto proprio per questo)!

DUE DI BRISCOLA

Nel gioco della briscola, come sanno tutti gli assidui frequentatori dei bar e delle bettole più infami, il due è la carta di minor valore. Quella di picche, vale poi minus quam merdam. Per cui, a una persona che non conta nulla, a cui nessuno dà importanza, destinata a perdere nel confronto con chiunque altro, si può dire "due di briscola" e farlo sentire ancora di più un verme e una nullità. Non infierite troppo, però, se no quello si va a impiccare dalla disperazione.



EBETE
Deriva da una parola latina che significa "spuntato". Siccome le armi spuntate non colpiscono più il bersaglio, si è passati a usare questo termine per indicare una persona che non arriva a capire le cose, che è privo di acume mentale. Insomma, uno stupido, un ottuso, un imbecille: qualcuno che vi ascolta come un allocco mentre voi gli parlate, ma non dà segno di afferrare ciò che gli dite. Voi siete arrivati a capire questa spiegazione? No? Allora siete proprio degli èbeti!

ENERGUMENO
Occhio, ragazzi! Questa è un'offesa pericolosa! Perché? Ve lo spiego subito: deriva dal greco energumenos, che significa "indemoniato, ossesso", e si usa per indicare un individuo manesco, che dà spesso in escandescenze, un violento privo di cervello ma dotato di forza bruta. Per questo, se avete davvero davanti un energumeno, e gli dite appunto che è un energumeno, quello darà in escandescenze e vi menerà facendovi provare tutta la sua forza bruta.



EUNUCO
Dovete sapere che un tempo, in Oriente, i ricchi maragià, sultani, califfi e compagnia bella, avevano un harem di decine di mogli a loro disposizione e tutte le sere potevano decidere di andare a letto con una diversa. Se questo era il vantaggio, lo svantaggio consisteva nel fatto che una schiera di belle ragazze di quella fatta attirava gli uomini come il miele attira le mosche, e le ragazze stesse non erano certo soddisfatte di avere un solo marito da dividere in trenta, per cui sarebbero state ben contente di ricevere nottetempo la visita di amanti occasionali. Appunto per questo, occorreva che ci fossero dei sorveglianti a vigilare e impedire che i maragià e i califfi fossero cornificati. Alle mogli, però, non sarebbe parso vero di avere dei robusti soldatoni come guardie del corpo, e il corpo glielo avrebbero fatto guardare parecchio da vicino: così i mariti pensarono bene di eliminare questo inconveniente e ...zac! cominciarono a tagliare gli attributi ai sorveglianti in modo che non potessero usarlo con le assatanate spose dell'harem. Eunuchos in greco vuol dire, appunto, "custode del letto". Così, si può dire "eunuco" come offesa per dare a qualcuno dell' impotente, privo di attributi maschili, fiacco, inetto. Sempre sperando che quello sia impotente davvero e non vi dimostri la sua virilità sulla vostra sorella o sulla fidanzata. O peggio ancora, su voi stessi.


FARABUTTO
Il termine "farabutto" deriva dal tedesco, e questo potrebbe bastare a far capire quanto possa essere offensivo. Si sa, infatti, che le parole tedesche suonano come insulti anche quando sono complimenti. Se incontrate un tedesco la mattina, quello vi dice: "Guten tag!", che vuol dire buongiorno, ma a sentirlo sembra che vi abbia mandato a fanculo. Se siete un fanciulla e un tedesco vi dice: "Ich lieben dich", significa che vi ama, ma suona come se dicesse che gli provocate l'urto del vomito. Nell'antica lingua germanica, freibeuter significava "predone, brigante, corsaro". L'adattamento italiano vuol dire ancora peggio: canaglia ributtante, persona vile e sleale, capace delle azioni più turpi e spregevoli.


FAVA
Le fave sono ortaggi dotati di baccello, come i fagioli. La forma allungata di questo baccello è da sempre stato paragonata all'attributo maschile. Chissà come mai, però, i nomi dei genitali vengono comunemente usati come insulto: dire a uno "cazzone" non significa complimentarsi con lui per le dimensioni del suo membro virile, ma vuol dire dargli dell'imbecille. Allo stesso modo, considerare una "fava" a un vostro avversario significa ritenerlo uno stupido. Però, volete mettere l'effetto che fa dire "stupido" a qualcuno con quello che fa il gridargli "fava"?


FESSO
Scommetto che non sospettate un collegamento fra la parola "fesso" e il sesso femminile. Anzi, si chiamano fessi proprio quelli che con le donne non riescono a combinare nulla. Invece il collegamento c'è, dato che questo termine deriva dal latino fissus, cioè "che presenta una fessura". La fessura per antonomasia è naturalmente quella da cui tutti siamo venuti al mondo, e infatti in molte zone del Sud si dice "fessa" o "fissa" per indicare proprio quel punto del corpo femminile. Come abbiamo detto prima parlando della "fava", è uso comune utilizzare i nomi dei genitali per indicare persone ottuse e lente di comprendonio (un altro esempio è: coglione). Così, "fessa" è stata usata anche al maschile, per dare dell'imbecille e dello scemo. Come vedete, gli insulti non fanno distinzione di sesso!

