venerdì 26 luglio 2013

CINEMA AL CINEMA 10





Proseguono le recensioni cinematografiche di Giorgio Giusfredi, mio personale consulente, nonché scrittore, sceneggiatore di fumetti e cuoco. I pareri che esprime sono sua responsabilità, ma di solito li condivido. In ogni caso, i complimenti e le critiche vanno indirizzate a lui.

CINEMA AL CINEMA 10
luglio 2013
di Giorgio Giusfredi


INTO DARKNESS - STAR TREK

Un film di J.J. Abrams. Con John Cho, Benedict Cumberbatch, Alice Eve, Bruce Greenwood, Simon Pegg. Titolo originale Star Trek Into Darkness. Fantascienza, durata 132 min. - USA 2012. - Universal Pictures

Tenendo bene conto che il regista di questo film sarà colui che riporterà nelle sale anche la saga di Guerre Stellari, è inevitabile che da lui ci si aspettasse molto. Aspettative però deluse da una pellicola che sì diverte, sì affronta temi classici come l'amicizia e l'amore, ma li spettacolarizza con trovate visive che ormai sembrano far parte dell’unico settore cinematografico su cui investire ma lasciano come al solito alquanto vuoto lo spettatore che esce dalla sala. Il film, insomma, non aggiunge niente a ciò che di bello la saga dell’Enterprise ci ha fatto vedere. Saltella galleggiando tra i classici topoi che Kirk, Spock e compagni ci hanno abituato frequentare, senza eguagliare e superare capolavori passati. Cosa che, invece, è in dovere di fare un’opera di tali mastodontiche produzioni. Il cattivo funziona grazie all’attore che lo interpreta, come perfetti sono gli attori ingaggiati e già visti nel precedente film sui Trekkers spaziali di J. J. Abrams. Per riassumere l’insoddisfazione derivate da un prodotto buono, ma non ottimo come ci si attende, si potrebbe descrivere la sequenza iniziale. Una fuga, visivamente molto bella: il capitano ha sottratto un manufatto su di un pianeta che ricorda tribù africane, gli indigeni lo inseguono. Fin qui tutto bene. Colori, paesaggi, personaggi, inquadrature: ottimi. Poi, non si capisce il perché, il capitano molla il manufatto e l’astronave che lo aspetta è sott’acqua, quando si sa benissimo che possiede il teletrasporto, e soprattutto, ci viene detto che se il vulcano erutterà il pianeta esploderà. Azioni e affermazioni che lasciano quantomeno perplessi perché prive di verosimiglianza agli occhi di chi guarda. A Hollywood si devono mettere in testa che lo spettatore, anche se frastornato dagli esperti speciali, si rende, consciamente o inconsciamente, conto dei buchi di sceneggiatura. E questi determinano, in maniera universale, la soddisfazione o l’insoddisfazione di chi ha assistito allo spettacolo.


CHA CHA CHA

Un film di Marco Risi. Con Luca Argentero, Eva Herzigova, Claudio Amendola, Pippo Delbono, Pietro Ragusa. Thriller, durata 90 min. - Italia 2013. - 01 Distribution

Il titolo è furbo e la metafora che propone – utilizzata in molti noir del passato – accomuna il ritmo del film a qualcosa di estemporaneo che vi succede. Per esempio, in questo caso, c’è un personaggio secondario che assieme alla sua ragazza si preparano per una gara di cha cha cha. Purtroppo, l'accostamento non funziona. Gli elementi della "detetective story" ci sono tutti: un investigatore triste e solitario a cui ne capitano di tutte, una attrice agèe leggermente nevrotica, un laido cattivo, la polizia corrotta, gli sgherri e i morti ammazzati. Ragazzini morti ammazzati. Questo ultimo punto sembrerebbe sancire, grazie a una ritrovata cattiveria dei cineasti ‘de noatri’, un ottimo punto a favore per la rinascita del genere italiano, ma il film nonostante alcune buone cose non supera la prova, se paragonato con capolavori americani o francesi o, semplicemente, con capolavori italiani del passato. I problemi stanno in alcuni personaggi, specialmente quelli cattivi o semicattivi. Essi sono resi ridicoli sia delle interpretazioni degli attori che dalla sceneggiatura: parlano e si comportano come fossero Pietro Gambadilegno e Macchia Nera. Non si riesce mai a entrare veramente nel tetro mood di cui un film del genere ha necessariamente bisogno e anche il meccanismo giallo è fin troppo smascherato, lontano eoni da trovate geniali come quella di Rollo Tommasi. Di contro la Herzigova recita benissimo, è straordinariamente perfetta nella parte; e alcune scene funzionano molto, segno evidente che il regista può farlo, il noir. Per esempio la lampante citazione della coppia Cronenberg-Mortensen della lotta nuda del protagonista funziona molto e dura anche molto. Il nudo è addirittura, se possibile, più sbandierato e integrale e la violenza si percepisce chiaramente e questo è buono. Argentero sta nel mezzo tra le cose buone e cattive di questo film perché ha dei guizzi, come nella scena sopracitata, ma anche degli ammosciamenti e, lui, può fare molto di più come dimostrato ne "Il cecchino" di Placido. Insomma basta insistere e continuare a produrre film del genere, anche se, già questa pellicola, è stata mal distribuita.



L'UOMO D'ACCIAIO

Un film di Zack Snyder. Con Henry Cavill, Amy Adams, Michael Shannon, Kevin Costner, Diane Lane. Titolo originale Man of Steel. Fantastico, durata 143 min. - USA, Canada, Gran Bretagna 2013. - Warner Bros Italia

La più grande delusione degli ultimi anni. Si potrebbe ricercare i colpevoli di tale fallimento tra i titoli di coda ma la verità è che si parla di un film talmente brutto, noioso e sbagliato che sarebbe difficile distinguerli. È stupefacente poi che abbia avuto un discreto successo; d’altronde la macchina pubblicitaria e i nomi dietro le quinte come garanzia garantivano tanto e quanto il personaggio, l’invincibile Superman. Snyder per esempio aveva proprio inanellato i suoi capolavori trasponendo fumetti su grande schermo, vedi "300" e "Watchmen", e quindi ci si aspettava un altro ottimo lavoro. Ma forse è proprio partendo da questa considerazione che possiamo analizzare cosa è successo. Sia in "300", ma soprattutto in "Watchmen", il regista (indubbio conoscitore e fan del prodotto di partenza) si era attenuto alla regia fumettistica. Soprattutto con l’ucronico capolavoro di Alan Moore aveva ricalcato inquadrature e sequenze, oltre che agli splendidi dialoghi, cambiando solo il finale, ma riuscendo anche in quello. Allora viene da pensare che la colpa sia proprio concettuale a livello di scrittura. Infatti Goyer, lo sceneggiatore, potrebbe essere additato come uno dei principali responsabili del fallimento. La trama fa acqua da tutte le parti. Le scelte di montaggio sono incomprensibili, come incomprensibili sono le soluzioni narrative che ci propinano (muoiono migliaia di persone inutilmente!). Non c’è un personaggio che si salva, né – nonostante il cast stellare – un attore che riesca a farti credere nella parte. Amy Adams, la peggio di tutti, dipinge una Lois Lane insopportabile a livelli siderali, deus-ex machina per ogni problema: ci spiega (guardando in camera!!!) come funziona la propulsione fantasma e come avrebbero, di là a poco, salvato il mondo. Spiegazioni raffazzonate, forzate e spiattellate. Per non parlare di quando, per prima, l’ardita giornalista dal vezzoso, insostenibile naso all’insù, scopre i poteri di Superman passeggiando allegramente in una notte polare a meno quarantotto gradi centigradi con indosso solo un piumino. Le assurde iperboli già viste nella sceneggiatura "Il ritorno del cavaliere oscuro" erano probabilmente frutto della stessa mente. Ma là, Nolan, ci aveva messo più di una pezza. E pensare che, notizia recente, si annuncia la presenza addirittura di Batman nel seguito di questo film. L’unica cosa salvabile, in mezzo all’accozzaglia di niente, sono le immagini di Superman da bambino in posa con una tovaglia a mo’ di mantello, il suo cagnolone vicino con la lingua penzoloni e il tramonto sullo sfondo. Unico momento epico di un film che avrebbe voluto esserlo e non lo è.  




THE LONE RANGER

Un film di Gore Verbinski. Con Armie Hammer, Johnny Depp, Ruth Wilson, Tom Wilkinson, Helena Bonham Carter. Titolo originale The Lone Ranger. Avventura, durata 135 min. - USA 2013. - Walt Disney

Finalmente, in questa mandata di pellicole, un film dal quale traspare garbo e amore per il cinema. Un film divertente con anche qualche trovata interessante. Siamo lontani, ben intendendoci, dal capolavoro western, ma, forse, ormai, con tali blockbuster che pretendono piacere a grandi masse, è difficile che i registi si sbilancino e seguano il loro cuore di estro artistico. Verbinski, comunque, riesce, mediando, a ottenere un prodotto fluido che sicuramente non farà storcere nasi e che, in fondo, è western, divenuto ormai un prodotto di nicchia. Il regista aveva dimostrato di saperlo fare già con Rango, film di animazione. In questo "Lone Ranger" il Mac Guffin (come chiamava Hitchcock il pretesto che fa muovere la narrazione)  è l’avidità. L’avidità che si distingue in due quella pura della ricerca dell’argento e quella, altrettanto classica, che descrive con quanti sotterfugi, scorrettezze, lacrime e sangue sia stata stesa la famosa ferrovia verso ovest negli Stati Uniti. Questi citati sono topoi western che più western non si può. E anche la risma di cattivi presenti si può perfettamente inquadrare nel genere; come alcune scene dell’eroe buono Tonto. Il ranger solitario, invece fa parte dell’edulcorazione necessaria a una pellicola disneyana, ma risulta simpatico anche grazie al grazioso Armie Hammer. Verbinski ci regala dei campi lunghi di fordiana memoria utilizzando al meglio le moderne tecnologie, arricchendo l’immaginario del selvaggio ovest di alcune immagini dettate dalla sua personale visione: inquadrature oblunghe dal basso o dall’alto che accrescono la stima dello spettatore nei confronti del regista perché si chiede come possa avere fatto a girarle. Ci sono anche dei tocchi di "leoniana italianità" come l’uso del Dolly nelle scene di massa e alcune sequenza ferroviarie che non possono che ispirarsi al capolavoro "C’era una volta il West". Anche la fotografia è buona, pure se un po’ di polvere in più non avrebbe guastato. Depp dipinge un altro grande personaggio, gigioneggiando molto meno di quello che ci si aspetta vedendo il trailer. Tonto è diverso da Sparrow, è serio, è drammatico. L’ilarità scaturisce dai suoi fallimenti che, rispetto a quelli del pirata, comportano profonde ferite nell’animo. Tutte le spiegazioni, persino quella del corvo in testa, funzionano e non sono mai didascaliche. Interessante anche la retorica sulle leggende del bandito protagonista: chi dice che mangia i cuori delle vittime, chi le viscere e chi i piedi. A voi  scoprire di quale parte è ghiotto il cattivo. Classico l’oggetto feticcio del film: un orologio a cipolla da due soldi, tassello fondamentale nel puzzle dell’intreccio. I più attenti potranno infatti risolvere subito la trama mistery presente perché, all’inizio, come la buona Agatha Christie insegnava, ci mostrano già la soluzione in un fotogramma. Per dire di più, il fotogramma citato, è seguito dalla comparsa del personaggio interpretato da  un Helena Bonham Carter finalmente in palla e divertente: la maitresse Red – di jodorowskyana memoria – con la gamba d’avorio tatuata che nasconde una micidiale arma alla ‘Planet Terror’. Esaltante la sequenza finale sulle note del Gugliemo Tell di Rossini, già colonna sonora del radioromanzo degli anni trenta da cui era tratto sia il vecchio fumetto che, poi, questo film.

