domenica 19 agosto 2012

LA ROULETTE DELLE LETTURE



La parola "roulette" contiene al suo interno il vocabolo "letture", e avanza una "o". Si potrebbe coniare un anagramma di questo tipo: "Al casinò... o a casa a leggere?", ponendo un dubbio su una possibile scelta su come trascorrere la serata a Montecarlo, ma in realtà alludendo alla soluzione "Roulette / o letture". A ben pensarci, ogni lettura è anche una puntata alla roulette, dato che non sai, prima di iniziare, se ci perderai (il tempo e il denaro investito nell'acquisto del libro) o ci guadagneri (divertimento, emozioni, conoscenza). Dunque, avete due secondi per decidere se vi interessa o meno leggere le mie recensioni raccolte qui di seguito, riguardanti le mie ultime letture. In ogni caso, comunque, denaro non ne perderete, dato che le ho scritte, come al solito, gratis.



Alfredo Castelli
Fantômas, un secolo di terrore
Coniglio Editore, 2011

Si tratta di una vera e propria enciclopedia, ricchissima di immagini e di riferimenti multimediali, su tutto ciò che su Fantômas è stato detto e scritto, e su tutto ciò che a Fantômas si è ispirato. Fantômas è il malefico protagonista di quarantatré romanzi di Marcel Allain e Pierre Souvestre, pubblicati in Francia a partire dal 1911, e da lì diffusi in tutto il mondo, originando anche una incredibile sequela di seguiti non autorizzati, film, fumetti, parodie. Castelli analizza in dettaglio ciascuna delle opere derivate direttamente o indirettamente dal personaggio, un diabolico criminale, spietato ed espertissimo di travestimenti. Ma anche Fantômas aveva i suoi predecessori, tra i quali ne vanno ricordati due: Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo ideato da Maurice Leblanc nel 1905, e Zigomar, di Leon Sazie, il primo vero eroe nero della letteratura pulp, assassino senza scrupoli, sadico e torturatore (1909). Un po’ tutti i neri italiani, per figliazione diretta o indiretta, derivano da questi precedenti, eroi del feuilleton francese che, a differenza degli eroi edificanti proposti dai penny dreadfull inglesi o dalle dime novel americane, indulgeva anche nell’esaltazione del genio perverso di protagonisti negativi. Bello da sfogliare prima che interessante da leggere, imperdibile come tutto quello che porta la firma del BVZA.





Pierre Souvestre e Marcel Allain
L'ombra dietro il sudario
Mondadori, 1963

Stuzzicato dal saggio di Castelli su Fantômas, ho letto anche, dopo averlo acquistato su una bancarella, uno dei romanzi di Pierre Souvestre e Marcel Allain. Per la precisione, "L'ombra dietro il sudario", il n° 23 di una collana dedicata dalla Mondadori all'inafferrabile criminale nei primi anni Sessanta. Il volume che qui sopra è datato gennaio 1965, ed ha il formato dei vecchi numeri di Urania e la stessa grafica interna, con il testo su due colonne (180 pagine, rubriche in appendice comprese). Non avendo mai letto un racconto di Fantômas, diciamo così, "originale", ma soltanto avendone sentito parlare (tanto a lungo da poter anch'io sostenere una conversazione in proposito), sono rimasto piacevolmente sorpreso dal ritmo assolutamente veloce della narrazione e dallo stile intrigante dei due scrittori. La prima cosa da dire è che "L'ombra dietro il sudario", in realtà, non comincia e non finisce, dato che la scena iniziale è la diretta prosecuzione del romanzo precedente, e l'ultimo colpo di scena rimanda a un seguito che ci sarebbe stato nella puntata successiva. Però, la vicenda principale è comunque raccontata per intero, e i principali nodi e misteri sono risolti. L'inizio spiega come sia potuto succedere che un treno, entrato in una galleria, non ne sia uscito, benché non si trovi all'interno del tunnel. Ho capito che è stato proprio da qui che Castelli ha preso spunto per una delle scene che si vedono in una sua celebre storia di Zagor, quella del ritorno di Supermike. Ma, soprattutto, ho capito quanto siano debitori i primi Diabolik e i primi Kriminal alle vicende di Fantômas. Davvero aveva ragione Max Bunker nel dire, in una intervista, che per creare il suo Tuta-di-Scheletro non aveva copiato il Re del Terrore delle sorelle Giussani: gli era bastato leggere un paio dei loro episodi per capire che le due sceneggiatrici si rifacevano a Fantômas e dunque a prendere a sua volta ispirazione dal modello originario (e anzi calcando la mano più delle Giussani sugli aspetti torbidi, violenti, erotici e satirici). Nella storia dell' "Ombra dietro il sudario" Fantômas sembra assente per gran parte della trama, che si snoda come un giallo grandguignolesco d'altri tempi (con ripetute decapitazioni, amanti fedifraghi, scambi di identità, gente che finge di essere chi non è, piani machiavellici tali da farmi capire come anche il mio Mortimer debba qualcosa a Souvestre e Allain), salvo poi ricomparire sul più bello rivelando ai lettori che niente di ciò che avevano visto era come appariva. Il povero Juve, l'ispettore che dà la caccia a Fantômas, arriva sempre in ritardo, come Ginko e come Milton. In più, ci sono un figlio e una figlia del criminale, lei buona (e prigioniera del padre), lui cattivo, e suo complice: un vero feulleton. Non è grande letteratura, ma che divertimento.



