domenica 24 febbraio 2013

L’ARTE DI ESSERE FELICI





Esattamente un anno fa, in un articolo del 22 febbraio 2012, ho fatto una promessa (o, a seconda dei punti di vista, una minaccia). Scrivevo infatti: “Dell’ Arte di essere felici parlerò un’altra volta, adesso concentriamoci sull’Arte di ottenere ragione”. Stavo parlando di due aurei libretti di Arthur Schopenauer pubblicati da Adelphi, intitolati appunto così. I trentotto, geniali stratagemmi proposti dal filosofo tedesco per vincere comunque in ogni discussione li abbiamo appunto già esaminati dodici mesi or sono. Il mio post in proposito ha avuto un certo successo, dato che è stato ripreso anche altrove.  Adesso, arrivo finalmente a spiegare (per come li ho capiti io) alcuni dei suoi consigli per arrivare a godere della felicità. 

Ammetto che parlare di Schopenauer invece che di calcio, di donne e di videogiochi non garantisce l’incremento dell’ afflusso di visitatori al blog. Anzi, potrebbe farlo drasticamente calare. Ma a me, come si suol dire, non me ne cale. Ognuno ha le sue perversioni e io mi diletto anche in questo tipo di discussioni. Del resto, come scrivevo in passato, i sono filosofi simpatici e filosofi antipatici. Socrate è simpatico. Platone, antipatico. Aristotele, simpatico. Plotino: antipatico. Sant’Agostino, antipatico. San Tommaso, simpatico. Hume: simpatico. Kant: antipatico. Hegel: antipatico. Schopenauer: simpatico. Riuscire a spiegare perché quel vecchio misantropo di Arthur, peraltro tedesco e dunque con un pesante handicap di partenza in qualunque gara di simpatia, possa risultare anche solo moderatamente gradevole agli occhi di uno studente liceale, è difficile come cercare di leggere dall’inizio alla fine Il mondo come volontà e rappresentazione, la sua opera fondamentale datata 1819. Un’opera, va detto, che risultò così indigesta persino ai suoi contemporanei da far finire al macero quasi tutte le copie della prima edizione. Tuttavia, tra i pochi lettori di Schopenauer ci furono di sicuro Nietzche (antipatico) e Freud (simpatico) che rimasero fortemente influenzati dal pessimismo cosmico del filosofo di Danzica.

Ovviamente, de Il mondo come volontà e rappresentazione ricordo solo quello che diceva il Bignami su cui mi preparavo per le interrogazioni al liceo, ma rammento che il succo del discorso mi piaceva: lo scopo della vita è soltanto vivere e pretendere che esista un senso ultimo non è che un tentativo di nasconderci questa amara verità.


Ma arriviamo al dunque: la felicità. Chi abbia letto i miei aforismi sa che, secondo me, la felicità è una leggenda urbana e che chi dice di essere felice sicuramente esagera. Tuttavia, non parleremo di ciò che penso io, ma di ciò che dice  Arthur Schopenhauer ne L’arte di essere Felici, preceduto, nella versione proposta dalle Edizioni Adelphi, da un breve saggio di Franco Volpi che informa, molto puntualmente e chiaramente, di come questo breve trattato di Schopenahuer, un prezioso livre de chevet che fa da pendant con L’Arte di Ottenere Ragione, sia, a differenza di quello, un libro mai scritto.  Anzi, compare per la prima volta in Italia, senza essere stato dato alle stampe neppure in Germania. Questo perché lo si è ricavato dagli appunti sparsi e dalle note che il filosofo aveva lasciato in vari suoi quaderni con la chiara intenzione di raggruppare poi le annotazioni e farne un breve trattato di eudemonologia, ovvero l’arte di comportarsi saggiamente allo scopo di condurre una esistenza felice. I suggerimenti del filosofo sono tutti giusti e illuminanti e valgono la pena di essere letti. Perciò, se avete a cuore la vostra felicità, fatelo. Poi, che uno riesca a metterli in pratica, è un altro paio di maniche. Tuttavia, non si tratta di consigli inapplicabili, anzi, sono di una semplicità e di una ragionevolezza estrema.

