Non più tardi di un paio di mesi fa, durante un viaggio lontano da casa, sono capitato davanti alla vetrina di un negozio specializzato in T-shirt dalle scritte originali, e ho visto la maglietta che faceva per me. Con una grafica accattivante, una frase stampigliata sul petto diceva: “Non sono su Facebook”. Purtroppo, la rivendita era chiusa e io dovevo ripartire, per cui la maglietta è rimasta lì. Secondo me, c’è ancora: temo infatti di essere l’unico, almeno nei paesi del G20, a non essere su Facebook. Se non la compro io, quella T-shirt chi se la compra?
Come forse ricorderete, mi è capitato di accennare altre volte alla mia assenza dal più frequentato dei social network, assenza senz’altro inseribile nel lungo elenco delle cose che tutti fanno e io no (non ho mai visto una partita di coppa, non ho mai giocato alla playstation, non ho mai scaricato un film con eMule, non ho mai dormito in tenda, non ho mai ascoltato il discorso del presidente la sera di San Silvestro, non ho mai esposto una bandiera alla terrazza di casa, eccetera). Parlandone, ho fatto lo sbaglio di promettere che un giorno avrei spiegato il perché. Perciò, sono costretto a mantenere l’impegno, dato che anche di recente qualcuno me lo ha ricordato (promettendomi a sua volta che avrebbe cercato di farmi cambiare idea).
In realtà, accingendomi a scrivere, temo di dover fare la stessa premessa fatta quando parlai dei readers per e-book: e cioè, spiegare come io sappia già che mi pentirò di quanto sto per dire, potendo ogni affermazione venire usata contro di me a riprova della mia incoerenza, se non della mia ottusità. Sicuramente, presto sarò costretto a mutare atteggiamento. L’evolversi delle cose mi renderà inevitabile usare Facebook così come leggere i libri elettronici. Tuttavia, questo articolo servirà se non altro a fotografare un momento della mia vita, questo in cui non sono ancora un frequentatore della piazza telematica più affollata del mondo, e a spiegare al me di domani (ormai convertito all’uso dilagante) i motivi della mia renitenza.
Immagino che il motivo per cui prima o poi (temo più prima che poi) cederò anch’io alle sirene di Zuckerberg sarà prosaicamente pratico: chi partecipa a eventi pubblici, si dà all’arte e pubblica libri, ha in Facebook uno straordinario veicolo di pubblicità e di promozione. Quando l’amico Giorgio Giusfredi ha organizzato la presentazione lucchese del mio romanzo “Le mura di Jericho”, ha fatto circolare la notizia nel giro delle sue amicizie internettiane, e di amico in amico la voce si è sparsa: l’evento è stato un successo. La parola “amicizia” in questo caso va ovviamente intesa nel senso di “condivisione di uno spazio su Facebook”, e questo ne sminuisce molto la portata: i miei figli hanno centinaia di persone a cui hanno accordato la loro “amicizia” su Facebook, ma non sanno neppure chi siano molte di loro. Già questo abuso (nel senso di vero e proprio stupro) di una parola in qualche modo sacra potrebbe bastare a far storcere il naso. Tuttavia, non sono tipo da formalizzarmi per cui sono senz’altro disposto a tollerare l’uso di una terminologia impropria che diviene propria se inserita in uno slang (come magari fanno i massoni, per esempio, per cui si dice “muratore” intendendo ben altro da quel che di solito si intende). E, certamente, la possibilità di far conoscere il proprio lavoro o promuovere la propria attività è un’opportunità da non sottovalutare. Purtroppo, ci sono però delle evidenti controindicazioni.
Quel che ho sentito dire, e visto sbirciando nei computer altrui, mi ha lasciato molto ma molto perplesso, al punto da farmi chiedere come sia possibile che gli altri (non io) accettino di sottoporsi allo stress e ai rischi che l’uso di Facebook comporta. Parlerò prima degli altri e poi di me, perché io sono sicuramente un caso anomalo: la mia nota idiosincrasia verso l’elettronica mi rende difficile persino far partire un lettore CD, figuriamoci aprire un profilo su un social network: io non faccio testo. Dunque gli altri si iscrivono a Facebook. La prima cosa che viene da chiedersi è: ma sono matti? Razionalmente, è qualcosa di inspiegabile.