      

sabato 20 luglio 2013

I PADRONI DELLE TEMPESTE



E’ da qualche giorno in edicola il Maxi Zagor n° 20, datato luglio 2013 e intitolato “I padroni delle tempeste”. I disegni sono di uno strepitoso Alessandro Chiarolla, la sceneggiatura è mia ma il soggetto porta la firma di Vittorio Sossi.  La trama, in pochissime parole, è questa. Un rito magico compiuto da quattro giovani stregoni, desiderosi di fermare la morsa di gelo che attanaglia le loro terre, porta altrettanti demoni, in grado di dominare gli elementi naturali – gelo, buio, vento, nebbia – a impossessarsi dei loro corpi. I quattro divengono così creature malvagie, che scatenano i loro poteri. Ma quando uno di loro si ribella, gli altri lo uccidono e cercano di sostituirlo con suo figlio, un ragazzino chiamato Neve d'Inverno, adottato da un trapper bianco dopo la morte del padre e della madre. Zagor deve salvare il bambino, sfuggendo alla caccia di esseri potentissimi che scatenano infernali tempeste contro di lui.

Non è frequente, ma neppure del tutto insolito, che nella saga dello Spirito con la Scure il soggettista e lo sceneggiatore non siano la stessa persona. Io stesso ho sceneggiato un paio di trame ideate da Mauro Boselli (l’albetto dedicato a Digging Bill allegato a un vecchio Speciale e la storia “La strega della Sierra”), una imbastita da Maurizio Colombo (“La leggenda di Wandering Fitzy”), e un precedente soggetto dello stesso Sossi. Ma, a mia volta, ho fornito il canovaccio a Jacopo Rauch perché sceneggiasse “I fantasmi del capitano Fishleg”, il primo Zagor Color di prossima pubblicazione. E in futuro vedrete Lorenzo Bartoli cimentarsi con un mio soggetto che sarà illustrato da Walter Venturi. Fuori dall’ambito zagoriano, non dimentichiamo che Tiziano Sclavi ha sceneggiato alcuni dei suoi indiscussi capolabori, come “Johnny Freak” e “Il lungo addio” su soggetto di Mauro Marcheselli (che ne ho comunque all’attivo diversi). Dunque, son cose che si fanno, quando ne vale la pena e questa sembra la strada migliore per arrivare al risultato più soddisfacente. 

La faccenda dei due autori dei testi è stata da me così spiegata nell’editoriale premesso al Maxi:“Il balenottero che avrete  fra le mani non mancherà, o almeno lo speriamo, di destare il vostro interesse, sia per i bei disegni di Alessandro Chiarolla (qui al massimo della sua espressività, sia per la particolarità della trama, che si inserisce nel filone Magico & Fantastico della saga dello Spirito con la Scure, in questa occasione interpretato alla luce della mitologia dei popoli pellerossa. A ideare il racconto è stato un soggettista giunto alla sua seconda prova, Vittorio Sossi, a cui si deve anche un altro spunto narrativo, quello da cui nacque lo Speciale “La maledizione del Poseidon”: anche in quel caso – come in questo – partendo dalla sua traccia fu il sottoscritto a occuparsi poi della sceneggiatura. Vittorio è un grande appassionato dello Spirito con la scure, al punto di avergli dedicato un intero sito su Internet, e il suo racconto non è dunque quello di un freddo professionista, ma quello di un lettore il cui cuore batte all’unisono con i tamburi della foresta. Uno di noi, uno di voi, uno di Darkwood, insomma”.

Vittorio Sossi, lette queste parole, mi ha scritto così, su una mail privata, di cui rendo pubblico (con il suo consenso) questo estratto: “Caro Moreno, prima di tutto ti ringrazio per la splendida dedica, veramente bella, varrebbe da sola la soddisfazione della pubblicazione.  Poi la storia, come avevo già preavvertito, ho un vero sesto senso io, anche se come scienziato non posso credere a queste sciocchezze, è venuta veramente bene.  La sceneggiatura fila che è un piacere, nonostante i molti aspetti complessi da spiegare, i personaggi sono vivi, soprattutto i due bambini che sono venuti fuori molto simpatici, e i disegni di Chiarolla sono veramente spettacolari.  Complimenti a tutti noi”. Fa piacere ricevere questi commenti da un collega che ha messo nelle mie mani la sua idea con l'impegno che non gliela sciupassi.  I primi commenti letti in rete e quelli giunti via telefono, via Facebook, via Twitter, sono tutti positivi se non addirittura entusiastici.

Sandro Chiarolla
Il riferimento di Sossi al fatto che lui mi avesse “preavvertito” della riuscita della storia rimanda ai dubbi che gli avevo espresso sul fatto che una certa parte del pubblico zagoriano contesta i racconti di magia. “Vedrai”, gli dicevo, “che ci sarà chi dirà che gli stregoni non vanno bene, che la bambina con i poteri ESP non si può digerire, che i guerrieri volanti non ci devo essere”. E Vittorio mi diceva: “Ma perché? Kandrax è uno stregone, i poteri ESP ce li ha anche Ramath il Fakiro, e pure Ultor è un guerriero volante: tutti personaggi inventati da Nolitta” E io: “Lo so, ma non devi convincere me, devi convincere loro”. In ogni caso, Sossi tanto mi ha convinto che ho accettato non soltanto di comprargli il soggetto ma anche di lavorarci sopra io personalmente. E quanto si sia convinto Chiarolla è dimostrato dall’impegno profuso: secondo me, “I padroni delle tempeste” è il fumetto più bello da lui realizzato nella sua lunga carriera. Su due soggetti proposti da Vittorio, entrambi sono di argomento magico: segno che non sono solo io a ritenere Zagor qualcosa di più di un western. E del resto la stragrande maggioranza delle storie proposte dagli aspiranti autori è di genere fantastico, segno che a parte pochi di parere opposto, la maggior parte dei lettori percepisce l’eroe d Darkwood come un personaggio in grado di  porsi trasversalmente ai generi, come in effetti è. In ogni caso, mi è facile dimostrare che io cerco, come curatore oltre che come autore, di alternare l’offerta. I due Maxi Zagor del 2012 sono stati entrambi avventurosi senza la minima magia, i due ultimi Speciali si possono considerare del tutto western, il primo Maxi di quest’anno era popolato di indiani, banditi e sceriffi. Lo Zagor Color non avrà niente di fantastico (se non la qualità dei disegni e, lo spero, della storia). Dunque, se ogni tanto compare una storia “magica” anche gli innamorati del West potranno farsene una ragione. 

Io e Chiarolla
Lo Spirito con la Scure è il fumetto della contaminazione per eccellenza, e  il presupposto stesso della sua creazione fu quello di collocarsi sulle frontiere della fantasia, della citazione multimediale, della trasversalità fra i generi.  Zagor è trasversale ai generi e non perfettamente inseribile in nessuno di essi. Uno dei primi saggisti che si è occupato di lui, Stefano Cristante, in un saggio uscito nel 1983, coniò lo definì, a ragione, “il mutante del West” e scrisse: “Zagor è un personaggio molto complesso, in lui si mescolano troppe cose, bisogna essere preparati a tutto”. Nelle avventure dello Spirito con la Scure Bonelli volle variare continuamente gli ingredienti e gli scenari, spaziando dai temi horror a quelli fantascientifici, dai racconti di cappa e spada a quelli di cowboy e pellerossa, rifuggendo dunque dalla ripetitività tipica dei serials. La saga dell’eroe di Darkwood si è andata sedimentando così in una vera e propria miniera di elementi eterogenei e di citazioni multimediali dove si possono reperire riferimenti letterari, cinematografici, fumettistici e musicali della più diversa provenienza. “Zagor è stato un prodotto sperimentale ideato per accentrare in sé i vari gusti dei lettori”, dichiarò Bonelli in una intervista, mettendo appunto l’accento sulla la varietà dei gusti che si volevano accontentare. Indiscutibilmente, una parte dell’uditorio gradiva le storie western: ed è soltanto per questo che, di tanto in tanto, gli scenari del West compaiono nella serie. Ma già dall’avventura successiva, Nolitta cambiava il set e proponeva, magari, un’avventura con un Uomo Lupo o con dei samurai. Dunque il western è solo uno dei tanti generi possibili messi a disposizione dei lettori. In questo sta la differenza tra il modo di approcciarsi alla materia delle serie western, anche bonelliane, tipicamente ambientate tra gli indiani, i soldati e i pistoleros e la saga darkwoodiana in cui invece l’ambientazione è enormemente più variegata. Ma c’è di più. Anche quando sono i pellerossa a essere al centro dell’attenzione e a contrapporsi ai “visi pallidi” come in un film di John Ford, anche in quel caso non si tratta degli stessi nativi che si vedono in “Ombre Rosse”, ma altri ben diversi. Il perché lo spiega Sergio Bonelli in una interessante dichiarazione: “Dato che ci troviamo nel nord-est questo rende la saga zagoriana non un ‘western’ ma, se vogliamo, un ‘eastern’. Parliamo di vecchia frontiera, quella degli scenari da ‘Ultimo dei Mohicani’, piuttosto che della frontiera del Sud-Ovest filmata nel ‘Massacro di Fort Apache’. Era una mia precisa intenzione differenziare la serie rispetto agli schemi di Tex e dei tanti altri personaggi western che all’epoca andavano per la maggiore. Così, le tribù indiane con cui Zagor si trova ad avere a che fare sono quelle della regione nord orientale degli States e non quelle della parte sud occidentale: dunque Algonkini e Irochesi piuttosto che Apaches e Navajos. Questo colloca Zagor anche in un’epoca precedente agli anni in cui, di solito, sono ambientati i western più tradizionali. Anche l’idea di inserire in Zagor, in maniera costante e sistematica e non occasionale, spunti ed elementi provenienti dal genere fantastico e da quello horror nasce dalla voglia di differenziare il personaggio: tutti i temi tradizionali dell’epopea western erano già stati ampiamente sfruttati. Così, lo Spirito con la Scure va oltre i limiti di un genere preciso, viene contaminato da suggestioni della più diversa provenienza, e se proprio vogliamo trovare una definizione, preferisco parlare più genericamente di fumetto ‘d’avventura’”. 