Stefano Jacurti
Bastardi per stirpe
Emil, 2012

E' difficile parlare di questo libro senza dimenticare l'immagine dell'autore, che ho avuto la ventura (e la fortuna) di conoscere personalmente in occasione del Festival Western di Orvieto, nel maggio di quest'anno. Vedere Stefano Jacurti, infatti, significa vedere un fotogramma di un film western in carne e ossa. Una faccia da pendaglio da forca, un abbigliamento da pistolero, lo sguardo da duro. Ovviamente, un simile ceffo scrive romanzi che odorano di polvere da sparo. Al suo attivo ha già due raccolte di "racconti e di pensieri" del West, come dice lui: "Il baule nella prateria" (Serel International) e "Avrei voluto essere ucciso da Clint Eastwood" (Aletti). Attore e regista teatrale, ha firmato la regia (con Emiliano Ferrera) del film western-horror "Inferno bianco". "Bastardi per stirpe" è il suo primo romanzo. Nella prefazione, Michele Tetro si chiede: "Scusi, dov'è il West(ern)?", dato che per cercare romanzi di questo un tempo fortunato genere letterario bisogna andare a rovistare sulle bancarelle. Jacurti prova a colmare il gap con una storia di 180 pagine piene di morti, violenza, sesso e intrighi familiari, che ha come tema lo scontro fra due gruppi di allevatori, riuniti attorno a due famiglie, una che alleva pecore, e una che alleva manzi. Gli allevatori di manzi ritengono di poter avere libero pascolo e accusano gli altri di rovinare la prateria perché le pecore, brucando, estirpano l'erba fin dalle radici, impedendone la ricrescita. Nella faida si inseriscono (e qui forse Jacurti mette troppa carne al fuoco), anche gli indiani e i soldati. Lo stile è essenziale, al punto che talvolta mi è parso di stare leggendo un soggetto per un fumetto: il che potrebbe anche essere considerato un pregio, per chi punta alla sostanza piuttosto che alla forma, e del resto da uno con i baffoni di Jacurti non c'è da attendersi degli elzeviri. Le parti migliori sono, secondo me, quelle in cui il western di Jacurti si distacca da tutto ciò che si può leggere anche su Tex o che abbiamo visto nei film di John Ford. Ci sono pagine che sembrano ispirate, infatti, dal serial televisivo "Deadwood" (secondo me, un capolavoro), con prostitute e amplessi, violenza e political uncorrectnes. Peccato che il finale, che poteva essere tragico e apocalittico, alla fine si risolva ai giorni nostri un po' a tarallucci e vino, con i rivali di un tempo fusi in un'unica famiglia (ammetto però che i pareri in proposito possano essere diversi). Un'ultima osservazione, che riprende il senso di un discorso che già mi è capitato di fare: il problema di molte piccole case editrici è che, fatalmente, non possono mettere a disposizione degli autori un editor. Una persona, cioè, che discuta con chi scrive pagina per pagina e suggerisca, senza imporre nulla, le soluzioni migliori per superare le difficoltà della trama o dello stile. Anche Stephen King ha il suo editor, dunque non è un problema di lesa maestà consentire a qualcuno di vedere con altri occhi ciò che si scrive e ottenere dei pareri competenti. Dato che io faccio l'editor da più di dieci anni in Bonelli, e da trenta se si considera le mie supervisioni di fanzine e di riviste in periodi ancora precedenti, mi sento di difendere la categoria. Fatalmente leggo i romanzi con l'occhio di quello che avrebbe "fatto diversamente", limando qui, allungando là. E l'editor a Jacurti, per questa storia, lo avrei fatto volentieri, persino gratis. Magari, soltanto in cambio di farmi provare la sua Colt, che da qualche parte la deve pur avere.