Vediamo perché. Per cominciare, già all’inizio si deve superare un terzo grado da stato di polizia, dichiarando le generalità complete della carta di identità, le scuole frequentate, il luogo di lavoro, l’indirizzo della mamma, il telefono della fidanzata, il numero di scarpe, il peso, il giro vita e perfino le idee politiche. In seguito, poi, viene chiesto di dire “mi piace” o “non mi piace” alle più svariate linee di pensiero, aderendo a gruppi che chiedono la proibizione per legge del gorgonzola piuttosto che l’impiccagione in piazza Loreto del primo ministro di turno. Il che va pure bene, per carità, ma se poi uno manda il curriculum per essere assunto in una ditta il cui titolare è ghiotto di gorgonzola e porta all’occhiello la coccarda del partito politico del primo ministro? E’ ovvio che se dovessi assumere qualcuno, per prima cosa andrei a fare un giro sul profilo Facebook del candidato a leggere un po’ delle stupidaggini che scrive.
La cosa grave è che quel che uno scrive, inserisce e dichiara su Facebook non resta confinato in un sito accessibile soltanto a pochi intimi, dove ci va soltanto chi sa dove andare, ma è di pubblico dominio nella vasta cerchia della propria parentela e dei propri amici e conoscenti. Se uno apre un profilo, è quasi inevitabile che abbia fra i contatti la moglie e la fidanzata, magari anche la mamma e lo zio. Vorrei vedere chi riesce a nascondere alla consorte o a uno qualunque del proprio entourage di essere su Facebook, sia pure sotto falso nome: fatti magari chiamare Abelardo Mortesecca, ma se metti una foto nel profilo e ti fai accettare come amico da una collega, tutti gli altri dell’ufficio ti vedranno nella pagina di lei. O ti sgameranno da ciò che dici. Poi, vallo tu a spiegare alla moglie perché lei non è fra le tue amicizie e quella collega sì. Quindi, chi usa Facebook si deve rassegnare ad avere in lista tutti, ma proprio tutti, gli amici e i parenti (più una quantità di infidi sconosciuti da cui ci si può aspettare qualsiasi cosa).
Ora, se il capoufficio fantozzianamente cinefilo invita qualcuno a vedere una rara copia de “La corazzata Potemkin” con sottotitoli in cecoslovacco, e il sottoposto si dichiara mortalmente dispiaciuto di non poter andare in quanto trattenuto al capezzale della nonna moribonda, mentre invece invita gli amici a casa a vedere in DVD “Giovannona Coscialunga”, come potrà impedire che dai commenti degli altri su Facebook la bugia non venga scoperta? “Dove vai, caro?”, chiede la moglie al marito Gino. “Michele mi ha chiesto di aiutarlo a svuotare il solaio”, risponde il consorte. Poi, il giorno dopo, la moglie scopre una cartella di foto, scattate magari da un comune conoscente, in cui si vedono Gino e Michele in prima fila davanti a una ballerina di lap dance.
Mi si dirà: male non fare, paura non avere. Oh, beh, io posso non aver paura di niente, ma non è di me che stiamo parlando: è del resto del mondo. Possibile che nessuno tema questi rischi, con tutta la gente che ne combina (e nella maggior parte dei casi fa benissimo) di cotte e di crude? Ma, poi, suvvia, non importa che ci siano cose particolarmente gravi da nascondere. Chiunque può trovare una scusa per evitare di incontrare qualcun altro in un momento in cui non è il caso. Come evitare che la balla, pur innocua e magari a fin di bene, venga scoperta per vie traverse? Possibile che non si rompano amicizie, finiscano matrimoni, si creino guai, si viva nell’angoscia per colpa di quello che si può leggere su Facebook? Magari chi scrive una cosa non immagina nemmeno di stare per provocare un maremoto. Basta uno che digiti: “Ho visto Ludovico in piazza Garibaldi, ieri sera” o metta una foto in cui per l’appunto Ludovico passeggi ignaro sotto il monumento equestre dell’Eroe dei Due Mondi, ed ecco l’amico, il collega, la moglie, la mamma di Ludovico trasecolare: “Come, in piazza Garibaldi? Ma non mi aveva detto che era in ufficio a fare gli straordinari?”. Magari Ludovico era lì di nascosto per comprare un regalo da consegnare alla persona che trasecola, ma allora ecco che Facebook o sciupa la sorpresa o sciupa il clima in cui il regalo avrebbe dovuto essere consegnato. In ogni caso, un disastro.