Dunque, quando Guido Nolitta creò Zagor tutto voleva fuorché farsi concorrenza da solo, e men che mai far concorrenza a suo padre. Perciò, cercò di diversificare il più possibile il suo personaggio da Aquila della Notte. Se Tex era ambientato nel Sud-Ovest, Zagor è ambientato nel Nord-Est; se Tex vive le sue avventure dopo la Guerra di Secessione, Zagor prima; se Tex è rivolto a un pubblico adulto, Zagor ad acquirenti più giovani; se Tex è un western puro (o quasi), Zagor è avventura contaminata; se Bonelli padre cita i registi dell’epopea del West, Bonelli figlio attinge dal calderone dei B-Movies orrorifici. Nolitta è pronto in ogni momento a far mordere sul collo da un vampiro una ragazza pellerossa, cortocircuitando i generi letterari. 



lunedì 15 luglio 2013

LETTI DI ROSE



Come tradizione, ecco le mie recensioni (tra il serio e il faceto) di alcuni dei libri che ho letto di recente: sono le mie letture (almeno quelle di cui ho trovato il tempo di scriverne) dei mesi da gennaio a giugno del 2013, il primo semestre dell'anno. Ho selezionato solo i libri veri e propri, volumi a fumetti e graphic novel troveranno posto in un articolo apposito di prossima pubblicazione Non è necessario leggere le schede che seguono nell'ordine (assolutamente casuale) in cui sono proposte: potete scorrere le immagini delle copertine e soffermarvi su quelle che più vi incuriosiscono. Le precedenti recensioni sono state raccolte sotto il titolo "Letti di foglie" e "Tanti e allettanti".





IL SEGGIO VACANTE
di J.K.Rowling 
Salani, 2012, 560 pagine

E' inutile (ma inevitabile) specificare come l'autrice sia la "mamma" di Harry Potter e che questo è il suo prima romanzo dopo la conclusione della saga di Hogwarts. Dire che, a differenza delle precedenti, questa è una storia per adulti è sbagliato per due motivi: primo, perché Harry Potter non è necessariamente una lettura per ragazzi; secondo, perché "Il seggio vacante" è fatto anche per solleticare le emozioni di un pubblico adolescente, avendo tra i suoi tanti personaggi anche alcune figure giovanili (peraltro, interessanti e problematiche). Succede così che come i romanzi con il maghetto sono stati letti (e molto amati) anche dagli adulti, questo senza maghetto può essere letto (e molto amato) anche dagli adolescenti. Per quanto mi riguarda, è un punto di merito. Sesso, violenza, dramma, droga, bullismo, tradimenti, vigliaccherie, vendette, insaporiscono la trama senza stravolgerla o disturbarla, perché sono funzionali a un racconto coinvolgente che parte in sordina e quasi, inizialmente, rischia di deludere. Poi, man mano che la narrazione ingrana le marce superiori, le pagine diventano ipnotiche e il ritmo di velocizza, al punto che diventa inevitabile chiedersi come il garbuglio di tante vicende tutte intrecciate fra di loro possa districarsi e quale sia il destino dei personaggi, che ancora verso la fine non si riesce a immaginare (e il finale non delude). Eppure, non capita niente di clamoroso, nel senso che non ci sono delitti, invasioni aliene o rivolte suburbane. La storia si svolge in un piccolo paese della provincia inglese, Pagford, dove tutti o quasi si conoscono, e dove, all'improvviso, muore Barry Fairbrother, un consigliere comunale, il cui seggio dunque rimane vacante. Si tratta di eleggere il suo successore, il quale, con il suo voto, potrà decidere il destino di un centro di assistenza ai tossicodipendenti di un quartiere popolare molto degradato. I moralisti e i benpensanti vorrebbero chiuderlo, e dunque cercano di far nominare consigliere un loro rappresentante. Lo stesso fanno i progressisti più liberali, proponendo un nome alternativo. In città si scatena così una lotta sotterranea fatta di malignità, di sorrisi di facciata e di sgambetti nascosti, mentre si intrecciano le storie di tanti abitanti, di tutte le estrazioni sociali, di tutte le età, di tutti i generi. Non c'è una sola famiglia in cui tutto fili liscio, e ci sono conflitti più o meno drammatici a tutti i livelli. Uno spaccato sociale che emoziona al punto da far dispiacere che i personaggi a cui ci siamo affezionati smettano di essere seguiti dalla penna acuta e garbata della scrittrice.



L'EX AVVOCATO
di John Grisham
Mondadori, gennaio 2013, 370 pagine, 20 euro

Con Grisham si va sul sicuro, e su questo non ci piove. Sa scrivere, è intelligente e garbato, coinvolge il lettore con personaggi e vicende credibili, non esagera alla ricerca forzosa dell'effetto speciale o del colpo di scena, ma quel che ottiene è comunque un costante climax da cui è impossibile non lasciarsi trascinare. Questo nuovo romanzo non fa eccezione. Probabilmente non è all'altezza de "Il socio" o del "Rapporto Pelican", ma diverte e appassiona. Malcom Bannister è un avvocato di colore che si è buscato dieci anni di galera pur essendo innocente, stritolato da un perverso meccanismo per cui né ai giudici né agli indagatori dell'FBI importa della vita delle persone, e la giustizia diventa un tritacarne disumano. La detenzione fa perdere la moglie e gli affetti famigliari, e comporta la rovina civile e finanziaria per Malcom che, dietro le sbarre, organizza la sua vendetta contro il sistema che l'ha condannato. Una vendetta congegnata come un meccanismo a orologeria, un piano perfetto messo a punto da chi ha avuto molti anni per pensarlo...



LA CASA DEGLI SPIRITI
di Isabel Allende
Feltrinelli, 1983 

Mi sono convinto della necessità di questa lettura dopo essere rimasto folgorato da “L’isola sotto il mare”, un romanzo molto più recente della stessa scrittrice (è del 2009, mentre “La casa de los espiritus” è del 1982), e la folgorazione si è ripetuta. Occorre preliminarmente sgombrare il campo da alcuni possibili equivoci. La Allende non è, come qualcuno pensa, figlia di quel Salvador, presidente cileno, che fu assassinato durante il colpo di stato militare del 1973: questi era solo il cugino del padre. Inoltre, “La casa degli spiriti” non è un romanzo autobiografico né parla soltanto degli avvenimenti di poco precedenti e susseguenti il golpe, che anzi occupano una parte non irrilevante ma neppure dominante nell’economia del racconto. Infine, il punto di vista “politico” della narrazione è efficacemente bipartisan nel senso che il personaggio principale, Esteban Trueba (seguito dalla sua gioventù fino alla morte, da vecchio novantenne) è un conservatore di vecchio stampo, le cui idee di destra sono maturate alla luce dell’esperienza di chi si è fatto da solo e ha creato una grande ricchezza personale grazie al proprio duro lavoro e alla capacità imprenditoriale, il quale però ha una famiglia (figli e nipoti) di orientamento diverso, di sinistra, e dunque tutti gli aspetti della vita sociale ed economica vengono visti e discussi in modo dialettico, e spesso anche drammaticamente conflittuale, ma il dibattito continuo non si interrompe mai. Con una felice intuizione, la Allende non fa lo sbaglio di dipingere come il male assoluto una parte politica e come il bene indiscusso la parte opposta, ma mostra come gli errori e le incomprensioni degli uni e degli altri abbiano portato alla nascita di un orribile mostro: la dittatura militare, che diventa l’avversario comune di tutta la famiglia Trueba, Esteban compreso, che vede traditi i suoi ideali, pur essendo egli ferocemente anticomunista. Il romanzo, ricco e complesso, non si risolve però in questa analisi “ideologica”. Al contrario, “La casa degli spiriti” è un libro dalle mille suggestioni e sfaccettature, e dai tanti personaggi che contribuiscono a dar vita a un affresco coinvolgente e affascinante, che si snoda dall’inizio del Novecento fino alla metà degli anni Settanta. Oltre a Trueba, iracondo e volitivo, un’altra figura portante è quella di sua moglie Clara, dotata del potere della preveggenza e della capacità di parlare con i fantasmi, ma indimenticabile è anche la loro figlia Blanca, protagonista di una travolgente storia d’amore con un contadino della tenuta del padre, “Le tre marie”, Pedro Terzo Garcia, divenuto musicista e acceso comunista e per questo odiato da Esteban, fino alla catarsi finale di un abbraccio fra i due. Alba, nata da Blanca e da Pedro, è invece innamorata di un rivoluzionario, Miguel, finito nella lista nera dei golpisti: appunto per questo la ragazza viene strappata al nonno, che cerca invano di difenderla, e condotta in un carcere segreto della polizia politica, dove subisce le torture più crudeli. Le vicende di questi personaggi si intrecciano, ovviamente, con quelle di molti altri. E alla fine, se ne esce commossi e arricchiti.



LA FIGLIA DI RAPPACCINI
di Nathaniel Hawthorne 
Edizione Speciale per il Corriere della Sera, 
Collana Twin Stories, 112 pagine, 2.80 euro


Come altri libri di questa collana che ho già recensito, si tratta di opere della letteratura anglosassone proposte con il testo a fronte ("piccoli capolavori che fanno grande il tuo inglese", recita uno slogan), corredate di note critiche e linguistiche e vendute in abbinamento con il quotidiano di Via Solferino. Leggendo questo mistery tale di una cinquantina di pagine, ho scoperto (cosa che non sapevo) che Nathaniel Hawthorne (1084-1864), scrittore nato a Salem in una famiglia puritana e che io credevo essere autore di romanzi realistici e storici come "La lettera scarlatta", ebbe anche una notevole produzione di racconti gotici in grado di competere con quella di Edgar Allan Poe, di cui fu contemporaneo. E gotico lo è di sicuro, cupo, magico e tragico com'è, questo "La figlia di Rappaccini", di ambientazione italiana, che si legge tutto d'un fiato in un crescendo di angoscia. Giovanni, studente napoletano giunto a studiare a Padova, prende in affitto un appartamento che si affaccia su un misterioso orto botanico pieno di piante sconosciute. Fra esse, il giovane vede aggirarsi una fanciulla meravigliosa, Beatrice, figlia dello scienziato Rappaccini, che la tiene segregata dal resto del mondo. Un altro studioso, il professor Baglioni, mette in guardia Giovanni rivelandogli che Rappaccini è un pazzo che compie esperimenti folli. Ma il napoletano, vinto dal desiderio di incontrare Beatrice, penetra nel giardino e riesce a far innamorare la ragazza, la quale però sembra dotata di un mortifero potere: qualunque cosa viva tocchi, che non siano le misteriose piante del suo orto, muore (insetti, rettili, uccelli, fiori portati da fuori, cadono a terra inerti e rinsecchiti). Giovanni, però, non subisce gli stessi effetti: come mai? Come aveva giustamente detto Baglioni, Rappaccini ha fatto crescere Beatrice in mezzo a vegetali velenosi da lui creati in laboratorio, rendendola essa stessa mortalmente velenosa. Ma volendo darle uno sposo, ha avvelenato lentamente anche il giovane in modo da trasformarlo in un essere con le stesse caratteristiche della figlia. Quando Giovanni se ne rende conto, capisce che non può più uscire dal giardino, se non provocando la morte di tutti coloro che incontrerà. C'è da notare che la Marvel ha battezzato con il nome di Monica Rappaccini un personaggio che compare nella serie di Hulk, una biochimica votata al male. Dal punto di vista linguistico, il testo in inglese, pur gradevole alla lettura, presenta forme arcaiche come "thou" (you), "withal" (with), "didst" (did) e via dicendo.