Andrea Camilleri
Il diavolo, certamente
Mondadori, 2012

Prima di parlare de "Il diavolo, certamente" di Andrea Camilleri ne approfitto per ricordare come io abbia già accennato a questo libro quando, in un dibattito, sul "coso" riguardante l'importanza degli incipit, ho segnalato come magistrali alcuni "attacchi" dei trentatré racconti contenuti in questa antologia. Di Camilleri penso tutto il bene possibile e lo ritengo autore di alcuni tra i romanzi meglio scritti, intelligenti e divertenti che abbia letto negli ultimi anni, per cui non sarà un appunto negativo né a compromettere la mia ammirazione verso di lui, nè, men che mai, a scalfire di un micron quella del suo vastissimo pubblico. Però, mi sarà consentito dire che, fra tanti suoi bei libri, questo mi vede soddisfatto soltanto a metà. Eppure, sono partito convintissimo della bella idea che c'è alla base della raccolta, e felicissimo di trovarmi fra le mani, una volta tanto, non un'unica, lunga storia, ma trentatré brevissimi "divertissiment" (perché di questo, alla fine, si tratta). Il titolo è preso parzialmente in prestito, con una modifica non priva di significato, da quello di un film di Bresson, noto in Italia come "Il diavolo, probabilmente...". Il fil rouge che lega fra di loro tutti i raccontini (soltanto quattro o cinque pagine l'uno) è il fatto che il diavolo talvolta ci mette lo zampino e che comunque insegna a far le pentole ma non i coperchi. Per cui, gli amanti clandestini vengono scoperti, lo scrittore che cerca di stroncare il rivale con recensioni al vetriolo ottiene proprio grazie ad esse che l'altro vinca il Premio Nobel, l'infallibile killer che decide, per la prima volta un vita sua, di salvare la vita di una sua vittima predestinata, fa sopravvivere un crudele dittatore futuro responsabile di un genocidio, e così via. Talvolta i casi sono eclatanti, come in quest'ultimo esempio, molto più spesso sono minimali, comunque sia si tratta sempre di finali tragicomici perché si verificano eterogenesi dei fini, o imprevedibili incidenti, o combinazioni fortuite che mandano a monte le trame o i propositi dei protagonisti, buoni o cattivi che siano. Raccontato così, il libro sembra decisamente divertente: in effetti, ripeto, l'idea è ottima e l'allestimento (il tono ironico, la lunghezza dei racconti, la veste tipografica) è perfetto. Però qualcosa, opera del diavolo (certamente), non fa filare tutto per il verso giusto. La lingua di Camilleri è essenziale, il fraseggio armonico, il periodare pulito, l'aggettivazione perfetta. Sembra tuttavia di trovarsi di fronte a dei soggetti, a delle mini-trame di racconti più lunghi, da sviluppare. Non si riesce a essere coinvolti, come quando si leggono i riassunti dei film, che ci dicono quel che racconta la pellicola, ma non riescono a comunicarcene le emozioni. Inoltre, non tutti e trentatré i racconti sono efficaci allo stesso modo. Anzi, quelli davvero divertenti sono la minoranza. La maggior parte sono ripetutivi (i casi di relazioni extraconiugali scoperti da mogli ricche che poi cacciano il marito fedifrago, destinato a ridursi sul lastrico sono una sorta di tormentone). Alcuni sono assurdi o insulsi. Ricordo di aver sempre avuto un'autentica passione per i racconti dal "finale a sorpresa", per esempio i "racconti del terrore" a fumetti presentati da Stan Lee in una fortunata serie di Eureka Pocket, o i tanti scritti da Isaac Asimov o da maestri del genere (Roald Dahl, Fredric Brown). Io stesso, se potessi mettere insieme un'antologia di brevi testi accumulati nel corso degli anni, ma scritti soprattutto in gioventù, molti sarebbero appunto così (del resto, sono così i miei racconti pubblicati su "Mostri" agli inizi degli anni Novanta). Ecco, dal mio punto di vista di grande lettore di "finali a sorpresa", e piccolo scrittore di raccontini del genere, le trovate di Camilleri mi sono parse un po' deludenti. Mi azzardo a dire qualcosa di cui, lo so già, mi dovrei vergognare (ma mi si perdoni l'affermazione valutandola come tesa soltanto a spiegare meglio il senso del mio giudizio), ma, pulizia formale e stile perfetto a parte, qualche ideuzza un po' più brillante per dimostrare la perfidia del diavolo, persino io sarei riuscito ad averla.