GRULLO
Il verbo "grullare", anticamente, significava "muoversi ondeggiando", andare in qua e là come il batacchio di un orologio a pendolo. Il grullo è dunque una persona che si lascia convincere e imbrogliare da tutti, va dovunque lo chiamino senza capire chi lo sta prendendo in giro. Si tratta di un'offesa molto usata dai toscani per dire tonto, babbeo, minchione. Fuori della Toscana si sente dire meno frequentemente, per cui consigliamo ai toscani di non usarla, e a tutti gli altri di farne man bassa (magari proprio contro i toscani).




IMBRANATO
Chi sono gli imbranati? Dei buoni a nulla che non sanno togliersi d'impaccio, non riescono a districarsi nelle situazioni, sono goffi e incapaci. Detta così, questa parola pare essere un'offesa tutto sommato abbastanza benevola. Pare, ma non è: in realtà all'origine di tutto c'è il francese bran che significa "sterco". L'imbranato è dunque uno immerso nella cacca fino al collo, e che appunto per questo non riesce a muoversi per liberarsi. Sapendo ciò, a dire "imbranato" a qualcuno c'è molta più soddisfazione.


LACCHE'
Se avete visto qualche film in costume ambientato nel Seicento o nel Settecento, avrete senz'altro notato che i signorotti dell'epoca (quelli tutti coperti di trine, imbellettati in faccia e con un parruccone bianco sulla testa), avevano dei ridicoli paggetti in livrea che li seguivano passo passo, pronti a eseguire ogni loro ordine. Questi servitori venivano chiamati "lacchè". Se il signorotto diceva: "lustrami le scarpe", subito il lacchè scattava e lavorava di gomito. Se il signorotto diceva: "Porgimi la sputacchiera", subito il lacchè partiva in quarta per prendere il recipiente e farci sputare il padrone. "Grattami la schiena", "scaccolami il naso", "fammi fare pipì": qualunque cosa chiedesse il padrone, il lacchè obbediva senza battere ciglio. Così, potete chiamare lacchè persone viscide e servili, che abbassano il capo nei confronti dei datori di lavoro, degli insegnanti o di altre autorità.

LATRINA
"Latrina" vuol dire "cesso". Però, "cesso" è una parola che suona bene, "latrina" invece è una parola che suona male, dà fastidio al solo sentirla. Deriva dal verbo "lavare", che in passato ha dato origine prima a lavatrina, poi a "latrina" punto e basta. Sicchè, un tempo, la latrina era il luogo dove ci si lavava. Dato che però la vasca da bagno è sempre messa insieme al gabinetto, la gente ha cominciato a fregarsene della vasca e a dire "latrina" per indicare il cesso. Pertanto, se avete già offeso qualcuno chiamandolo "cesso" e "gabinetto", chiamatelo anche latrina così non ci pensate più.

LAZZARONE
Lazzaro, come tutti sanno, è un personaggio ricordato nei Vangeli. Quello che non molti ricordano, però, è che di Lazzari ce ne sono due: uno, è il tale resuscitato dai morti; l'altro, quello che ci interessa in questo momento, è il protagonista di una parabola di Gesù. Questa parabola parla di un mendicante affamato che va a bussare alla porta di un ricco crapulone, il quale banchetta allegramente, fregandosene del poveraccio che langue fuori della sua soglia. Siccome il mendicante in questione oltre che stracciato era anche coperto di piaghe, nel medioevo, in Italia, si cominciò a usare il nome "lazzaro" per indicare i lebbrosi e gli appestati (da qui il termine "lazzaretto", che indica il luogo dove venivano scaraventati i malati durante le epidemie di peste); in Spagna, invece, lazaro designò chi era cencioso e pezzente. I soldati spagnoli che nel Seicento occupavano Napoli, chiamavano in questo modo i napoletani insorti contro di loro agli ordini di Masaniello. E' il significato spagnolo quello che si è tramandato fino a noi: dare a qualcuno del "lazzarone" significa infatti dirgli pezzentone, straccione e buono a nulla (e non lebbroso o appestato, cosa che sarebbe ancora più offensiva).

LERCIO
"Lercio" deriva dal latino hircus, che vuol dire "caprone". E con questo abbiamo già detto tutto, perché paragonare con un'offesa un uomo a un caprone vuol dire dargli del puzzolente, del sozzo, dello schifoso e chi più ne ha più ne metta. Come se non bastasse, "lercio" è una di quegli oltraggi che c'è soddisfazione a dire, perché pronunciandoli la bocca si atteggia in un'espressione di disgusto che serve a caricare ancora di più il significato dell'ingiuria.