La definizione di “esistenza felice” la si ricava dalla massima n° 49 (in tutto, il libretto si divide in 50 massime): “un’esistenza che, considerata con una riflessione saggia e matura, sarebbe da preferirsi alla non-esistenza”.  Del resto, nella massima n° 22, Schopenahuer scrive che “‘vivere felici’ può significare solo vivere il meno infelici possibile, o, in breve, vivere passabilmente”. Nella massima n° 17, si legge: “la vita non ci è data per essere goduta, ma per essere sopportata”. 

Giustamente, Franco Volpi annota quanto sia strano andare a lezione di felicità da un maestro del pessimismo come Schopenhauer. “A prima vista - scrive il Volpi – il suo radicale e disincantato pessimismo rende difficile persino associare la sua filosofia all’idea della felicità: essa gli appare una meta irraggiungibile per l’uomo e il termine stesso ‘felicità’, dal suo punto di vista è un eufemismo. Ciò non deve significare, però, deporre preventivamente le armi, cioè rinunciare a sfruttare le regole, gli espedienti e i criteri di prudenza che il nostro ingegno si suggerisce per contrastare le avversità di cui la vita abbonda”. 

L’ingegno, appunto: come nel caso dell’Arte di Ottenere Ragione, è questa la principale arma in dotazione di ogni individuo nella lotta contro il mondo. E del resto la massima n° 10 consiste in una citazione da Seneca: “Se vuoi assoggettare ogni cosa, assoggettati alla ragione”. La ragione suggerisce essenzialmente di limitare i castelli in aria, di almanaccare fantasie, di farsi illusioni. “Il giovane crede che il mondo sia fatto per essere goduto e sia un domicilio della felicità, la quale sfugge solo a coloro che non hanno l’abilità di cercarla; lo rafforzano in questa idea romanzi, poesie, e l’ipocrisia che il mondo continuamente e ovunque produce con la sua parvenza esterna” (massima n° 22).  

Il mezzo più sicuro per non diventare molto infelici consiste nel non chiedere di diventare molto felici” (massima n° 36). Le illusioni, per Schopenhauer, sono “alture da cui si può scendere solo cadendo” (massima n° 5). L’importante è convincersi subito, o il più presto possibile, che “il meglio che il mondo ci può offrire è un presente sopportabile, quieto e privo di dolore; se esso ci è dato sappiamo apprezzarlo, e si guardiamo bene dal guastarlo aspirando senza posa a gioie immaginarie o preoccupandoci con timore di un futuro sempre incerto che, per quanto lottiamo, rimane pur sempre, completamente nelle mani del destino” (massima n° 16). 

Da questo punto di vista, accontentandoci di quanto abbiamo e non coltivando aspettative che la vita difficilmente realizzerà, conviene godere dell’attimo presente senza vivere continuamente nella preoccupazione del futuro. “Coloro che, animati da una continua tensione, vivono solo nel futuro, guardano sempre avanti e corrono incontro con impazienza alle cose che sopraggiungono come alle sole che porteranno la vera felicità, lasciando intanto passare inosservato il presente senza goderne. Costoro vivono sempre solo ad interim fino alla morte. Per  non perdere la quiete di tutta la nostra vita badando a mali incerti e indeterminati, dobbiamo abituarci a considerare i primi come se non giungessero mai e i secondi come se non giungessero certo adesso” (massima n° 14). 

Del presente, dunque, conviene godere subito, se solo c’è da goderne. “Chi è sereno ha sempre motivo di esserlo, che è appunto il fatto di essere sereno. Niente quanto la serenità può sostituire sicuramente e in abbondanza ogni altro bene. Se si vuole giudicare la felicità di un individuo ricco, giovane, belle e onorato, ci si chieda se è anche sereno; viceversa, se è sereno, risulta indifferente se sia giovane o vecchio, povero o ricco: è felice. Dobbiamo quindi spalancare le porte alla serenità, in qualsiasi momento capiti, poiché non giunge mai inopportuna!”. 