Ma c’è di peggio. Ammettiamo che io mi iscriva, semplicemente cliccando su un “mi piace”, a un gruppo che è favorevole all’eutanasia o alla riapertura delle case chiuse. Ecco magari scatenarsi un caso famigliare con la mamma, lo zio prete, l’amico bigotto. “Ma davvero tu pensi queste brutte cose?”. E giù a dover spiegare il perché e il percome, a persone a cui tieni e che comunque vada da quel momento in poi ti guarderanno con sospetto. E se uno scrive che è di destra, o di sinistra, in un ambiente di lavoro di segno opposto? Automaticamente, verrà ostacolato, estromesso, ghettizzato o chissà che da quelli abituati ad attribuire etichette politiche agli altri e ad agire di conseguenza (io non lo farei mai, ma purtroppo c’è chi lo fa ed è uno dei motivi per cui detesto gli schieramenti politici). Non serve neppure che uno dichiari per chi vota, per scatenare questo tipo di ostracismo: basta semplicemente aderire a qualche gruppo, pur sacrosanto, ideologicamente schierato. Il che non significa che uno non debba mai schierarsi, figuriamoci, però ogni cosa andrebbe fatta nel giusto contesto: perché mai, di fronte ai suoi figli e agli amici dei suoi figli, un padre dovrebbe dire di essere un assiduo frequentatore, con la moglie, di un club privè dove si fanno gli scambi di coppia? E’ una pratica senz’altro divertente e del tutto raccomandabile, ma parliamone tenendo in considerazione l’uditorio e calcolando le conseguenze.
I primi che, se fossero furbi, non dovrebbero iscrivere a Facebook sono, ovviamente, gli adolescenti e i giovanissimi. Questo perché i loro genitori scopriranno tutto quello che fanno semplicemente facendosi accettare (con il loro vero nome o spacciandosi per loro coetanei) tra gli amici dei figli.
Un’altra delle cose tremende di Facebook è la chat. Ora, la chat è una cosa tremenda dovunque la si faccia: è una assoluta, inutile perdita di tempo, uno vuoto pneumatico che non di rado porta l’abbrutimento più totale (nella mia esperienza, in chat si dicono e si scrivono soltanto cazzate, e la volgarità del termine è funzionale al discorso). Ma, giustamente, ognuno è libero di passare il tempo come crede, anche dandosi martellate sugli attributi. Il guaio è quando la chat monopolizza le menti e impedisce di lavorare, dormire, vivere. C’è gente che chatta a tutte le ore, anche dall’ufficio dove, di regola, si dovrebbe fare ben altro. Finché uno lavora in proprio, fatti suoi: ma se a chattare sono gli impiegati del comune che dovrebbero sbrigare una mia pratica, la cosa mi indispettisce un po’. Il problema è che con Facebook uno si ritrova con molta facilità ad avere cento, duecento, trecento contatti i quali, in ogni momento, possono inviare un messaggi privato. Cioè, tu sei lì che vuoi leggere o scrivere qualcosa nel modo più veloce possibile, perché giustamente hai da fare altro, ed ecco che Tizio, Caio e Sempronio, che invece non hanno niente con cui gingillarsi, ti chiedono contemporaneamente di conversare. Che fai? Se non rispondi, sembri scortese. Se disabiliti la chat, quelli si lamentano: “Eh, ma tu non ci sei mai”.