LOFFIO
Scusatemi se sarò triviale, ma per spiegarvi il significato di questa parola devo parlarvi di peti. Come certo saprete (so che in questo campo non vi devo insegnare niente), ce ne sono alcuni fragorosi come cannonate e rimbombanti come rombi di tuono. Altri, invece, silenziosi e sottili come sibili. I primi sono coraggiosi e pieni di carattere: chi li fa, si riconosce subito. I secondi, invece, sono perfidi e subdoli e non di rado anche più fetidi degli altri: però, non sai mai a chi dare la colpa. Ecco: la parola "loffia", in molte parlate regionali, indica appunto quest'ultimo tipo di peto. Trasformato in aggettivo, "loffio" significa floscio, insulso, inespressivo, ambiguo. Insomma, meglio far fragore.


LURIDO
Presso gli antichi romani, luridus non significava schifoso e repellente, ma solo "giallastro", "livido", "smorto". Siccome questi colori erano quelli dei cadaveri, ecco che in italiano la parola ha in sé un senso di disgusto. Per noi, però, la colorazione livida e giallastra della persona a cui diamo del lurido non deriva tanto dal fatto che sia defunta, quanto dal fatto che sia sporca. In senso fisico, ma anche morale. In ogni modo, chi è lurido, sia perché è depravato, sia perché è sporco, sia perché è morto, fa sempre un po' schifo.


MAMMALUCCO
Nello spiegare l'origine di molte offese, abbiamo fatto spesso riferimento ad antiche parole latine o greche. Questa volta, invece, la parola è araba: mamluk significa "schiavo". Se vi ricordate ciò che dicevamo degli eunuchi, sapete già che i ricchi saraceni avevano harem di decine di mogli, fatte sorvegliate da degli schiavi a cui (perché non tuffassero sulle fanciulle come topi sul formaggio) venivano tagliati gli attributi. Così, mettendo insieme l'idea di schiavo con quella di impotente, si arriva in italiano al significato di "sciocco", "scimunito", "deficiente": ciò, soprattutto, grazie alla buffa assonanza di "mammalucco" con "allocco" e "mammone".


MARIUOLO
Maria, tutti lo sanno, è il nome della Madonna. Cosa c'entra la Vergine con un insulto destinato a designare un furfante, un disonesto, un imbroglione? E' presto detto: anticamente, quando le donne non godevano di pari dignità rispetto agli uomini, nelle chiese c'erano delle zone, recintate da balaustre, dove solo i maschi potevano entrare. Oggi per fortuna non è più così, anche se il sacerdozio resta ancora una prerogativa rigidamente maschile. In passato, i pregiudizi contro le donne erano così forti che, addirittura, nelle sacre rappresentazioni si preferiva far interpretare a un uomo il ruolo della Madonna. Così, succedeva che dei ceffi dediti fino al giorno prima al vizio e al malaffare, si vestissero con abiti femminili e recitassero la parte dell' Immacolata, fingendo atteggiamenti pii e devoti che non erano certo i loro. Da questa usanza deriva il termine "mariuolo", cioè "colui che fa la Maria": appunto uno che truffa e imbroglia.

MEGERA
Chi sono, secondo la mitologia, le Erinni? Si tratta di tre mostruose creature, spiriti femminili della vendetta: nacquero dal sangue di Urano che cadde sulla terra quando il figlio Crono lo castrò, e come inizio non è male. Direte: che c'entra la parola "megera" con le Erinni? C'entra, perché le erinni erano tre: Aletto, detta "l'implacabile", Tisifone, "la vendicatrice", e appunto Megera, "la maligna". Avevano ali di pipistrello, occhi iniettati di sangue e serpenti nei capelli. Pensate un po': un giorno, Megera si innamorò di un pastore chiamato Citerone che, brutta com'era, non se la filava nemmeno di striscio. Lei, allora, si tolse un serpente dai capelli e lo lanciò contro il giovane, che fu strangolato dal rettile. Conoscete qualcuna brutta, maligna e vendicativa? Bene: è proprio una megera!



MARRANO
Si sa che quando gli arabi dicono che una cosa è proibita, è proibita davvero. Prendete per esempio la carne di maiale: Maometto ordinò di non mangiarla, e da quel dì gli arabi non hanno più assaggiato una fetta di prosciutto. Se gli mettete davanti un piatto di salsicce in umido o di porchetta arrosto, quelli fuggono a gambe levate. Mahran, in arabo, vuol dire appunto "cosa proibita", e pertanto da guardare con disgusto, da starne alla larga. Gli Spagnoli, dopo essersele date di santa ragione con i musulmani e cacciati in malo modo fuori dalla penisola iberica, cominciarono a storpiare questa parola e a chiamare "marrani" in senso dispregiativo quei seguaci di Maometto che, per poter restare in terra di Spagna e sfuggire alle persecuzioni, si convertirono al Cristianesimo. E Marrani furono chiamati anche gli Ebrei, convertiti a forza per gli stessi motivi. Gente da disprezzare, voltagabbana e opportunisti, dicevano gli Spagnoli. Poveri marrani, diciamo noi, costretti a cambiar religione per tirare a campare. Perlomeno, si potevano consolare mangiando prosciutto e salsicce.