IL COMPITO DI LATINO
a cura di Vincenzo Campo
Sellerio, 1999, 200 pagine

Il sottotitolo aggiunge: "Nove racconti e una modesta proposta". Come già in una precedente antologia già commentata in questo spazio ("Il gatto di Miss Paisley",medesimo curatore, stessa collana "La memoria"), Vincenzo Campo raccoglie una decina di racconti fantastici scelti sulla base di un tema intrigante e che nulla, apparentemente, c'entra con il mistero o con la fantascienza. Nel precedente florilegio, si trattava degli animali (e abbiamo visto quali inquietanti risultati si erano raggiunti). Questa volta, di scuola e (soprattutto) di insegnanti. I primi due racconti sono di fantasmi, entrambi agghiaccianti (il primo, che dà il titolo al volume, è del maestro riconosciuto del genere, Montague Rhodes James; il secondo dell'abile Ramsey Campbell), il terzo è dell'orrore (si parla di vampiri, a opera di K. M. O'Donnell), poi fino al nono sono tutte novelle di fantascienza, tra cui alcune delle vere chicche memorabili (segnalo "Il primo e unico giorno di scuola", di Bob Shaw). Infine, a chiudere il cerchio, il decimo testo è di Giovanni Papini: una ironica e provocatoria proposta dal titolo "Chiudiamo le scuole". Al di là dei meriti di antologie come queste, vorrei spezzare una lancia in favore della lettura dei racconti, troppo spesso snobbati in favore dei romanzi: è bello avere una storia breve da leggere, iniziandola e finendola nel giro di pochi minuti. Fatelo più spesso, e vi divertirete.



INDAGINI SULL'ALDILA'
- VITA OLTRE LA VITA
di Ade Capone
Priuli & Verlucca, 2013, cartonato, 210 pagine

E’ primo titolo della collana "I libri di Mistero" diretta da Alessandro Stanchi. Va detto che l'autore, mio amico da più di vent'anni, oltre a essere uno sceneggiatore di fumetti (ha creato Lazarus Ledd e ha scritto migliaia di tavole bonelliane, soprattutto di Zagor), è anche uno degli autori della trasmissione in onda da alcune stagioni su "Italia 1", dopo essere stato nello staff di altri programmi, quali "Il bivio" o "Quello che le donne non dicono". Prima di pubblicare questo libro sul dopo morte, Ade ha dato alle stampe anche un altro saggio dedicato ai rapimenti da parte degli alieni ("Contatto", Piemme) di cui abbiamo parlato in questo stesso spazio. Sia nel primo che nel secondo lavoro tratto dalla sua esperienza televisiva, Capone dimostra di essere sinceramente interessato agli argomenti di cui scrive, e non si limita a svolgere un compitino. Anzi, la sua scrittura è accattivante e appassionata. Riconoscendo fin dall'inizio di non essere uno scienziato, ma solo un divulgatore, l'autore si limita a mettere sul tavolo i problemi, a porre dubbi, e quindi a evidenziare le possibili risposte così come altri le hanno prospettate. Il libro ha dunque il taglio dell'inchiesta giornalistica, aderente peraltro a quello che si aspetta il lettore che giunga alla lettura provenendo dalla platea televisiva. Si espongono fatti o ricostruzioni di fatti, si intervistano testimoni, si riferiscono esperienze, si fanno ipotesi. La lettura scorre veloce e intrigante. Manca talvolta, per chi come me resta a disagio davanti ai misteri senza risposta, il supplemento d'indagine che risolva il caso magari in termini scientifici, ma del resto di fronte alle apparizioni di fantasmi, che non possono essere oggetto di ripetizione in laboratorio, non si può certo pretendere una spiegazione chiudibile, come a me piacerebbe, in una equazione matematica. Si parla di spiritismo, di medium, di cacciatori di fantasmi, di religioni a confronto, ma la parte più interessante, dal mio punto di vista perennemente scettico, è quella finale in cui Ade, con grande capacità argomentativa, affronta il tema della percezione del reale da parte dell'essere umano, e di come la vita e la morte possano essere interpretate solo come affioramenti alla coscienza di realtà ben diverse impossibili da cogliere, evidenze di diversi piani della realtà, fenomeni dovuti alla fisica ancora sconosciuta di particelle elementari. L'entanglement, la teoria dei quanti, l'universo olografico, inquadrano i fenomeni misteriosi esaminati prima in una prospettiva diversa da quella della superstizione o delle credenze e, forse, individuano una via per spiegarli.




IL GIRO DEL MONDO
di Agatha Christie
Oscar Mondadori, cartonato, 2013, 360 pagine, 16 euro. 

"Album di lettere e fotografie", avverte il sottotitolo: si tratta in effetti di una raccolta di missive e di scatti fotografici, più ritagli di giornale, depliant e cartoline, che raccontano un viaggio intorno al mondo di dieci mesi compiuto da Agatha e Archibald Christie nel 1922. Le lettere e le foto sono opera della stessa Christie, in gran parte inviate alla madre in Inghilterra da tutti i porti in cui fece scalo. Agatha era sposata da qualche anno con l'uomo che le avrebbe lasciato il cognome con cui fu nota tutta la vita (lei in realtà si chiamava Miller), era madre da pochi mesi, aveva già scritto tre libri. Da Archie, la Christie si sarebbe divorziata alcuni anni dopo (e poi sarebbe "scomparsa" per qualche tempo dando luogo a un giallo sulla sua sorte che appassionò il giornali dell'epoca). Non si deve credere, tuttavia, che il giro del mondo dei Christie sia stato il tour di una coppia di ricchi sfaccendati. Al contrario, si trattò di un azzardo economico compiuto da una famigliola con pochi mezzi che investì in quell'esperienza quasi tutto ciò che possedeva. L'occasione fu offerta dalla proposta fatta ad Archie da un amico, il maggiore Belcher, incaricato di recarsi nei "dominion" della Corona per preparare l'Esposizione Universale dell'Impero Britannico del 1924 che si sarebbe tenuta a Londra. Belcher (un incredibile bluffatore incompetente e dal carattere impossibile che avrebbe provocato non pochi guai ai Christie) voleva Archie come assistente e lo convinse a lasciare il suo impiego e a partire con lui. La presenza della giovane moglie Agatha servì a motivarlo (e lei realizzò il sogno di viaggiare che aveva sempre avuto). Le tappe furono il Sud Africa, L'Australia, la Nuova Zelanda, le Hawaii e il Canada, prima del rientro in Inghilterra. Le foto scattate dalla Christie ci mostrano il mondo qual era negli anni Venti, sono numerosissime e suggestive. I suoi testi sono quelli di una affabulatrice nata, una scrittrice di razza anche nel rivolgersi alla madre. Una chicca da non perdere.



TI SEMBRA IL CASO?
di Erri De Luca e Paolo Sassone-Corsi
Feltrinelli, 2013, brossurato, 120 pagine, 9 euro 

Il sottotitolo recita: "Schermaglia fra un narratore e un biologo". Si tratta in effetti di uno libro epistolare, che raccoglie uno scambio di missive (rielaborate in taglio letterario) scambiate fra il 2010 e il 2011 tra lo scrittore e poeta napoletano Erri De Luca (1950) e lo scienziato Paolo Sassone-Corsi (1956), suo concittadino ma residente negli USA. L'argomento è l'uomo inteso come frutto dell'evoluzione e figlio della Natura, e la sua essenza psicologica e sociale. De Luca pone domande al biologo che risponde, e quindi commenta le risposte con riflessioni che scavano nell'intimo della psicologia umana e dei nostri problemi a rapportarci con il mondo e gli altri uomini. Lo scienziato dimostra anch'egli una notevole carica di sensibilità umana che trascende il suo compito di divulgatore e tende a spiegare come la nostra stessa biologia ci imponga di vivere in modo diverso, più vicino ai ritmi naturali. Interessante il dibattito sul difficile lavoro degli scienziati, spesso vituperati e vittime di diffidenza, malpagati eppure animati da sincero amore verso il loro lavoro e desiderosi di giungere a risultati che spieghino meglio il creato e siano d'aiuto agli altri. Ben spiegate le parti che illustrano il funzionamento del DNA o il ritmo circadiano. Tuttavia, alla fine, quel che si ricava è poca cosa e il libro non è né carne né pesce: non c'è omogeneità tra gli argomenti (si salta un po' di palo in frasca), non c'è esaustività nelle trattazioni (qualche accenno e poi si passa oltre), non c'è un progetto che voglia partire da un punto ed arrivare a un altro attraverso un percorso chiaro. Resta la piacevolezza di una conversazione illuminata, come si potrebbe fare dopo cena da una terrazza affacciata sul Golfo di Napoli.



RACCONTI CRUDELI
di Samuel Marolla 

Il libro va letto in formato e-book dato che non esiste su carta. Del resto, in formato digitale costa solo 99 centesimi e questo potrebbe essere per qualcuno un vantaggio. Come i precedenti racconti cartacei di Marolla, mi sono piaciuti moltissimo. Samuel è anche uno sceneggiatore di fumetti: ha scritto alcuni Dampyr e sta scrivendo uno Zagor. "Racconti crudeli" contiene tre novelle nere alla Stephen King. Uno scrittore dilettante scopre a Milano un misterioso corso di "scrittura memetica" le cui lezioni avranno esiti decisamente infausti. Nel prossimo futuro, un'Europa in ginocchio a causa della crisi economica e alle prese con un'invasione militare africana scopre che il continente nero ha portato la guerra alla sua più estrema e atavica conseguenza. Nel Mobilificio De Zani, emblema della produttività brianzola, le persone spariscono e i mobili assumono connotati da incubo.  L'ebook è in vendita al prezzo di 0,99 euro, sia in formato mobi (per Kindle) sia in formato epub (quindi Kobo, I-Pad e tutti i principali e-book reader). Come per gli altri miei ebook, il libro si può trovare in tutte le principali librerie online, ad esempio Amazon.it, IBS.it, BOL.it.



MORTALITA'
di Christopher Hitchens
Piemme, 2012, 100 pagine, cartonato, 12 euro

"Tra le più lucide e illuminanti pagine sulla condizione umana": così il New York Times ha recensito questo aureo libretto che raccoglie gli ultimi scritti di Hitchens, giornalista, polemista, intellettuale e conferenziere. Di lui, Richard Dawkins ha detto: "era il più grande oratore del nostro tempo", per la sua capacità di catturare e infiammare le platee. Ne abbiamo parlato, qui e sul blog, a proposito del libro "Processo a Dio", che raccoglie la discussione svoltasi durante un celebre dibattito televisivo dello scrittore con Tony Blair a proposito della religione, e ancora dopo parlando del saggio "La posizione della missionaria" in cui Hitchens puntava l'indice contro Madre Teresa di Calcutta (potete ritrovare tutte e due le mie recensioni da qualche parte nel mare magnum di "Freddo cane in questa palude"). Ma, soprattutto, Hitchens è l'autore del fondamentale "Dio non è grande" (fondamentale anche per chi crede, perché non si può prescindere dal considerare le idee dello scrittore, e nel caso replicare). Nel giugno 2009, mentre era impegnato nel tour promozionale della sua autobiografia "Hitch 22" (anch'essa imperdibile, edita in Italia da Einaudi), al giornalista viene diagnosticato un tumore all'esofago andato in metastasi. Nei successivi diciotto mesi, Hitchens racconta su "Vanity Fair" tutte le fasi della lotta contro il male (anche se scrive: "non sono io che combatto il cancro, è il cancro che combatte contro di me"), mettendo per scritto in modo lucido e impietoso sia le descrizioni delle sofferenze sia il dipanarsi delle sue riflessioni sulla vita e sulla morte. Gli articoli sono stati appunto raccolti in questo libro, e non smentiscono in nulla il grande talento dell'autore sia come polemista (formidabili le sue risposte a chi sosteneva che la sua malattia fosse una punizione divina e ne gioiva) sia come indagatore in campo letterario, filosofico, sociologico, politico. Commoventi gli ultimi appunti rimasti incompleti, raccolti nel capitolo conclusivo, tra cui questo aforisma che racconta tutto di lui: "Se mi converto sarà perché è meglio che muoia un credente che un ateo". Hitchens è morto nel dicembre 2011.