L’affollamento dei contatti poi porta a una incredibile serie di annunci che ti avvisano: “Pinco ha scritto un messaggio sulla pagina di Pallino”. Ma chi se ne frega! Perché me lo devono dire? Se uno ha cento amici e tutti scrivono cinque cose sulle pagine di altri cinque, mi ritrovo informato di duemilacinquecento messaggi altrui di cui non mi importa una beata mazza (e se me ne importasse, vuol dire che sarei malato). Il guaio è quando qualcuno scrive qualcosa sulla tua pagina. Già, perché, che io sappia, quel che uno scrive appare immediatamente senza moderazione e tutti i tuoi contatti (cioè le persone più care, i parenti, gli amici, i colleghi, gli allievi) lo possono vedere. Ora, tutti hanno dei rivali. Gente invidiosa, colleghi convinti che tu gli abbia fatto le scarpe, mariti delle colleghe con cui hai avuto una tresca (o convinti che sia così anche se non è vero, ovviamente perché lei non te l’ha data e non perché tu non ci abbia provato), ex amanti gelose, frequentatori della sauna gay a cui hai inavvertitamente dato il tuo contatto. E se uno di questi esce fuori con un racconto o con delle foto che ti sputtanano? E se le mette su Facebook durante la tua settimana bianca così che per sette giorni non le puoi togliere e tutti, ma proprio tutti, i tuoi contatti hanno letto e visto? Si badi bene: potrebbero essere anche cose non vere, ma intanto qualcuno le ha dette e poi dopo valla a fermare la calunnia. Mi si dirà: sono cose che non succedono. Vabbé, è come quando si va al mare e ci dicono che in quel punto di costa gli squali non ci sono. Vorrei sapere che cos’è che impedisce a uno squalo di esserci. Io non nuoto mai del tutto tranquillo, se non in piscina. Iscriversi a Facebook vuol dire, in pratica, vivere nel terrore.
In una testimonianza raccolta su Internet si può leggere:
“Mi è capitato di cancellare un contatto (è troppo chiamarla ‘amica‘) dopo averle permesso di imbrattarmi la home con la sua iscrizione a dodici gruppi. C’è chi si lascia, chi si separa, e chi molla tutto per andare alla ricerca di un contatto su Facebook, al quale pensa durante tutto il giorno, idealizzando e creando nella propria testa un mito, magari con un semplice messaggio di posta inviato, o due minuti di chat condivisa! Avevamo msn messenger e lo abbiamo tolto perché nonostante mettessi il tuo stato su ‘occupato‘ avevi talmente tanti contati che non riuscivi a fare una ricerca su Internet o a finire di scrivere un pezzo, che ti lampeggiava in arancine il nome di qualcuno, oppure (oddio) il trillo(!)… nooo…i trilli! Che odio! L’instant message è diventato una caccia all’uomo, un modo di comunicare peggio degli sms: inespressivo, dove non metti una virgola, un punto,dove non puoi dare e far capire il tuo tono, ed il tuo stato! L’altro è più veloce di te ha scrivere! E’ la fine! Non farai mai in tempo a dire un pensiero che sarà passato già ad altri dieci discorsi. Mario dice che non si vuole iscrivere a Facebook se no si lascia con la ragazza. Lorenzo dice che si è cancellato da Facebook, per continuare a stare con la propria moglie. Luca ha cancellato Maria dai suoi contatti perché la loro storia è finita e non vuole più saperne di lei, vedere e sapere quello che fa lo fa solo stare male. Manuela non ha tra i contatti suo marito, perché sennò impazzirebbe di gelosia, e inizierebbe a dubitare di lui. Silvia ha cancellato Edoardo, perché ha letto che Marina ha scritto sul suo wall ed ha pensato che… Federica e Paolo hanno un account in comune, perché si amano e non hanno segreti (allora chi non lo ha in comune ha dei segreti?). Marco, con Facebook ci lavora soltanto e nessuna donna gli scrive messaggi ambigui! Tutte storie vere, magari con nomi inventati…ma tutto vero! Con questo non voglio assolutamente dire che senza Facebook i rapporti andrebbero a gonfie vele, e trionferebbe l’amore eterno…no! Non è così, ma sicuramente vivere con l’ansia, e l’angoscia (curiosità) che non sappiamo cosa fa il nostro amico, perché la sua amica ha scritto quello e perché si connette e non scrive nulla o perché si connette, scrive sui wall degli altri, ma poi cancella dal suo profilo che ha scritto sul quel wall!”.