MATUSA
Matusa è l'abbreviazione di Matusalemme: costui, racconta la Bibbia, era il nonno di Noè e visse fino a 969 anni. Sembra una barzelletta ma è vero: lo racconta il libro della Genesi, nel capitolo quinto, se non ci credete andate a leggere. Il nonno di Matusalemme di si chiamava Iared, e anche lui visse 962 anni. Il babbo di Matusalemme, tale Enoch, invece campò soltanto 365 anni e quando morì tutti piansero dicendo: "poverino, era ancora così giovane". Il primo figlio, Matusalemme lo fece a 187 anni: prima, sentendosi giovincello e scapestrato, aveva pensato soltanto a divertirsi. Questo figlio si chiamava Lamech: costui generò Noè, e visse in tutto 777 anni. Noè, dal canto suo, campò fino a 950 anni. Come si vede, era una famigliola di gente piuttosto longeva, ma Matusalemme è stato il più longevo di tutti: perciò, dare a qualcuno del "matusa" significa dirgli che è vecchio come il cucco, antiquato, arretrato, con idee polverose e sorpassate.


MICROBO
Il vocabolo greco mikros signfica "piccolo", e lo si capisce per il fatto che le parole italiane costruite su di lui fanno tutte riferimento a cose di ridotte dimensioni: il microscopio serve per vedere oggetti piccolissimi, i microcefali sono quelli con la testa più piccola del normale, il microsolco è una leggerissima incisione sul vinile dei dischi e così via. Un'altra parola greca, bios, vuol dire invece "vita": infatti la biologia è lo studio delle forme di vita. Mettendo insieme mikros e bios, si ottiene microbo: il significato vi sarà chiaro, se non siete microcefali (tanto per restare in tema e suggerirvi contemporaneamente un altro bell'insulto): microbo vuol dire "piccola forma di vita". I microbi sono microrganismi invisibili a occhio nudo, creature elementari e di infimo livello. Pertanto, dire a qualcuno che è un microbo significa dargli dell'essere insignificante. Pensate alla soddisfazione di allontanare un tale con uno spintone e dirgli con disprezzo: "Scòstati, microbo". Occhio però a scostare così solo dei mingherlini che siano microbi per davvero, perché se lo fate con energumeni nerboruti o con cinture nere di karate sarà la vostra vita a essere ridotta a un infimo livello.



MOLLUSCO
I molluschi sono animali dal corpo molle, privo di scheletro. Sono divisi in cefalopodi, gasteropodi, scafopodi e lamellibranchi e già queste parole fanno schifo a pronunciarle. Sono molluschi le lumache viscide e bavose, per esempio. Il fatto di non avere ossa a sostenere il corpo, rende queste bestiacce adattissime per essere utilizzate come ingiuria per persone senza carattere, vigliacche, pavide, imbelli. Se poi chiamare qualcuno "mollusco" non vi dà abbastanza soddisfazione, scendete nel particolare e chiamatelo con i nomi detti prima: dare del "cefalopode" a un avversario, per esempio, potrebbe fargli più male di un calcio negli stinchi o di una gomitata nei denti.


NAUSEABONDO
In greco, naus vuol dire "nave". Quando c'è il mare mosso, chi non è abituato ad andare in barca comincia a sentire fastidio allo stomaco e vomita anche l'anima. Perciò si dice che prova la "nausea", cioè la sensazione tipica del mal di mare. Ma anche sulla terraferma ci possono essere persone che appena le vedete vi ispirano l'urto del vomito. Sono appunto le persone "nauseabonde", in grado di indurre fastidio e ripugnanza o per il loro odore, o per il loro aspetto o per il loro comportamento. Se le vedete, vomitate pure. Addosso a loro, naturalmente.

OBBROBRIO
Ci sono alcune parole che suonano offensive anche senza conoscerne il significato. Obbrobrio è una di queste. Per esempio: fermate la prima persona con il fisico da scaricatore di porto e l'aria ottusa da gorilla che passa per la via, e ditegli: "Opale!" (che il nome di una pietra). Lui vi guarderà scettico e risponderà: "Boh! Ma che vuoi?" proseguendo per la sua strada. Questo perché "opale" non suona offensivo. Ditegli invece: "Obbrobrio!" e lui vi tirerà il collo, vi caverà tutti i denti di bocca e vi strapperà uno a uno le setole che avete in testa. Non perché sappia quel che vuol dire "obbrobrio", ma perchè è una parola che suona proprio come un'offesa. Provare per credere. Ah, dimenticavo: obbrobrio si dice di una cosa che suscita repulsione e disgusto.


OSTROGOTO
Gli Ostrogoti (cioè, i "Goti dell'Est") erano un popolo barbaro che ai tempi dell'Impero Romano abitava oltre il Danubio e che a un certo punto decise di venire a fare casino in Italia. Anche se non fecero il danno di Attila, erano pur sempre incolti e incivili rispetto ai latini, e parlavano una lingua incomprensibile. Del resto, gente che si chiama con un nome così brutto come "ostrogoti", che ti viene il catarro alla gola solo a pronunciarlo, come poteva parlare una lingua dolce e musicale? Per fortuna, oggi possiamo chiamare in questo modo chi si mostra ignorante e insensibile all'arte e alla cultura, chi ha dei modi vandali e barbari, o chi farfuglia un idioma o un dialetto confuso e indecifrabile: è ostrogoto, appunto.