FISICA QUANTISTICA DELLA VITA QUOTIDIANA
di Piergiorgio Paterlini
Einaudi, 2013, 130 pagine, 13 euro 

Come ben spiega il sottotitolo, si tratta di "101 microromanzi". Ovvero, centouno racconti straordinariamente brevi (da una sola parola a una pagina e mezzo al massimo). La fisica quantistica si occupa, almeno per ora, delle interazioni fra le particelle subatomiche più piccole, che obbediscono a regole del tutto diverse di quelle teorizzate dalla fisica newtoniana. Dunque, Paterlini (già autore del long-seller "Ragazzi che amano ragazzi") decide di compiere esperimenti sulla piccolissima lunghezza in campo narrativo. Uno dei racconti, per fare un esempio, si intitola "Exit" e consiste in questa frase: "Spense la luce". Ovviamente, ce ne sono anche di più elaborati, tutti comunque fulminanti per brevità, ma non di rado anche per capacità di stuzzicare riflessioni. Non mancano le composizioni insipide, ma mai ce ne sono di insulse e comunque tutte hanno un loro perché. Vengono in mente le famose "Microstorie di Fantascienza" raccolte in una celebre antologia di Urania, ma qui lo scrittore è uno solo, riesce ad essere ancora più "micro" e non cerca di stupire con gli effetti speciali ma con la vita quotidiana a cui fa riferimento il titolo. L'espediente più spesso usato è quello di mostrare come qualcosa possa sembrare qualcos'altro se guardato da un punto di vista diverso. Un esempio davvero stringato: "Si alzò ed entrò nella doccia" (incipit). Possiamo immaginarci la scena. Ma subito si arriva al finale: "Dopo pochi minuti era morto, asfissiato dal gas". La scena risulta del tutto diversa rispetto a quello che ci eravamo figurati. Questo gioco riesce bene a Paterlini in diversi dei suoi racconti. In ogni caso, la brevità è sempre spiazzante. E un autore è chiamato a non sprecare neppure una parola, scegliendole cum grano salis.



1Q84 
di Haruki Murakami 
in due volumi Einaudi, 2011 e 2012, 
720 pagine il primo,400 il secondo

L’autore, nato a Kyoto nel 1949, è probabilmente lo scrittore giapponese più letto nel mondo. Che abbia la grande capacità di farsi leggere con estrema piacevolezza è, in effetti, indubitabile. Tuttavia, al termine della lunga lettura dei due tomi di “1Q84” (tre libri in origine in Giappone), non riesco dare un giudizio sull’opera. Non so, cioè, se consigliarla (probabilmente sì) e se parlarne bene o male (probabilmente bene), anche perché, soprattutto, non credo di aver capito fino in fondo di che cosa si tratta. 
Alla fine dell’ultima pagina, il mio primo pensiero è stato: “non può essere finito, ci deve essere un seguito che spieghi tutto”. Invece, del seguito non ho trovato traccia. E tutto questo, si badi, di fronte a uno scrittore che è spiegazionista al massimo: i suoi personaggi riflettono su ogni accadimento, esteriore o interiore, che li riguardi, spaccando il capello in quattro. Tutte le ipotesi vengono valutate, e non si procede nella narrazione se ogni aspetto non è stato presentato mettendo in tavola le carte che lo riguardano. Anche se, però, alla fine bisogna fare degli atti di fede: per esempio, la protagonista femminile del romanzo, la killer Aomame, resta incinta senza aver avuto nessun rapporto sessuale e si convince di aspettare un figlio da un uomo, Tengo, che non vede da vent’anni e che fu suo compagno di scuola alle elementari, e di cui ritiene di essere innamorata per il ricordo che ha di una stretta di mano che si scambiò con lui da bambina. Haruki, giustamente, fa tutte le riflessioni del caso sulla gravidanza, escludendo che possa aver avuto origine in qualunque altro modo più logico e razionale, e quindi si rassegna ad accettare, come chiede di fare ai lettori, che Aomame abbia ragione: se lei è convinta che Tengo sia il padre della misteriosa “piccola cosa” che ha in grembo, vuol dire che è così. Di episodi del genere il libro è pieno, e per ciascuno mi sarei aspettato una spiegazione, pur fantastica. Non è stato così.  Non è facile (ma neppure difficile, perdurando anche in questo l’indeterminatezza) riassumere il romanzo. Siamo in Giappone nel 1984. Musami Aomame è una killer “a fin di bene” che si incarica di eliminare, per conto di una organizzazione sponsorizzata da una ricca signora, gli uomini che usano violenza alle donne e che la Giustizia dello stato non è in grado di punire. Improvvisamente, trovandosi a dover passare attraverso un varco che permette di uscire, a piedi, dal raccordo autostradale in cui si è trovata imbottigliata sul taxi, Aomame si rende conto di essere finita in un mondo parallelo, molto simile al nostro ma con alcune significative differenze, la più eclatante delle quali è la presenza di due lune. La killer chiama il nuovo mondo 1Q84, in cui il Q significa 9 (in giapponese, “kyuu” significa sia la lettera dell’alfabeto che il numero) ma anche “question mark”, o punto di domanda. Si ricorda però di aver letto un romanzo fantastico di grande successo, “La crisalide d’aria”, in cui una giovane scrittrice, una diciassettenne alla prima esperienza, Fukaeri, aveva narrato appunto di una Terra con due satelliti. Fatto sta che il libro è solo in parte opera di Fukaeri, perché la ragazza è dislessica e non è in grado di dare alle sue opere la cura letteraria in grado di renderle pubblicabili: l’editore le ha così affiancato un ghost writer, Tengo Kawana, insegnante di scuola solitario e complessato, vittima di una figura paterna problematica (anche se lui ritiene che l’uomo non sia il suo vero padre naturale), che vegeta in coma in un ospedale. Nel romanzo di Fukaeri si racconta di misteriose creature chiamate “Little People” che riescono a penetrare nella realtà attraverso varchi dimensionali, e tessono crisalidi di fili d’aria solidificata al cui interno si materializzano bambine dagli strani poteri, tra cui quello di far giungere le loro voci al capo di una setta religiosa segreta denominata Sakigake. Il potere della setta (che sembra plagiare le menti degli adepti, che vivono in una comunità isolata dal mondo) sembra dipendere dalle voci dei Little People, tant’è vero che quando la bambina che ispirava il Leader fugge, gli agenti dell’organizzazione cercano in tutti i modo di ritrovarla. La bambina in questione sembra essere, a un certo punto, la stessa Fukaeri, che dunque nel romanzo avrebbe raccontato non una storia inventata, ma la realtà da cui è fuggita. E da cui continua a fuggire, perché dopo aver vissuto nascosta presso il professor Ebisuno che la protegge, per un certo periodo si rifugia anche a casa di Tengo, prima di svanire nel nulla. Con Tengo ha, in effetti, uno strano e fugace rapporto sessuale. Il che fa pensare che Aomame sia a sua volta Fukaeri in un’altra realtà, visto che la killer risulta fecondata dal seme raccolto dalla scrittrice. Non si sa bene come e perché, anche Tengo finisce nell’universo 1Q84 e comincia a vedere due lune, mentre Aomame viene incaricata di uccidere il Leader della Sakigake. Leader che però accetta volontariamente la morte, mentre i suoi agenti cominciano a dare la caccia all’assassina, usando anche il detective privato Ushikawa. Costui, uomo dal corpo deforme ma dalla grande intelligenza, si rende conto di poter trovare Aomame seguendo Tengo, dopo aver scoperto che questi è il ghost writer de “La crisalide d’aria” ma è anche un vecchio compagno si scuola della ragazza di cui è a caccia. Attraverso varie vicissitudini, è proprio Ushikawa a far rincontrare nel mondo 1Q84 Amomame (incinta) e Tengo. I due, scopertisi innamorati a trentenni così come lo erano a dieci anni, ripercorrono in senso inverso il varco dimensionale del raccordo autostradale e si ritrovano in un mondo con una sola luna. Che sia proprio quello di partenza, cioè il 1984, non è certo. Tuttavia, la minaccia della Sakigake sembra scongiurata. Fine del racconto. I punti insoluti non si contano, a partire dalla “piccola cosa” nel ventre di Aomame per arrivare alla spiegazione di chi siano e che cosa vogliano i Little People. Nonostante questo, la lettura è ipnotica: ma è proprio il fascino del racconto a far venire voglia di una soluzione più convincente al grande e complesso enigma narrativo messo in piedi dallo scrittore. E’ evidente l’omaggio a George Orwell, così come è chiaro che tutto si può leggere in chiave meraforica e allusiva. Si tratta di un romanzo simbolico che allude all’atto stesso della creazione letteraria: dalla “crisalide d’aria” escono creature che fanno “sentire le voci” e aprono varchi fra le dimensioni. Però c’è anche una allusione alla ricerca dell’amore, spesso impossibile perché lui e lei vivono in mondi separati e ci sono barriere da oltrepassare per riuscire a trovarsi anche se si abita a pochi metri di distanza. Grande complessità, grande fascino, grande letterarietà, grandi dubbi. Con il risultato di sentirsi un po’ scemi e ammettere: “non ho capito”.



L'ASSASSINIO DI RUE SAINT-ROCHE
di Alexandre Dumas
a cura di Ugo Cundari
Dalai Editore, 120 pagine, 12.90 euro, 2012