Ragionevoli dubbi
di Gianrico Carofiglio 
Sellerio, 2006

Si tratta del terzo romanzo con protagonista Guido Guerrieri, che ho recuperato in ritardo dopo aver già letto il quarto, "Le perfezioni provvisorie", che è del 2010. Il primo della serie, "Testimone inconsapevole", è del 2002; il secondo, "Ad occhi chiusi", è del 2003. Il fatto che abbia seguito tutte le indagini dell'avvocato Guerrieri, dovrebbe bastare a testimoniare il mio apprezzamento per l'autore ed il suo principale personaggio. Però, devo raccontare un aneddoto che, almeno apparentemente, è di segno contrario. Un giorno, cominciai a leggere "Testimone inconsapevole". Ero convinto che si trattasse di un giallo, e in effetti lo era. C'era una vittima, un ragazzino stuprato e ucciso, e c'erano delle indagini per individuare l'assassino. A dire il vero le indagini c'erano già state, nel senso che la giustizia, frettolosa e approssimativa, ottusa e senza cuore, aveva concluso che il colpevole fosse un "vucumprà" senegalese, Abdou Thiam, e che non ci fosse altro da fare che chiuderlo in galera e gettare via la chiave. L'avvocato Guerrieri accetta la difesa del venditore ambulante, nonostante non ci sia da sperare di ricavarne una parcella che ripaghi i suoi sforzi e malgrado il caso sembri disperato, vista la concomitanza degli indizi e delle testimonianze. Fin qui, tutto bene. Però, non sembrava che a Carofiglio, qui alla sua opera prima (e che poi avrei scoperto essere un magistrato e anche - chissà perché, data la sua evidente intelligenza e brillantezza - parlamentare), fosse particolarmente interessato a raccontare l'aspetto giallo della trama. No: si concentrava sulle dinamiche psicologiche di Guido Guerrieri, nave senza nocchiero in gran tempesta, dopo la separazione dalla moglie e in preda a fobie, attacchi di panico, crisi depressive. Il tutto raccontato molto bene, come posso testimoniare per aver vissuto stati d'animi del genere. Le vicende personali dell'avvocato erano interessanti e coinvolgenti ma a me premeva anche scoprire chi avesse ucciso il ragazzino. Che non fosse stato Abdou, mi sembrava chiaro: le indagini di Guerrieri lo andavano appurando capitolo dopo capitolo. E allora chi? Si arriva al finale: in tribunale, novello Perry Mason, Guido riesce a far assolvere Thiam dimostrando come tutte le prove raccolte contro di lui fossero inconsistenti, frutto in gran parte di razzismo e atteggiamenti prevenuti. Un trionfo ogni oltre pronostico. Bene. A questo punto, mi aspettavo il coniglio estratto dal cilindro: il vero assassino è (...). Non si sa. Carofiglio non ce lo dice. Il romanzo finisce lì, con Abdou assolto. Il mio amor proprio di christiano di provata fede si è sentito ferito fin quasi al dolore fisico. Ma come! Un giallo senza colpevole? Un assassino in libertà? Ho giurato a me stesso che con Carofiglio avevo chiuso. Crocione sopra.