Anche la supertecnologica Patrizia Mandanici ha qualche dubbio:
“Mi sono ritrovata iscritta senza il mio consenso a un gruppo. Facoltà certo riservata agli "amici", ma vorrei conoscere qualcuno che ha 'amici' su Facebook di cui sa abbastanza da fidarsi dei suoi gusti in tutti i campi, compresi quelli politici e ideologici. Io tra gli 'amici' ho tanti appassionati di fumetti che non ho idea se siano nazisti, omofobi, clericali, o che so io; se questi mi iscrivessero a forza in un gruppo di cui non condivido le idee e i propositi io lo verrei a sapere tramite una email, e poi dovrei comunque andare sulla pagina del gruppo per disiscrivermi. Questo ammesso che io non abbia il computer rotto, non sia in vacanza o malata; altrimenti per giorni risulterei una sostenitrice di quel (possibile) abominevole gruppo. Questa cosa a quanto pare succede da quasi un anno, abbastanza sottaciuta. Per me è una cosa molto più che fastidiosa, direi che potrebbe diventare la classica goccia che fa traboccare il vaso e che potrebbe farmi decidere di andarmene da Facebook. Ci sono già diverse cose che non vanno in quel posto, gestione della privacy in primis: perché bisogna sempre informarsi altrove per settare al meglio le varie opzioni? Perché di default in tutti i vari servizi deve essere tutto aperto, piuttosto che iniziare dal massimo della ristrettezza che poi noi, se vogliamo, andiamo ad 'aprire'? Perché non esiste neanche un settaggio in cui io possa rifiutarmi a priori di essere iscritta a un gruppo (o dove perlomeno mi arrivi una mail in cui io possa accettare oppure no?)”.
Uno dei vantaggi che, mi dicono, si avrebbero aprendo un profilo su Facebook è che così ti puoi far ritrovare da tutti i vecchi compagni di scuola, quelli dell’università, gli ex colleghi o gli amici d’infanzia. Orrore! C’è gente (non io, per carità) che non li sopporta, i vecchi compagni di scuola, altri che impiegano anni a far perdere le proprie tracce a certi seccatori, altri ancora che sono contenti di cambiare città o spiaggia o bar per non rivedere persone da cui sono assillati e infastiditi, e uno appena si iscrive al social network di Zuckemberg se li ritrova tutti fra i piedi? Non parliamo poi degli stalker. O dei perditempo, dei guardoni, degli spioni, dei morbosi, dei curiosi, degli impiccioni, dei malevoli o dei malintenzionati. Come si fa a mettere su Facebook le foto della propria figlia e non temere di attirare l’attenzione di un pedofilo? O a dire pubblicamente “per un mese sarò in vacanza all’estero” e non aver paura che arrivino subito gli scassinatori? Come si fa a non lasciarsi sfuggire nessun dato sensibile di cui i delinquenti sono a caccia, fosse anche soltanto un indirizzo, una password, un numero di telefono, un codice IBAN? E anche se non ci se lo fa sfuggire, come si fa a non vivere nell’angoscia di averlo fatto?
Tutto quanto che ho scritto finora pone dei dubbi non tanto, ripeto, alla mia iscrizione a Facebook ma a quella degli altri. Stando così le cose, perché gli altri si iscrivono? Mah. Se penso poi a che cosa capiterebbe se mi iscrivessi io, sorgono altre perplessità. Io faccio un lavoro che mi espone al giudizio del pubblico. Il mio nome, sia pur nel ristrettissimo ambito del fumetto italiano, è moderatamente conosciuto. Posso ragionevolmente immaginare che, se aprissi un profilo, avrei con facilità alcune centinaia di lettori che mi chiederebbero l’amicizia, che io sarei ben lieto di concedere. Bene: per non deludere tutti i miei contatti, dovrei cercare di scrivere qualcosa ogni giorno, o almeno abbastanza spesso: se no, perché avrei aperto il profilo? Anche ammettendo che vada tutto bene e che io non mi ritrovi iscritto a qualche gruppo di sostenitori della pedofilia o di propugnatori della razza ariana, di sostenitori della dittatura del proletariato o dell’omofobia, ogni giorno mi ritroverei collegato avendo alcune decine di messaggi personali a cui rispondere. Facendolo, mi troverei alcune richieste di chat. Dovrei andare a vedere che ha scritto il mio collega autore rispondendo a un suo contatto, perché magari la cosa mi riguarda. Dovrei scremare le segnalazioni di link, di video, di blog, di test, che pioverebbero da ogni dove. Morale della favola: dovrei fatalmente dedicare un’ora al giorno a questo tipo di attività. Il che vuol dire trenta ore al mese, trecentosessatantacinque ore in un anno. Avete idea di quante pagine di Zagor potrei scrivere in quelle ore? Di quanti libri potrei leggere? Con quante coccole potrei vezzeggiare la mia fidanzata. Ahimé, è chiaro che si tratta di scelte da fare. Per il momento, scelgo di dedicarmi alla fanciulla che mi sta accanto.
Scusatemi, ma ho di meglio da fare.