“E se non fosse stato Edgar Allan Poe a scrivere 'I delitti della Rue Morgue'?", domanda perfidamente una frase in quarta di copertina. E in questo dubbio sta tutto il fascino del libro, che si giustifica di fatto proprio dal confronto fra il giallo di Dumas e quello di Poe, ritenuto il primo poliziesco della storia. Ugo Cundari ha infatti ritrovato per caso, in una biblioteca napoletana, un racconto pubblicato dall'autore dei "Tre Moschettieri" su un giornale partenopeo, l' "Indipendente", di cui fu direttore fra il 1860 e il 1864. Si tratta, per la precisione, di un testo apparso a puntate tra il 28 dicembre 1860 e l'8 gennaio 1861, di cui esistono, negli archivi di tutto il mondo, pochissime copie, e che era, fino a poco tempo fa, praticamente sconosciuto. Dumas lo dettò, in francese, a uno scrivano e venne immediatamente tradotto in italiano per poter comparire sul giornale, come si faceva per tutto quello che lo scrittore francese preparava, con la sua solita vulcanicità, per il quotidiano napoletano. La versione proposta da Dalai è appunto quella della traduzione dell'epoca. La lettura de "L'assassinio di Rue Saint-Roche" lascia del tutto sbigottiti, perché si tratta di un clamoroso plagio dei "Delitti di Rue Morgue" di Poe. Stessa ambientazione parigina, stessa situazione, stesse vittime, stessa soluzione del caso. Non solo: anche i particolari sono i medesimi, dalle voci provenienti dalla casa chiusa scambiate dai vicini per lingue straniere sempre diverse, al dettaglio delle finestre inchiodate. Che cosa cambia? Cambia, innanzitutto, il fatto che il detective risolutore del caso è lo stesso Edgar Allan Poe. Cioè Dumas racconta di aver incontrato lo scrittore americano a Parigi nel 1832 e, mentre era in sua compagnia, di averlo veduto incuriosirsi di un caso descritto sui giornali e quindi indagare sulla faccenda fino a venirne a capo. Ora, i "Delitti della Rue Morgue" è stato pubblicato nel 1841, dunque vent'anni prima il racconto di Dumas. Dunque tutto lascia pensare che sia stato lo scrittore francese a copiare Poe. Il che non sarebbe neppure improbabile, essendo Dumas uso ad attingere a piene mani di qua e di là, al punto da aver subito diversi processi con l'accusa di appropriazione indebita di scritti altrui. Però, la questione non è così semplice. Nella sua lunga e avvincente postfazione, Cundari elenca tutta una serie di circostanze misteriose. Tanto per cominciare, anche nel racconto di Poe compare un Dumas, che è uno dei personaggi secondari. Una combinazione? E se Dumas e Poe si fossero davvero incontrati, nel 1832? Perché, infatti, Poe ambienta proprio a Parigi il suo giallo, e non a Boston o Philadelphia? Come può conoscere così bene la capitale francese, com'è dimostrato dal suo testo? La biografia di Poe è, incredibilmente, misteriosa e lacunosa sui suoi spostamenti in quell'anno e ci sono testimonianze che lo vogliono in Russia, in Francia, in Inghilterra. Il curatore elenca una serie impressionante di indizi che sembrano far supporre che il contatto ci sia stato, e che una bozza di racconto possa essere stato visto e letto da Poe, oppure discusso con Dumas, che sarebbe stato però l'artefice dell'opera, avendone collocato l'azione su uno sfondo parigino che l'americano non aveva ragione di usare. Personalmente, dovendo emettere un verdetto, protendo per un semplice plagio del francese. Tuttavia ammetto che Cundari è riuscito a instillarmi il dubbio.



IL RAGAZZO SENZA STORIA
di Ross Macdonald
Polillo Editore, 2012

La Polillo era già benemerita per la sua collana "I bassotti", di cui ho recensito qualche titolo, dedicata ai gialli classici di scuola inglese, e adesso vara una nuova serie, "I mastini", riservata invece alle crime stories americane. Ross Macdonald (1915-1983), californiano, è considerato un maestro del genere insieme a Raymond Chandler e Dashiell Hammett. Il suo principale personaggio, non a caso, è un detective privato, Lew Archer che è stato per varie volte interpretato sul grande schermo da Paul Newman (noi lo conosciamo come Harper, e il film più famoso è "Detective Harper: acqua alla gola"). Archer non è un duro, non spara, non picchia la gente. Però sa indagare. Ha fiuto per le piste, sa interrogare le persone facendo le giuste domande, non si lascia facilmente infinocchiare. Seguirlo mentre indaga è divertente e intrigante. In questo romanzo, del 1959, i colpi di scena sono continui e tutto quel che sembra di aver capito viene smontato dalle scoperte fatte nel capitolo successivo. Che si deve chiedere di più a un poliziesco? Archer viene ingaggiato da una vecchia e ricca signora perché ritrovi suo figlio scomparso da vent'anni, quando se ne è andato di casa, volontariamente, senza più dare notizie. Il detective il nipote, figlio dello scomparso, che, morto il padre, risulta essere l'unico erede delle sostanze della nonna. Ma davvero il ragazzo è chi dice di essere? La soluzione è assolutamente sorprendente.



LA TOMBA PERDUTA DI GESU'
di James D. Tabor e Simcha Jacobovici 
Piemme, cartonato, 2013, 300 pagine, euro 17.50

"Una straordinaria scoperta archeologica rivoluziona la storia del cristianesimo", spiega il sottotitolo. "Un ritrovamento di innegabile portata storica. I test del DNA sui resti dell'ossario, le prove documentali e le conferme archeologiche faranno discutere a lungo", aggiunge la recensione del National Geographic. "Gerusalemme. Le spoglie ritrovate in una cripta dimenticata da secoli confermano la storicità di Gesù di Nazareth. E negano la resurrezione", concludono gli slogan in quarta di copertina. Prima di continuare, urgono alcune premesse. Non sono un archeologo, non sono esperto di esami del DNA, non sono uno storico, né un teologo, né un biblista, né uno studioso di epigrafia, e neppure un credulone. Dunque non so dire se gli autori del libro e gli scienziati che hanno esaminato il caso di cui parla abbiano ragione o se si tratti di una cantonata. Non sostengo nessuna posizione, non avendo gli strumenti per esprimermi, e spero che chi, invece, sostenga tesi a favore o contro, li abbia: se no, meglio sospendere il giudizio - come faccio io. Quel che posso dire con certezza è che il libro è affascinante, qualunque sia la verità, e che i due autori non sembrano Roberto Giacobbo. Il loro modo di proporre i fatti dà l'impressione di essere impeccabile. Tutte le fonti sono citate nel modo giusto, il supporto documentario è corretto, la competenza di chi scrive non dà motivo di essere messa in discussione, la buona fede si direbbe salva. Dunque il saggio si può leggere senza temere di stare guardando una puntata di "Mistero". Sostanzialmente, si espongono dei fatti. Questi fatti sembrano incontestabili e sono interessanti. Lo sarebbero anche se fossero falsi, oserei dire, nel senso che se non sono veri sono inventati bene e hanno la parvenza di essere più che plausibili, addirittura probabili. Del resto, sul ritrovamento della "tomba di Gesù" (le virgolette sono d'obbligo) sono stati girati servizi e documentari e non si tratta di una leggenda urbana. I fatti, in buona sostanza, ci sono, quello su cui si può discutere è l'interpretazione da ricavarne. E' ovvio che trattandosi di un argomento delicato ci sono molte pressioni di carattere religioso che impediscono una corretta valutazione. Se si fosse trattato di una tomba ittita o egiziana o del sepolcro di uno dei sette Re di Roma nessuno avrebbe impedito gli scavi o ostacolato la diffusione dei filmati in TV. Trattandosi di qualcosa di legato alla figura storica di Gesù, gli archeologi hanno oggettivamente trovato molte difficoltà. Personalmente non penso che il ritrovamento di un eventuale ossario di Gesù comprometta la fede cristiana. Anzi, a ben guardare, la sorregge: finalmente una prova concreta dell'esistenza storica di Cristo e la conferma dell'autenticità di molti passi del Vangelo. Il problema riguarderebbe casomai solo la resurrezione fisica di un corpo in carne o ossa, questione discutibile e discussa anche in campo teologico per molti secoli prima che un Concilio la proclamasse dogma di fede. In realtà, la resurrezione si può intendere in tanti modi: la rinascita in un mondo nuovo, la nuova vita in Paradiso, la divisione della Storia in prima e dopo Cristo, la prosecuzione della proclamazione della Parola di Dio per bocca degli Apostoli, il cammino della Chiesa verso la Fine dei Tempi, eccetera. Non è che sia proprio necessario che un corpo fisico si risvegli in una tomba, per credere nella resurrezione dello spirito. Anzi, se potessi scegliere opterei per una interpretazione un po' più spirituale, essendo disturbato dalla mistica cattolica dei corpi macilenti, delle mummie dei santi, del sangue che cola, dei cuori trafitti di spade. Però non posso scegliere, essendo certe cose un dogma. Non importa, torniamo al libro. Dicevo che si espongono dei fatti, apparentemente incontestabili. I fatti sono il ritrovamento, negli anni Ottanta, a Gerusalemme, di due tombe del I secolo, distanti sessanta metri l'una dall'altra. Una, intatta, sepolta sotto un condominio; l'altra, saccheggiata e adibita a deposito di immondizia, in un giardino vicino. All'interno delle tombe ci sono in un caso e c'erano nell'altro alcuni ossari, ovvero cassette in pietra in cui gli antichi ebrei chiudevano le ossa dei loro cari dopo la decomposizione dei corpi. I nomi incisi sugli ossari, e i simboli scolpiti lasciano allibiti. Su uno, si legge "Gesù figlio di Giuseppe". Sugli altri, si trovano i nomi di persone che, stando alle scritture, potrebbero essere i componenti della sua famiglia: i fratelli (a partire da Giacomo), i figli (uno si chiamerebbe Giuda), e la moglie, il cui nome è appunto Mariamene Mara, cioè il nome ebraico di Maria Maddalena. L'altra tomba pare, o potrebbe essere, quella di Giuseppe d'Arimatea e della sua famiglia. Sugli ossari ci sono anche incisioni che testimoniano la fede dei defunti nella resurrezione: per esempio, il pesce che dopo tre giorni riporta a terra il profeta Giona, simbolo dell'uomo che rinasce a vita nuova. I test del DNA sui resti confermano che Mariamene non è nè la madre nè la figlia di Gesù, e che dunque probabilmente è la moglie. Sul fatto che Gesù avesse dei fratelli soltanto i cattolici hanno, per motivi tradizionali, dei dubbi: il resto del mondo ne è convinto (dopo l'ascesa al cielo di Cristo, fu il fratello Giacomo a guidare la comunità cristiana a Gerusalemme), e le Sacre Scritture ne parlano liberamente e senza remore. Io ne prendo atto, poi la cosa non mi sembra particolarmente né scabrosa, da un lato, né rilevante ai fini dottrinali, dall'altro. L'obiezione più comune che viene fatta è che, dando per incontestabili i nomi incisi sugli ossari, "Gesù" e "Giuseppe" sono antroponimi molto comuni e dunque non c'è motivo di credere che si tratti per forza di "quel" Gesù e di "quel" Giuseppe. Gli autori del libro rispondono con dovizia di particolari e in modo convincente. Al che, mi fermo qui. Se volete approfondire, leggetevi il libro. E' affascinante comunque la pensiate. In fondo, si parla di archeologia.