Invece, non sono riuscito a mantenere il proposito. "Testimone inconsapevole" mi era parso un bel romanzo, Guerrieri uno straordinario personaggio. Nel finale del primo episodio conosceva una ragazza, Margherita, problematica anche lei, come lui: sarebbero riusciti a essere felici insieme? Decisi di comprare il secondo romanzo, interessato questa volta più alle vicende personali dell'avvocato che alla trama gialla. E così è stato per tutti i libri con Guerrieri protagonista. Va detto che, per fortuna, nei successivi un po' più di rispetto verso il lettore desideroso di tranquillizzarsi con delle spiegazioni concrete sui crimini discussi in tribunale, Carofiglio l'ha dimostrato. Non si è mai trattato di gialli con dei colpi di scena degni di questo nome, ma, devo dire, sempre di casi interessanti anche dal punto di vista legale e giuridico. Però, il bello è seguire le dinamiche mentali del protagonista, disincantato ma non cinico, romantico ma solitario, rigidamente autocritico ma non moralista, disposto ad accettare le sfide pur avendone paura, con tutte le idiosincrasie di quello di sinistra che però, per fortuna, non lo dotano di paraocchi. E seguendo lui si scopre Bari, la città dove vive. "Ragionevoli dubbi" vede Guido difendere un ex-picchiatore di destra, Fabio "Rayban" Paolicelli da cui, in anni lontani, quelli di piombo, era stato malmenato perché un eskimo lo identificava come di sinistra. Nonostante questo precedente, oppure proprio per questo, oggi Guerrieri accetta di farsi carico di un caso disperato, dato che Paolicelli è stato condannato in primo grado dopo che nella sua automobile gli sono stati trovati quaranta chili di droga. A complicare la cosa, inizia una storia d'amore fra lo stesso Guido e la moglie di Fabio "Rayban", con conseguenti sensi di colpa dell'avvocato, il quale peraltro, di fronte alla bambina, piccola, del suo assistito, sente che nella sua vita manca appunto una figlia da portare al parco e a cui comprare il gelato. Si sente incapace di costruirsi un rapporto vero, che sfoci nella convivenza, nella paternità. Certo che se Paolicelli, l'ex picchiatore, vedesse confermata la condanna e restasse dentro... ma il suo dovere è tirarlo fuori. Come al solito, Carofiglio descrive alla perfezione la macchina burocratica della giustizia italiana, le visite in carcere, le dinamiche dei tribunali: un valore aggiunto, di fronte ai procedural police o ai legal thriller americani.




Le libertine - 1
di Giuseppe Manunta
Erotic Art Collection n° 45
Edizioni B&M, 2012

Un porno delizioso. Si tratta di otto raccontini di otto/dodici pagine, estremamente hard ma anche, miracolosamente, candidi. De resto, lo stile di Manunta (con i suoi colori delicati, le faccine espressive e fumettose dei suoi personaggi, il tratto a metà fra il realistico e il grottesco) riesce a non far sembrare torbida la più triviale delle situazioni: scommetterei il prezzo del volume (14,90 euro) con una qualunque fanciulla sul fatto che, nonostante il pregiudizio sulla fruizione pressoché esclusiva del porno da parte dei maschietti (un mito da sfatare), queste storielle potrebbero essere apprezzate anche dal gentil sesso. Niente di trascendente a livello di intreccio, ma chi se ne importa: si sa che nei cinema a luci rosse, quando ancora c'erano, il commento che più si levava dalla platea era "troppa trama!" quando i personaggi sullo schermo conversavano o camminavano per strada. Ma neppure si può dire che non si tratti di raccontini intriganti. La regia, a livello di inquadrature, è perfetta. Se Giuseppe (che è mio amico ed è anche uno zagoriano) da Strasburgo è in ascolto: la facciamo una cosa insieme?