OTTENTOTTO
Quando gli olandesi andarono a colonizzare il Sud-Africa e posero i loro insediamenti presso il Capo di Buona Speranza, cominciarono a chiamare "Ottentotti" la popolazione indigena composta da negri simili ai boscimani. Scelsero un nome così ridicolo proprio per deriderli, e se si fossero limitati a prenderli in giro forse l'avremmo anche potuto accettare, dato che siamo sostenitori e fautori dell'arte dello sberleffo. Il male è che la colonizzazione ha portato alla quasi totale scomparsa dei poveri Ottentotti, di cui oggi restano soltanto pochi superstiti. A parte la storia, amara fin che si vuole, il nostro vocabolario (che evidentemente parteggia più per gli olandesi che per gli indigeni) conserva il nome della tribù come quello di persone primitive, rozze e incolte. Offendete dunque i tipi del genere chiamandoli "ottentotti"! Certo, potrebbero offendersi i veri ottentotti, ma stanno così lontano e sono così pochi che non c'è pericolo di vederli arrivare imbestialiti con le lance e con gli scudi.


PACHIDERMA
L'elefante, l'ippopotamo e il rinoceronte sono tre pachidermi, cioè animali coperti da una pelle simile a una corazza (in greco antico, derma significava "pelle" e paki voleva dire "spessa"). Oltre alla particolare epidermide, queste bestie hanno una mole notevole, una andatura goffa e pesante e sono pure piuttosto brutte. Imponenti quanto volete, ma brutte. Ora, se conoscete una persona corpulenta, impacciata nei movimenti, che fa tremare il pavimento a ogni passo e rovescia i vasi da fiori tutte le volte che gira il sederone, potete chiamarla pachiderma. Allo stesso modo, chi non ha sensibilità né finezza psicologica nei rapporti con gli altri può assomigliare a un pachiderma, che ricoperto com'è dalla sua pellaccia ruvida risulta insensibile e privo di tatto.


PAGLIACCIO
Siccome i clown usano presentarsi al pubblico con abiti assai più larghi della loro reale corporatura, che in passato venivano imbottiti di paglia per apparire più gonfi, è stato affibbiato loro il nome di "pagliacci". Finchè sono i clown a fare i buffoni e mostrarsi vestiti ridicoli per far scompisciare dalle risate, va tutto bene. Capita però, a volte, di vedere gente che si comporta e si veste in modo assurdo pensando magari di essere fine ed elegante; oppure tipi buoni solo a far ridere senza avere un minimo spessore in quanto a personalità e dignità. In ambedue i casi, questi buffoni suscitano ilarità e derisione e si meritano proprio l'appellativo di pagliacci. La paglia, invece di averla a imbottire gli abiti, ce l'hanno a imbottire il cervello.


PEZZENTE
Chi è molto tirchio, oppure chi è molto povero, preferisce rattoppare i propri abiti piuttosto che comprarne di nuovi. Perciò va in giro con le famose "pezze al culo" e viene chiamato "pezzente". Però, c'è anche chi sostiene (e forse a ragione), che non ci siano le pezze o le toppe all'origine di questa parola: in realtà, "pezzente" deriverebbe dal latino volgare petiens, cioè "colui che chiede". Chiede l'elemosina, naturalmente, non certo informazioni sulle quotazioni di borsa (perchè chi le chiede, raramente è un pezzente). Comunque sia, dire "pezzente" a qualcuno equivale a dargli dello straccione e dell'accattone, oppure dello spilorcio.


PIAGA
La piaga si differenzia dalla ferita (benché sia grossomodo la stessa cosa) perché la ferita si rimargina in un ragionevole lasso di tempo, mentre la piaga continua a rimanere aperta e a far male per un periodo molto lungo. Un vero tormento, insomma. Proprio come certe persone lagnose e moleste, di cui non c'è verso di liberarsi: sono delle piaghe! Siccome questa parola deriva dal greco plaghè, che vuol dire "percossa", l'etimologia suggerisce anche la soluzione del problema: prendete a percosse gli individui queruli e insistenti che vi assillano, fino a che non capiranno l'antifona e si terranno a distanza di sicurezza. Un minimo di sana violenza e vi sarete liberati dalle piaghe!

QUADRUMANE
Si dicono "quadrumani" tutti gli animali che abbiano quattro organi prensili paragonabili alle mani: in particolare, le scimmie. Infatti, babbuini e scimpanzé penzolano dai rami degli alberi aggrappandosi indifferentemente con le mani o con i piedi, che per loro fa lo stesso. Ragion per cui, potete chiamare così tutte le persone di vostra conoscenza che siano dinoccolate in maniera scimmiesca, magari anche brutti, pelosi e goffi nei movimenti. A chiamarli "scimmia", infatti, c'è poca soddisfazione; ma a dire loro "quadrumane" le cose cambiano!