FAI BEI SOGNI
di Massimo Gramellini
Longanesi, 2012, 200 pagine, euro 14.90 

Difficile parlar male di un libro in grado di vendere più di un milione di copie in Italia. Eppure, personalmente, io che sono così tanto di bocca buona da non riuscire a parlar male neppure de "L'Amante" di Marguerite Duras, ho faticato ad arrivare in fondo. Mai titolo fu più azzeccato: "Fai bei sogni". Difatti, dopo due righe: zzzz. Come sempre mi succede in questi casi, di fronte a tanta disparità di giudizio fra il mio parere e quello del testo del genere umano, mi convinco di essere io quello che non ci arriva, per cui faccio pubblica ammenda e confesso i miei limiti. Tuttavia, ormai che mi sono sbilanciato, fatemi provare a raffazzonare qualche motivazione a supporto della mia perplessità. Tanto per cominciare, bisognerebbe mettersi d'accordo su che cos'è "Fai bei sogni". E' un romanzo o è una autobiografia? Wikipedia dice che è un romanzo autobiografico e mette d'accordo tutti, però non è esattamente così. Un romanzo prevede una trama e dei dialoghi fra i personaggi, l'autobiografia dei riferimenti precisi a fatti, date, luoghi, persone. "Fai bei sogni" non soddisfa nessuno dei due requisiti. E' vago e generico come autobiografia, e non articolato e ritmato come romanzo. Ci sono dilungamenti sulla noiosissima infanzia del protagonista (lo stesso Gramellini) e poi voli pindarici sulla parte più interessante, quella della sua carriera giornalistica o dei suoi amori. Addirittura, si sposa e non ce lo dice. Divorzia, e lo veniamo a sapere en passant. Però, di quando andava alle elementari sappiamo tutto. Il motivo è che l'argomento non è la vita di Massimo Gramellini, ma il resoconto, messo giù così come viene, alla bell'e meglio, del suo irrisolto problema della morte della mamma, avvenuta quando lui aveva nove anni. Per carità, la cosa è drammatica e siamo tutti partecipi. Però, sinceramente, qualche lutto abbiamo dovuto elaborarlo tutti e non l'abbiamo fatta tanto lunga. Lo si fa in privato, di solito, e ognuno cerca di farsene una ragione senza tormentare gli altri. Non vorrei sembrare cinico (non lo sono), ma il motivo per cui esiste la letteratura è per sublimare il fatto personale ed elevarlo a categoria universale. Ecco, per quanto mi riguarda io non sono riuscito a venire coinvolto nel dramma personale di Gramellini, che è rimasto lì e mi ha lasciato non dico indifferente ma peggio, infastidito, per una questione tutto sommato comune tirata per le lunghe fino allo sfinimento, senza neppure qualche altra complicazione interessante a movimentare le vicende narrate. Insomma, a parte il fatto di essere orfano (e me ne dispiace) all'io narrante non sembra essere successo nient'altro di interessante, se non aver dovuto mangiare cibo a lui poco gradito alla mensa scolastica. Il colpo di scena finale mi ha un poco riappacificato con il libro come quando, in un giallo, si resta sorpresi dall'identità dell'assassino: la madre non è morta di cancro, ma si è suicidata gettandosi dalla finestra, convinta di non avere speranze di guarigione. Il dramma, in effetti, diventa più coinvolgente. Ma il libro finisce qui, senza che la brusca sterzata comporti una reazione: sembra quasi che la rivelazione permetta la liberazione da un lutto finalmente elaborato, e francamente non si capisce perché uno debba essere stato trent'anni sconvolto dal sapere la mamma morta di malattia, e debba rappacificarsi con il suo ricordo nello scoprirla suicida. Uno si figura il contrario, piuttosto. Perciò, eccomi qua a dire che, francamente, non ho capito il senso di tutto ciò. Probabilmente,non è il mio genere. Però, quando leggo Isabel Allende anche le mamme che muoiono mi fanno piangere. E qui no. Allora?



JOYLAND 
di Stephen King 
Sperling & Kupfer, 2013, 360 pagine, 19.90 euro 

E' un romanzo di Stephen King, ma non "alla" Stephen King. Chi si aspetta di aver paura, o di leggerlo con l'angoscia, resterà deluso. C'è un solo morto ammazzato narrato in diretta, e non fa neppure troppa impressione. Poi ci sono alcuni delitti avvenuti in passato, ma di cui il protagonista sente solo raccontare. C'è un fantasma (anzi, due), ma che non spaventa nessuno. Per il resto, è una storia d'amore, di amicizia e di buoni sentimenti. Un po' come il racconto-capolavoro "Il corpo", in "Stand by me". Diciamo che il filone è quello. Giovane, come i ragazzi di quella vicenda, anche se un po' meno, è il ventenne Devin Jones che, per pagarsi gli studi, decide di lavorare l'estate del 1973 in un parco giochi della Carolina del Nord, "Joyland", appunto. E mentre è lì a far divertire la gente vestendo il costume della mascotte locale, un cane di nome Howie, la sua fidanzatina lontana lo lascia, senza che lui sia mai riuscito nemmeno a farci l'amore. Il lavoro diventa il suo modo di dimenticare, e a "Joyland" stringe rapporti stretti con alcuni suoi coetanei e con i veterani del parco, riuscendo a farsi benvolere da una zingara che predice il futuro e dal vecchio proprietario. Però si dice che nel Tunnel del'Orrore aleggi il fantasma di una ragazza che lì fu uccisa, Linda Gray, non si sa da chi, molti anni prima. Per gioco, più che per altro, Devin e i suoi amici Erin e Tom decidono di indagare. Il fantasma in effetti c'è (anche se lo vede, per un breve istante, soltanto Tom), ma è un'anima in pena che chiede di essere aiutata a uscire, non intende far del male a nessuno. Ad aiutarla provvede Mike, un bambino ammalato di distrofia muscolare, accudito da una ragazza-madre di dieci anni più anziana di Devin, di cui Devin però si innamora. E a far del male è invece intenzionato l'assassino di Linda Gray, uno che lavora nel parco e non vede di buon occhio le indagini sul delitto. Grande scrittura, storia che che prende e che convince, thriller moderato quasi senza sangue, commozione nel finale. Non si tratta di un romanzo epocale che toglie il sonno la notte, ma di una piacevole compagnia che sono lieto di aver avuto. 



GRARIBALDI ERA COMUNISTA
di Luciano De Crescenzo
Mondadori, cartonato, 160 pagine, 17 euro 

Sono abituato a comprare i libri di De Crescenzo da quando lessi "Storia della Filosofia Greca" e mi folgorò. Tuttavia, devo ammettere che non tutti i successivi sono stati all'altezza di quello. Alcuni sì, altri decisamente no. Come questo, appunto. Tuttavia, sempre di De Crescenzo si tratta per cui ci si diverte, intendiamoci. Sembra di sentirlo parlare, ed è uomo che sa affabulare e far sorridere. Però, al di là della piacevolezza aneddotica (peraltro talvolta molto superficiale) non c'è da aspettarsi di più. Il sottotitolo recita: "E altre cose che non sapevate dei grandi della Storia". Tuttavia, fra i grandi ci sono anche Adamo ed Eva e Romolo e Remo, che personaggi storici non sono, e un capitolo si intitola "La torre di Babele" che di certo, oltre a non essere storica, non è neppure un personaggio. Il che fa capire che si chiacchiera tanto per fare, si cazzeggia come fra amici al bar, andando là dove ci portano i pensieri, soavemente. Quando De Crescenzo parla poi di gente molto nota come Cavour o Napoleone, finisce spesso per cambiare argomento e spostarsi sull'autobiografico. Per esempio, di Cavour ci dice che regolò la prostituzione per legge e passa a parlare di quando lui, da giovanissimo, andava nelle case chiuse. Di Napoleone quasi non si dice nulla ma si scivola sui francesi giunti a Napoli che obbligarono San Gennaro a fare un miracolo della liquefazione del sangue fuori programma. La cosa più interessante che scopriamo su Lorenzo il Magnifico è che soffriva di gotta (e giù a spiegare cos'è stata la gotta attraverso i secoli). Il capitolo più brillante è quello su Masaniello, popolano partenopeo protagonista di una rivolta contro le tasse e re per una settimana, prima di fare una brutta fine. Il suggerimento a buon Luciano è di scrivere una "Storia di Napoli", come prossimo libro.



UN'AMAZZONE
di Alexandre Dumas
Sellerio, 90 pagine, 1998

Si tratta di un agilissimo libretto contenente un racconto lungo, più che un romanzo breve, di Dumas. Folgorante l'incipit della "Premessa": "Una delle più grandi disgrazie della verità, è di essere inverosimile". Un aforisma degno di essere scolpito sulla pietra. L'autore lascia intendere che la vicenda di cui è in procinto di raccontarci sia vera. Poco importa, dato che il racconto è intrigante.  A Parigi, a metà Ottocento, un giovane affitta un appartamento che si affaccia sulle finestre di un palazzo di fronte, separate soltanto da uno stretto cortile. Poco dopo, a una festa in maschera, gli capita di venire intrigato e irretito da una misteriosa donna in costume, con il volto celato, che non vuol dire il suo nome né mostrarsi in viso ma che, attraverso tutta una serie di indizi seminati nei giorni successivi, riesce a fargli capire che cosa deve fare. Si tratta di collocare un'asse di legno fra la sua finestra e quella dirimpetto e raggiungerla di là. La ragazza che gli si rivela una volta attraversato il cortile, nottetempo, in quel modo rocambolesco, è bellissima e appassionata. Gli si concede senza limiti, al solo patto che lui non parli in giro della cosa e non chieda di vederla in altro modo, pena la morte. Il giovane accetta ma, a un certo punto, spaventato dalla stranezza di quella relazione, decide di troncarla senza dir niente alla fanciulla, semplicemente cedendo l'appartamento a un amico. Costui, giunto in una sera di nebbia,vede l'asse nell'appartamento e... il resto, ovviamente, è descritto da Dumas nell'ultimo capitolo. Non si tratta de "I tre moschettieri" ma è comunque una piccola perla. Il consiglio è di non trascurare, sulla bancarelle o sugli scaffali, libretti oscuri e poco noti come questo, e prendere il vizio di leggere anche i racconti minori.



INFERNO
di Dan Brown
Mondadori, 2013, cartonato, 530 pagine 

Ci sono pro e contro di cui tener conto. Cominciamo dai pro. Come quasi tutti i romanzi di Dan Brown, la lettura è avvincente. Ogni capitolo lascia con la voglia di andare avanti e a un certo punto il racconto si fa ipnotico, non si riesce a smettere di leggere. Il set principale è Firenze, e chi la conosce (come credo di poter dire di conoscerla io) ritrova effettivamente strade, palazzi, modi di dire e di fare. Il che testimonia una notevole documentazione e, probabilmente, ripetute visite dell'autore sui luoghi da lui descritti. In più, a ogni piè sospinto si scoprono curiosità e aneddoti poco conosciuti che invogliano ad andare a visitare la città. Lo stesso vale per le altre due mete del peregrinare di Robert Langdon: Venezia e Istanbul. I colpi di scena non mancano, e fino alla fine si viene ingannati perché niente o quasi è come sembra. Il romanzo, inoltre, è pieno d'azione, non ci sono momenti di stanca o punti morti, il ritmo è serrato e rocambolesco. Infine, la tematica di fondo che sostiene la trama è il problema della sovrappopolazione del pianeta, che rischia di portare al collasso il genere umano: un argomento intrigante. Passiamo ai punti negativi: la scrittura di Dan Brown è prossima al grado zero della letterarietà. Lineare, chiara, semplice, efficace, dunque funzionale alla comunicazione immediata, ma dal punto di vista stilistico, dell'approfondimento psicologico o dell'intento descrittivo filtrato da un approccio artistico, non c'è trippa per gatti. Il che potrebbe anche non essere un difetto, se non si cerca niente di più che un blando intrattenimento. Altro problema: siamo alle solite, Langdon ha sempre a che fare, come già nel "Codice Da Vinci", con qualcuno che lo vuole acchiappare e lui fugge da un posto a un altro svelando degli enigmi come in una caccia al tesoro. Ci sono sempre degli indovinelli da risolvere mentre dei cattivi, o presunti tali, gli sono alle calcagna e talvolta gli sparano addosso. Troppa ripetitività, troppi deja vu in questo schema. Che poi, nel caso di "Inferno", non si capisce neppure bene perché mai il biologo Bertrand Zobrist abbia dovuto lasciare tutti quegli enigmi da risolvere, invece di mettere semplicemente in atto il suo piano o, al limite, lasciando un solo messaggio in codice. Per avviarci a finire, nello sforzo di sorprendere come il prestigiatore che mescola le carte, Dan Brown finisce per deludere perché la spiegazione che fa capire come ci fossimo ingannati è, spesso, qualcosa di minimale o di involontariamente umoristico. Se crediamo per tutto il libro che ci sia un personaggio colpito dalla peste bubbonica e poi scopriamo che ha soltanto una dermatite di origine allergica, è chiaro che siamo sorpresi, sì, ma anche un po' perplessi, come quelli che chissà che avevano pensato e invece tutto si risolve in una cosetta di poco conto. Circa il finale, in realtà la vicenda non si risolve e l'eventuale soluzione si dà per rimandata: chi voleva cambiare la storia l'ha cambiata davvero, e Dan Brown sembra fare il tifo per lui (senza avere tutti i torti, peraltro). Ciò detto, decidete da soli se questa recensione è positiva o negativa.