Guy Delisle
Cronache di Gerusalemme
Rizzoli Lizard, 2012. 

Ricorderete, forse, di come vi abbia già parlato, e bene, di un altro libro del canadese Delisle, "Pyongyang", cronaca disegnata di un soggiorno dell'autore, per motivi di lavoro (la supervisione della realizzazione di alcuni cartoni animati affidati a intercalatori coreani), in Corea del Nord, lo stato più isolato e barricato del mondo. Quanto a barriere, però, anche Gerusalemme non scherza. Anzi, a un certo punto Delisle ammette che è più facile entrare in Pyongyang che in certi quartieri della Città Santa o in certe zone della Cisgiordania o della striscia di Gaza. Il talento dell'autore nel realizzare i suoi reportage a fumetti è straordinario. Le oltre trecento pagine del volume si leggono con apparente scorrevolezza, e non si smetterebbe mai: poi, guardando l'orologio, ci si accorge di come siamo stati assorti nella lettura per più di tempo di quel che ci è sembrato, segno che seguirlo è stato impegnativo, e abbiamo investito un bel po' di attenzione, ma non ci è pesato. La tecnica che usa Delisle è quella di raccontare tutto senza pregiudizi, senza livore ideologico, con l'occhio puro di chi si meraviglia di ciò che vede, e che appunto per questo spesso sembra qualcosa di assurdo, come a un bambino sembrano assurdi, spesso, i comportamenti degli adulti. Il lettore scopre Gerusalemme e le due realtà, quella israeliana e quella palestinese, esattamente come la scopre l'autore, attraverso magari i piccoli incidenti di percorso, il progressivo rendersi conto della situazione, le conversazioni con gli interlocutori, le vicende famigliari raccontate come in un diario. Guy segue in Israele la moglie Nadege impegnata per un anno in una missione umanitaria di Medici Senza Frontiere, e si occupa dei due figli che si portano appresso in un quartiere di Gerusalemme Est. Episodi buffi si alternano a momenti drammatici, ma alla fine la situazione della regione risulta più chiara (per quanto estremamente caotica) che dalla lettura di saggi storici, articoli di giornale, reportage televisivi. Se mai avessi avuto la voglia di visitare Gerusalemme (non ce l'avevo) mi sarebbe passata. E, sinceramente, non vedo come la questione palestinese possa essere risolta, stante il caos che si complica sempre di più. Caos, peraltro, derivante soprattutto da una incredibile proliferazione di culti e sottoculti, fondamentalismi e integralismi, sia in ambito musulmano che in quello ebraico, come del resto anche in campo cristiano. Ebrei che aspettano il Messia e agognano la costruzione del Terzo Tempio, cristiani che affittano pesanti croci di legno da portare in spalla per le vie della Città Antica, ortodossi etiopici, armeni apostolici, copti, cattolici, protestanti, ma anche Ashkenazuti che detestano gli Yementi all'interno degli oltranzisti ebraici. "Grazie a Dio sono ateo", dice a un certo punto l'autore. E in effetti, se la religione deve trasformarsi in una folle babele come quella gerosolimitana, meglio davvero un sano agnosticismo o magari uno spinozismo che porti a identificare Dio con la Natura, lasciando perdere tutti gli odi e i rancori che le credenze in un creatore del mondo sembra inevitabilmente portare con sé fin dalla notte dei secoli.