RAGANA
Ecco un insulto tipicamente maschilista: "ragana" si dice di una donna brutta come un rospo, però è il femminile di "ragano", nome dialettale del ramarro, rettile che in effetti fa abbastanza schifo a vedersi. Mi chiedo: perché, se ragano e ramarro sono due maschili, nessuno li usa per insultare gli uomini? Eppure, di maschi brutti come rospi ce ne sono in giro in quantità industriale. Niente da fare, ragano non si dice, ragana sì. Del resto, però, dove sta scritto che non si dice? Ditelo voi per primi, e lanciate una nuova moda! Anche l'arte dell'ingiuria ha bisogno della sua avanguardia!



ROGNOSO
La rogna è una malattia della pelle che può colpire gli uomini (e allora si chiama anche scabbia) ma che frequentemente becca gli animali, in particolare i cani. Chi ha la rogna, deve grattarsi in continuazione perché sente un prurito insopportabile, come se avesse le pulci, ma la cosa peggiore è che può facilmente contagiare gli altri. Per cui, chi è rognoso porta guai e va tenuto lontano. Quindi, chiamate "rognosi" i rompicoglioni che vi scassano l'anima, e tutti quelli che vi procurano beghe e fastidi di ogni genere. Scommetto che ne conoscete parecchi di tipi del genere... oh, se ne conoscete!


SCORFANO
Lo scorfano è un pesce che vive mimetizzato tra il fango dei fondali marini in prossimità delle coste. E' brutto come il peccato, con la sua forma tozza, la bocca enorme e gli aculei velenosi che ha sul capo e sul dorso. Come se non bastasse, non è neppure buono da farsi arrosto o fritto in padella, per cui fa schifo anche ai cani. La sua presenza nell'ordine creato è giustificata, comunque, almeno da una cosa: infatti, il suo nome può essere utile come insulto rivolto verso persone dall'aspetto orrendo, brutte e malfatte. Non vi preoccupate se non tutti sanno che cosa sia lo "scorfano": è una parola che suona offensiva semplicemente a dirla, e nessuno la scambierà per un complimento. Quindi, ditela!


STOCCAFISSO
Lo staccafisso è il merluzzo fatto seccare all'aria, appeso a delle impalcature di bastoni costruite in riva al mare. La parola deriva infatti dall'olandese stokvis, composto di stok (che vuol dire "bastone") e vis (che vuol dire "pesce"). Che "stok" voglia dire "bastone" è facile da capire, perché se prendete un bastone e lo tirate in testa a qualcuno, il rumore è appunto: stok! A parte queste considerazioni linguistiche fatte nel vano tentativo di migliorare la vostra cultura da analfabeti, l'aspetto dello stoccafisso è quello di filetti di pesce bianchicci, lunghi e secchi. Ragion per cui, potete chiamare così tutti i tipi allampanati, smunti e rinsecchiti di vostra conoscenza.


STRAZIO
Che collegamento c'è fra le persone che sono distratte e quelle che sono uno strazio? Semplice: sia la distrazione che lo strazio sono parole derivanti dallo stesso vocabolo latino: distrahere, che significa tirare qualcosa da una parte e dall'altra. Infatti, chi si distrae è perché la sua attenzione è attirata altrove; e chi subisce uno strazio si sente il cuore lacerato come se glielo tirassero per strapparglielo. Ora, ci sono persone la cui vicinanza provoca un tale fastidio da essere proprio strazianti: in altre parole, sono uno strazio! Se le vedete da lontano, cercate di evitarle facendo finta di non vederle, cioè facendo i distratti. Ma se non riuscite a starne lontani, allontanatele voi senza tanti giri di parole, dicendo chiaro e tondo quel che pensate di loro!


TAFANO
Nelle nostre comode case di città, le uniche bestiacce repellenti che rischiamo di incontrare sono gli scarafaggi, le mosche e le sorelle. Ma in campagna è tutta un'altra cosa: lì, rettili e insettacci orrendi sbucano fuori in continuazione da tutte le fessure. Nelle vecchie abitazioni dei contadini, gechi, ramarri, millepiedi, scorpioni, ragnacci mostruosi vanno e vengono come se facessero lo struscio per le vie del centro. In mezzo a questa schifosa compagnia, ci sono anche i tafani, i parenti cattivi delle mosche. Infatti, mentre le mosche sono in fondo animali domestici che mangiano i nostri avanzi, i tafani succhiano il sangue delle mucche e dei cavalli, e non disdegnano di assaggiare anche il nostro. Come se non bastasse, le mosche sono piccole e si ammazzano con un po' di insetticida, i tafani invece sono grossi come passeri e così resistenti che per ammazzarli bisogna prenderli a revolverate. Di simile alle mosche, oltre all'aspetto, i tafani hanno l'insistenza: per quanto vengano scacciati, tornano sempre a ronzare intorno alle loro vittime. Proprio come certe persone fastidiose, moleste, importune, di cui non c'è modo di liberarsi.