IL DIAVOLO SULLA SIERRA
di Angelo Solmi
Rizzoli, 1978, 200 pagine

Si tratta di un angosciante saggio storico sul tristemente famoso “Donner Party”, ovvero una spedizione di carri di emgranti che, nel 1846, prese il nome da George Donner, un pioniere nativo della Carolina del Nord ma da tempo trasferitosi in Illinois, da dove pensò di condurre la sua famiglia in cerca di fortuna fino in California. In realtà, costui non volle mai essere considerato né un capo né una guida, e pur essendo (secondo tutte le testimonianze) un brav’uomo, non aveva la stoffa del condottiero, rivelando anzi in più occasioni il suo carattere irresoluto. Tuttavia, il destino volle legare al lui la denominazione di una delle più raccapriccianti tragedie della storia della colonizzazione dell’Ovest americano.  Negli anni in cui la carovana Donner partì da Springfield, diretta verso le terre affacciate sul Pacifico (un viaggio di oltre tremila chilometri di piste impervie, o addirittura assenti), nelle sovraffollate città dell’Est degli Stati Uniti, sempre più oppresse dall’arrivo di immigrati europei, si era diffusa la convinzione che la California fosse una sorta di Eden in cui il clima salubre, l’abbondanza di terre da coltivare e la ricchezza diffusa avrebbero consentito a tutti una vita lunga e felice. Circolavano anche libri, come “The Emigrant’s Guide” di Lansford W. Hastings, che spiegavano come ci si dovesse organizzare per il viaggio e come, tutto sommato, il tragitto fosse alla portata di chiunque. Fu così che, come molti altri, anche i circa novanta pionieri aggregati attorno a George Donner si misero in cammino con tutti i loro averi, caricati su pesanti cari. Purtroppo, imprevisti e incidenti di ogni sorta rallentarono la spedizione, e a segnarne il tragico destino ci fu anche la defezione della guida che era stata ingaggiata perché mostrasse loro il valico per attraversare le Montagne Rocciose. Fu così che, avendo incautamente deciso di percorrere, senza le necessarie indicazioni, una scorciatoia che avrebbe consentito un più rapido arrivo sul versante occidentale, il gruppo, dopo sofferenze inenarrabili, si trovò bloccato dalla neve invernale nei pressi del Lago Truckee (oggi Donner Lake), sulla Sierra Nevada, a poche decine di miglia dalla salvezza ma assolutamente impossibilitato a proseguire. Soltanto nella primavera successiva, quella del 1847, una spedizione di soccorso riuscì a portare del cibo agli uomini rimasti intrappolati tra i ghiacci. Fu scoperto così che quarantotto superstiti avevano potuto rimanere vivi soltanto divorando i morti. Fra le vittime c’era anche George Donner, il cui cadavere era stato profanato dall’asportazione di alcune parti. Lo scenario che si offrì agli occhi dei soccorritori fu sconvolgente. Nelle capanne costruite alla bell’e meglio in riva al lago furono trovati corpi sventrati, teschi spezzati, corpi umani mutilati con gambe e braccia sparpagliate alla rinfusa o messe a cuocere in dei pentoloni. Le testimonianze dei sopravvissuti, molti rirovati in stato di shock e con evidenti segni di alienazione, rivelarono che si era trattato di scegliere fra morire di fame o vivere mangiando, sia pure con sommo disgusto, la carne umana. Nessuno perseguitò i cannibali riportati alla civiltà. Solmi ricostruisce la vicenda con dovizia di particolari sulle vicende personali di tutti i protagonisti e con partecipazione emotiva. Un libro da recuperare sulle bancarelle dell'usato.




GIANCARLO BIGAZZI
IL GENIACCIO DELLA CANZONE ITALIANA
di Aldo Nove
Bompiani, 2012, 220 pagine

L'introduzione dell'autore comincia così: "E' come aprire l'archivio delle nostre emozioni, gettare lo sguardo sulla sconfinata produzione di Giancarlo Bigazzi, Un archivio da subito entusiasmante. E sconcertante. Chi potrebbe infatti immaginare che 'Rose rosse', portata al successo negli anni Sessanta da un giovanissimo Massimo Ranieri, e 'Self Control' di Raf sono state scritte dalla stessa persona?".  Una persona, peraltro, in grado di scrivere colonne sonore cinematografiche (sua è quella di "Mediterraneo", film vincitore di un Oscar) senza conoscere la musica; così come di guidare il talento altrui, sapendolo riconoscere in erba, riuscendo ugualmente ad adeguarsi alla personalità di artisti già notissimi; arrivando a scrivere testi di infinita poesia come darsi alla prosaicità più triviale con la valvola di sfogo degli Squallor. Duecento milioni di dischi venduti in tutto il mondo indicano un fenomeno che dovrebbe essere oggetto di studio, e meno male che Aldo Nove (scrittore, poeta e autore teatrale) ci ha pensato pubblicando il suo libro pochi giorni prima della scomparsa di Bigazzi (infatti, è uscito nel gennaio del 2012 e non si accenna alla morte, avvenuta il 19 di quel mese). Come ricorda giustamente l'autore, persino il papa Giovanni Paolo II affacciandosi dalla finestra sopra il colonnato una volta cominciò a intonare "Si può dare di più" e tutta la piazza lo seguì in coro. Fra le tante cose che si potrebbero citare, mi sono segnato questa testimonianza di Aldo Nove che coincide con la mia esperienza: "Una delle canzoni di Bigazzi che più hanno sconvolto chi scrive è 'Ti amo', cantata da Umberto Tozzi nel 1977. Ero bambino e mi trovavo a una festa di paese. Quando dagli altoparlanti iniziò a diffondersi la musica di 'Ti amo' mi accadde una cosa irripetibile: era come se tutto si fermasse di fronte a quelle note e quelle parole. Il mio respiro si legava alla musica in un'unica vibrazione della vita, della mia vita, nella magia di una canzone. Sapevo, in quell'istante, sentivo con certezza che avrebbe superato gli anni e i decenni". Raccontare la vita di Bigazzi significa raccontare anche la storia dell'Italia del Dopoguerra e della società del nostro Paese. Molte pagine sono dedicate alla Firenze di allora, dove Giancarlo crebbe, e della Roma di allora, dove Giancarlo studiò, fino all'incontro con Ettore Carrera, nel 1966, che gli aprì le porte della grande famiglia Sugar e la possibilità di lavorare, da funzionario di banca con qual era, nel mondo della musica. Bello anche il racconto della lunga e complicata storia d'amore con la moglie Gianna, complicata com'era complicato lui, Bigazzi, iperattivo e nevrotico al punto da avere crisi notturne ricorrenti in cui non riusciva a smettere di fischiettare una canzone che gli premeva dentro e doveva essere partorita. Tante le foto a corredo del testo, ma la parte più bella è la postfazione dello stesso Giancarlo, probabilmente l'ultima cosa da lui scritta. Finisce così: "Grazie di cuore a tutti voi che mi avete permesso di cavalcare a suon di musica questo mezzo secolo. Mi ritengo un privilegiato. Spero di aver contraccambiato donandovi, con le mie canzoni, qualche momento piacevole da ricordare o, meglio ancora, da fischiettare".




CAPACITA' NASCOSTE 
a cura di Sergio Rilletti e Elio Marracci
No Reply, 2012, 250 pagine, 12 euro

Si tratta di una raccolta di racconti noir sul tema della disabilità. "La prima antologia diversamente thriller", recita il sottotitolo. Si tratta di 25 brevi (e talvolta fulminanti) storie scritte da autori noti e meno noti, ma tutti molto bravi, tra cui Andrea G. Pinketts, Andrea Carlo Cappi, Claudia Salvadori, Mario Spezi, Luca Crovi, Andrea Scotton e molti altri. In ciascuno, il protagonista è un diversamente abile che, proprio grazie al proprio handicap, o in ragione di esso, viene a capo di una situazione drammatica o vi si trova coinvolto. Uno dei curatori, Rilletti, è appunto un tetraplegico (a cui è accaduta realmente una disavventura che sarebbe stata degna di un romanzo di Stephen King). Per saperne di più: www.noreply.it




VERGA FOTOGRAFO
a cura di Giovanni Garra Agosta
Giuseppe Maimone Editore, 1991, 330 pagine

E' un volume che raccoglie l'opera omnia fotografica d Giovanni Verga, verista anche in fotografia oltre che in letteratura. Gli scatti verghiani, compreso un autoritratto del 1887, ci restituiscono la Sicilia dell'epoca come se ogni scatto fosse un racconto. Ci sono soprattutto persone e scena di vita dei campi, pure emozioni che il tempo (che ha ingiallito lastre e negativi) non cancella.



BLACK SABBATH
TESTI COMMENTATI
di Eduardo Vitolo
Arcana, 2012,260 pagine, 16.50 euro

"Se non ci fossero stati i Black Sabbath non ci sarebbero stati i Metallica e io avrei continuato adistribuire i giornali", dichiara Lars Ulrich dei Metallica. Eduardo Vitolo spiega perché la band di Birmingham di Ozzy Osbourne e Tony Iommi abbia segnato in maniera indelebile l'hard rock e l'heavy metal che conosciamo, e racconta come il disagio sociale di quartieri suburbani abbia potuto dar vita a brani così potenti e dai testi tanto evocativi.



365 STORIE D'AMORE 
a cura di Franco Forte, 
Delos Book, 2013, 380 pagine, 14.90 euro

E' il regalo ideale per San Valentino: 365 autori, 365 racconti, uno per ogni giorno dell'anno. Ogni racconto, lungo soltanto una pagina. I testi sono stati selezionati fra quelli proposti dai partecipanti al forumwww.writersmagazine.it/forum. Fra essi, il racconto del 5 aprile, "Il ragazzo nerd e la ragazza di burro", è firmato da Lorenzo Bartoli e quello del 16 gennaio, intitolato "Chimica relazionale", è opera di Marco Frosali, uno degli abitueé della mia pagina Facebook, dei raduni zagoriani e dell'account Twitter che mi riguarda. Per saperne di più, www.delosbooks.it.



Claudio Gallo, professore universitario veronese e massimo esperto salgariano vivente, mostra con orgoglio li libro "Cuore di Tigre", curato da lui e da Luca Crovi (Piemme, 340 pagine, 16.50 euro). SI tratta di una brillante antologia in cui 14 famosi scrittori italiani di oggi si cimentano con gli eroi e le tematiche care a Emilio Salgari. E, ad aprire le danze, c'è proprio il primo racconto del Capitano, "I selvaggi della Papuasia" (1883). Tra i nomi degli autori chiamati in ballo ci sono Buricchi, Cacucci, Carlotto, Colitto, Lucarelli, Malvaldi, Milani, Wu Ming 5. Imperdibile.