Patricia Highsmith
Il talento di Mr. Ripley
Bompiani/Corriere della Sera, 2012

Qualcuno ha paragonato la Highsmith ad Agatha Christie, definendola la sua erede: in realtà, "Il talento di Mr. Ripley" non è un giallo, non è propriamente un thriller, casomai un noir, in ogni caso un libro insolito perché un assassino (duplice assassino) è il protagonista, perché il lettore in qualche modo parteggia per lui nel senso che vuol vedere come potrà riuscire a farla franca, e alla fine, infatti, incredibilmente, stratagemma dopo stratagemma, colpo di fortuna dopo colpo di fortuna, dabbenaggine altrui dopo dabbenaggine altrui, Tom Ripley riesce a cavarsela e a portare a casa il bottino con la benedizione dei derubati.Il romanzo, di circa trecento pagine, comincia a farsi interessante verso la centesima, e da lì in poi non ti molla più. Ambientato in Italia negli anni Cinquanta, il romanzo racconta di un giovane americano, di professione truffatore e con un certo talento per l'interpretazione di personaggi diversi (al punto da riuscire a ingannare persino se stesso, per esempio, sulla propria omosessualità latente e non dichiarata, ma evidentissima, o sul riuscire a darsi motivazioni differenti da quelle reali che giustifichino ai suoi occhi il proprio agire), che prende il posto, assumendone l'identità, di un connazionale suo coetaneo che vive a Mongibello facendo il pittore e che gode di una rendita mensile, di cui ovviamente comincia a impossessarsi dopo averlo ucciso. Dopodiché comincia una intrigante partita a scacchi con gli amici e i conoscenti della vittima: quando uno di questi scopre la verità, Ripley è costretto a compiere un secondo delitto, e il gioco si complica. Un classico da leggere assolutamente, consigliato a tutti.


Marjane Satrapi 
Persepolis
Lizard, 2007

Ho letto soltanto adesso, con imperdonabile ritardo sul resto del mondo, "Persepolis", di Marjane Satrapi. E, come il resto del mondo, non posso che ritenerlo un capolavoro. Grafico, indubbiamente, perché la sintesi e l'efficacia di certe pagine comunicano visivamente più emozioni di mille parole. Ma anche letterario, perché l'autrice racconta una storia (la storia della propria infanzia, adolescenza e giovinezza) che coinvolge, diverte, commuove, illumina, rabbuia, e riesce a farlo, grazie a uno straordinario talento narrativo, con profonda immediatezza e graffiante leggerezza. La storia di Marjane è anche la storia di una ventina di sconvolgenti anni del suo paese, l'Iran, raccontata da chi l'ha vissuta e vista con gli occhi di una bambina prima e di una giovane donna poi. Ed è la storia di una rivoluzione tradita, quella che ha portato alla fuga dello scià Reza Palhlavi: la fine del suo regime avrebbe dovuto dar vita a una democrazia, e invece a instaurarsi è uno stato islamico tra i più oltranzisti. Subito viene imposto il velo alle donne, le classi a scuola da miste che erano diventano divise, per le strade girano i guardiani della rivoluzione che puniscono severamente (con le percosse, con la prigione o con la morte, a seconda dei casi) chi ascolta musica, beve alcool, si tinge le unghie, dà segni di omosessualità o semplicemente cammina mano per la mano con la propria partner, se non si è sposata. Se sotto lo scià i prigionieri politici erano diecimila, sotto il nuovo regime diventano centomila. Inoltre, si scatena la guerra con l'Irak, e milioni di giovani vengono mandati al macello, imbottiti di slogan fanatici e religiosi. Fra le tante pagine drammatiche, mi hanno colpito quelle, indubbiamente meno cruente di altre ma ugualmente terribili, in cui alla Satrapi, ormai adulta e da poco sposata, viene bocciato un documentatissimo progetto culturale riguardante gli eroi della mitologia persiana, perché gli islamici al potere sono interessati solo ai simboli religiosi, e il resto non esiste. Marjane sperimenta anche la vita in Europa (in Austria prima, in Francia poi, dove alla fine si stabilirà definitivamente) e si rende conto di essere orientale in occidente e europea in oriente e dunque spiazzata in ogni caso: tuttavia, la sua determinazione, il suo coraggio, la sua forza d'animo (che in alcuni casi la portano sul punto di essere arrestata) riescono a farle superare le prove più difficili. Da leggere assolutamente.