TANGHERO
Quando qualcuno dice di essersi ispirato ad Alessandro Manzoni, si può pensare che abbia tratto dall'opera del sommo scrittore un esempio di bello stile o di grande poesia. Invece, si può ispirarsi al Manzoni anche per scagliare insulti e improperi contro qualcuno che ci sta sull'anima. Infatti, ecco come l'autore de "I Promessi Sposi" inveisce pittorescamente in una sua opera: "Tangheri, che volete girare il mondo senza sapere da che parte si levi il sole"! Contro chiunque ce l'avesse, l'Alessandro nazionale voleva dir loro che erano persone ottuse, rozze e ignoranti, zotiche e villane. E per farlo, suggerisce l' insulto migliore: tangheri! Bravo Manzoni, lui sì che sa scrivere! Prendete esempio, ragazzi... prendete esempio!




TONTO
A volte è complicato spiegare l'origine di una parola, però ne vale la pena perché si capisce meglio che cosa vuol dire, e trattandosi di un' offesa c'è più gusto nel proferirla. "Tonto", per esempio, deriva dal latino attonitus, cioè attonito, sbigottito. E sapete perché vuol dire sbigottito? Perchè sua volta attonitus deriva da tonus, che vuol dire tuono. In altre parole, figuratevi un fulmine che si schianta fragorosamente vicino a una persona: costui rimane frastornato, rintronato, confuso, e per qualche minuto è rincoglionito a tal punto da non capire neppure quel che gli è successo. Se però uno non è stato colpito da nessun fulmine ed è rincoglionito in pianta stabile, beh... è proprio un tonto!



TROGLODITA
I trogloditi erano gli abitanti delle caverne, gli uomini preistorici. Tempo fa fu trovato in Africa lo scheletro di una donna dell'età della pietra, a cui fu dato il nome di Lucy. Nome piuttosto grazioso, ma a vedere la ricostruzione delle sue fattezze prospettata dagli scienziati c'è da storcere il naso e strabuzzare gli occhi: era una sorta di scimmiona brutta e pelosa, e presumibilmente anche puzzolente. Questo perché sarebbero occorsi milioni d'anni di evoluzione per passare da Lucy a Kim Basinger. Alcuni nostri contemporanei, però, sembrano non essersi affatto evoluti, e sono rimasti allo stadio dei nostri antenati. Non solo per l'aspetto, ma anche per i modi da cavernicoli che ancora manifestano mostrandosi rozzi e primitivi, ignari delle più elementari norme di convivenza civile. Gente, insomma, che avesse una clava ve la tirerebbe in testa, e da chiamare con il nome che si meritano: trogloditi!



UGGIOSO
"Uggia" deriva dalla parola latina udia, che vuol dire "umidità". E difatti, quando c'è umido nell'aria e la nebbia agli irti colli piovigginando sale, il tempo mette addosso uggia e si dice che la giornata è uggiosa. L'umidità fa venire i dolori reumatici, le giunture scricchiolano, i calli cominciano a dolere, si buscano i raffreddori. Al di là dei fenomeni meteorologici, l'uggia la danno anche certe persone fastidiose, petulanti, insistenti, noiose: insomma, la danno i tipi uggiosi, quelli che, se sono ad aspettarci in casa, pur di non incontrarli saremmo anche disposti a restar fuori nella nebbia piovigginosa, a beccarci tutto l'umido di questo mondo!



VAGONE
I mezzi di trasporto non di rado sono belli a vedersi. Le automobili, per esempio, affascinano per la loro linea (eccezion fatta per le Prinz e le Duna, che fanno proprio schifo). Così gli aerei, i motoscafi, i sommergibili, perfino diligenze e le locomotive del Far West. I vagoni, invece, proprio no. Un vagone è un vagone: potrà essere dipinto con vernici metallizzate e colori sgargianti, ma sarà sempre un vagone: un coso ingombrante, pesante e fatto a scatola. Se poi è un vagone delle ferrovie italiane sarà anche puzzolente, lercio e sferragliante. Potete perciò chiamare "vagone" tutte quelle persone grosse, massicce che quando si avvicinano fanno tremare il pavimento come se lì vicino stesse passando il treno.



VANDALO
I popoli barbari che distrussero l'Impero Romano a cavallo fra la terza e la quarta elementare, avevano proprio dei nomi adatti. "Ostrogoti" e "Visigoti", per esempio: solo a pronunciarli uno se li immagina brutti, sporchi e cattivi. Anche mia nonna, se sente nominare "Unni" e "Burgundi", pur non sapendo chi erano, capisce subito che si tratta di gente poco raccomandabile e si fa il segno della croce. A sentir dire "Vandali", poi, non sussiste dubbio alcuno: difatti, nel 455 i Vandali disfecero mezza Italia e saccheggiarono Roma, distruggendone i monumenti più belli. Ancora oggi ne è rimasto il ricordo, e chi danneggia le cose altrui senza alcun motivo, solo per ignoranza, stupidaggine e mancanza di sensibilità, viene chiamato vandalo.