Altrove il concetto viene ribadito: “Se si è sereni, non chiedere per giunta a se stessi l’autorizzazione a esserlo, stando lì a riflettere se si ha per davvero motivi di essere sereni da tutti i punti di vista” (massima n° 13).  La serenità si raggiunge anche non pensare più a quanto si è deciso dopo aver riflettuto sul da farsi, “tenendo chiuso il cassetto dei pensieri che lo riguardano e tranquillizzandosi con la convinzione che a suo tempo tutto è stato soppesato a dovere” (massima n° 7).  

Guai a pensare troppo a quanto è già successo: “una volta che è capitata una sventura e non ci si può fare nulla, non concedersi nemmeno il pensiero che le cose avrebbero potuto andare diversamente” (massima n° 11).  Va coltivato, viceversa, il fatalismo: “ci si deve abituare a considerare ogni evento come necessario” (massima n° 39). Del resto, per mantenere la calma in tutte le avversità della vita uno deve considerare “il male presente come una parte minima di ciò che potrebbe capitargli” (massima n° 15), e dunque essere soddisfatto che per quanto le cose vadano male, potrebbero andare peggio. 

C’è, infatti, chi se la passa peggio di noi, ed è buona norma “osservare spesso quelli che stanno peggio di noi” (massima n° 27). Ed è fondamentale “evitare l’invidia” (massima n° 2). “Dobbiamo cercare di arrivare a guardare ciò che possediamo esattamente con gli stessi occhi con cui lo guarderemmo se ci fosse sottratto. Di qualunque cosa si tratti, beni, salute, amici, amata, moglie, figli, per lo più ne percepiamo il valore solo dopo averla perduta” (massima n° 25).  

Nella massima n° 1 si legge: “Perché mai dovrebbe essere folle preoccuparsi sempre di godere il più possibile dell’unico, sicuro presente, se la vita intera altro non è che un frammento più grande di presente, e come tale assolutamente transeunte?”. Dunque, non farsi illusioni e godere di ciò che si ha: bisogna “limitare la propria cerchia, si offre così minor presa all’infelicità” (massima n° 8). E ancora: “la fonte del nostro scontento risiede nei nostri tentativi, continuamente rinnovantisi, per aumentare il termine costituito dalle pretese” (massima n° 4). Limitare le proprie pretese significa che “un uomo deve sapere ciò che vuole e sapere ciò che può. Una volta che siamo perfettamente consapevoli delle nostre forze e debolezze, non tenteremo neanche di dimostrare forze che non abbiamo, non giocheremo con la falsa moneta, perché tale ciurmeria finisce col fallire il suo scopo” (massima n° 3). 

In buona sostanza, occorre “fare di buon grado ciò che si può, e sopportare altrettanto di buon grado ciò che si deve” (massima n° 6). Per capire ciò che si può e ciò che si deve, serve “parlare il meno possibile con gli altri, moltissimo con sé stessi” (massima n° 12). In ogni caso, meglio “non manifestare grande giubilo o grande sofferenza riguardo ad alcun avvenimento” (massima n° 19), e non “lasciare trasparire l’ira o l’odio nelle parole o nelle espressioni del volto”. La massima n° 34 sottolinea come “è facile esagerare con i rimproveri contro se stessi. Il corso della nostra vita, infatti, non è opera nostra in termini così assoluti, ma è il prodotto di due fattori, vale a dire la serie degli eventi e quella delle nostre decisioni”. L’ultima massima, la cinquantesima, conclude: “la nostra felicità dipende da ciò che siamo, dalla nostra individualità, mentre per lo più si tiene conto del nostro destino e di ciò che abbiamo. Il destino può diventare migliore e la moderazione non pretende molto da esso, ma un babbeo rimane un babbeo e un ottuso gaglioffo e un ottuso gaglioffo per tutta l’eternità, fosse egli in paradiso circondato da uri. La personalità è la felicità più alta”.