VIGLIACCO
Sapete perché è più bello dare a qualcuno del "vigliacco", anzichè semplicemente del "vile"? Perché dicendo '"vigliacco" dite due offese al prezzo di una! Infatti, "vile" significa semplicemente "cosa di poco conto" (e per estensione persona che non vale niente, che non ha coraggio), ma "vigliacco" unisce questa parola italiana con un'altra spagnola, bellaco, che significa "ribaldo". Dunque, chi dice "vigliacco", dice "vile" e "ribaldo" al tempo stesso. Dato che alla lettera R "ribaldo" non ve l'ho spiegato, lo faccio adesso: significa furfante, uomo di malaffare, delinquente. Sembra che derivi da "rubare", tant'è vero che in passato si scriveva addirittura "rubaldo". Se poi conoscete un tale Aldo che ruba, è solo un caso: non c'è nessun collegamento.



VILLANO
Al giorno d'oggi, se pensate a qualcuno che abita in uno squallido condominio popolare di un quartiere-ghetto di una metropoli, vi immaginate il classico proletario sbracato e volgare; mentre invece se pensate a uno che abita in una villa di campagna vi immaginate un ricco benestante, colto, pulito, raffinato e ben vestito. Eppure, una volta era proprio il contrario: la "villa" era il lercio casolare di campagna dove alloggiavano i contadini; i ricchi abitavano in città. Appunto per questo è rimasto il modo di dire: "villano", cioè abitante della campagna, zoticone privo di garbo e di creanza, con gli scarponi ai piedi e puzzolente di letame. Ciò non toglie che molti ricchi proprietari di ville, nonostante i loro quattrini, siano più villani dei poveri abitanti dei condomini di città.



VOLTAGABBANA
La "gabbana" era il giaccone, o il pastrano, indossato dalla povera gente di un tempo. Tanto povera che spesso, quando questa giacca era lisa da una parte, veniva scucita e rivoltata in modo da lasciare all'interno il lato consumato: in questo modo, l'indumento durava il doppio. Questo modo di fare ha dato origine a un modo di dire: infatti, sapendo che le giacche si possono rivoltare e dunque possono cambiare colore in poco tempo, si può supporre che qualcuno possa esporre il lato più adatto ad ogni circostanza. Per opportunismo e convenienza, un po' dappertutto la gente cambia il proprio atteggiamento a seconda dei vantaggi che può riceverne: per esempio, se c'è un nuovo sindaco in Comune, tutti quelli che sperano di averne dei favori fingono di essere simpatizzanti del suo partito anche se invece fino a ieri erano di un altro. Gente vigliacca... e voltagabbana, appunto!

ZANZARA
Di bestie rompicoglioni ce ne sono a bizzeffe, dal cane del vicino che ulula di notte ai piccioni che vi fanno la cacca sull'automobile appena lavata. Ma la bestia più rompicoglioni di tutte è di sicuro la zanzara, che nelle sere d'estate ci impedisce di dormire ronzandoci fastidiosamente attorno alle orecchie. Non contenta di tempestarci di punture e riempirci di bubboni, la zanzara gode nel vederci schiaffeggiare da soli, nel vano tentativo di schiacciarla. Se poi a schiacciarla ci riuscite davvero, non c'è proprio di che rallegrarsene: queste bestiacce non ronzano mai da sole ma si spostano in sciami: eliminata una, ce ne sono pronte altre centomila! E' chiaro come il sole, insomma, perché si può chiamare "zanzara" una persona noiosa, insopportabile, insistente e molesta!



ZOTICONE
Anche "zotico" è una di quelle offese che danno due insulti al prezzo di uno (un'altra - di cui abbiamo parlato sul numero scorso - era, per esempio, "vigliacco"). Infatti, deriva da due parole greche: una è idiotikòs (che significa "idiota"); l'altra è zoikos (che significa "animalesco"). A questo punto, se non siete idioti e animaleschi pure voi, dovreste aver capito che cosa significa: uno zotico è una persona poco intelligente e dai modi di una bestia, grezzi e cafoni. Se poi la persona in questione intelligente non è per niente e i suoi modi sono ancora più bestiali di quelli di una bestia, si può usare l'accrescitivo, che è "zoticone".

ZUZZURELLONE
Per un gioco della sorte, l'ultima, famosissima, parola del vocabolario italiano è proprio un'insulto, e così possiamo chiudere in bellezza anche il nostro Dizionario. Ma che vuol dire, "zuzzurellone"? E' una parola che deriva dal verbo "ruzzare", che vuol dire "giocare in maniera infantile". Se a fare giochi da bambini sono dei bambini, va tutto bene. Ma se c'è qualche adulto che si diverte in continuazione con balocchi e scherzi adatti ai pargoli, avete trovato chi definire con la famosa ultima parola del vocabolario! Non lasciatevi sfuggire l'occasione, e chiamatelo subito come si merita: zuzzurellone!