Gianni De Luca e Claudio Nizzi
Il diario di Gian Burrasca
Black Velvet, 2012

Si tratta dell'adattamento a fumetti pubblicato a puntate su "Il Giornalino" (dieci puntate settimanali) nel 1983. Suppongo che all'epoca le tavole fossero a colori, questo volume, comunque cartonato e di pregio, le propone in bianco nero. La sceneggiatura di Nizzi offre una rilettura dell'opera di Vamba
, "Il giornalino di Gian Burrasca" (apparsa a puntate sul "Giornalino della Domenica" tra il 1907 e il 1908) che si distacca un po' dal testo originario, sia nella cronologia degli episodi, sia nei particolari dei medesimi, sia nel senso complessivo del racconto, che l'autore modenese interpreta come "storia di formazione" proponendo una crescita di Giannino Stoppani. Le ultime parole, assenti in Vamba, sono infatti "capii che stavo dando l'addio alla mia infanzia". Come capita in tutti gli adattamenti, Nizzi opera dei tagli (non c'è per esempio la scena della "pappa col pomodoro") e delle sintesi dolorose ma obbligate. Tuttavia, i giovani lettori hanno di che divertirsi. Ma ciò che rende imperdibile la riproposta della Black Velvet sono le tavole di Gianni De Luca, un vero maestro del fumetto italiano. La stessa Casa editrice di questo "Gian Burrasca", del resto, da tempo sta ristampando l'opera completa del disegnatore calabrese, a cui si deve per esempio la realizzazione grafica del Commissario Spada. Efficacissimo, innovativo, visionario e tradizionale al tempo stesso, De Luca merita un monumento. Il volume è corredato da un apparato critico di Stefano Gorla e Sergio Rossi.


Federico Fascetti
Tutti i chilometri che servono
Fermento, 2012

Ho letto "Tutti i chilometri che servono", di Federico Fascetti  e l'ho fatto tutto d'un fiato. Centocinquanta pagine di benessere. Più volte, parlando degli autori (giovani, ma anche meno giovani) che pubblicano con piccole Case editrici, ho segnalato la mancanza di un editor che potesse indirizzare, suggerire, imbrigliare, stimolare, correggere gli scrittori alle prime armi, non tutti e non sempre già svezzati a sufficienza, nonostante l'entusiasmo, le buone intenzioni e le buone idee. Invece, nel caso di Federico Fascetti, e di questo romanzo in particolare, la stoffa c'è e si vede tutta. Poco o niente da aggiustare, secondo me. Una scrittura pulita, matura, efficace, emozionante, pronta per prove più difficili, pronta per una gara come quella dei quattrocento piani a cui il giovanissimo Alessio, "trentanove chili di pelle e ossa", studente ginnasiale, si mette in testa di voler partecipare a tutti i costi, riuscendo a salire sul podio contro ogni pronostico. La storia è quella di un ragazzo ritenuto cardiopatico per un lieve soffio al cuore, a cui il medico di famiglia consiglia l'esonero da ogni attività fisica nella palestra della scuola, traumatizzato dalla fine del matrimonio dei suoi genitori e dal sostanziale abbandono da parte del padre, il cui unico lascito è una lettera che Alessio legge e rilegge senza riuscire a scrivere una risposta. La madre, rimasta sola e divenuta apprensiva e ossessiva, non aiuta il figlio a ritrovare se stesso, e la sorte del giovane sarebbe quella di vivere in un limbo irreale e ansiogeno se non comparisse sulla scena Grigio, un allenatore di atletica in pensione, che vede in Alessio la possibilità di un riscatto sia come atleta che come padre, visto il suo fallimento nel tentativo di portare a gareggiare suo figlio. Grigio si convince, per una breve corsa vista fare al ginnasiale durante una partitella di pallone (che gli sarebbe stata vietata, ma che Alessio gioca, anche se solo per pochi minuti), che il ragazzo con il soffio al cuore non abbia, in realtà, nessun problema cardiaco e che, al contrario, dimostri tutte le potenzialità di un corridore. Propone così ad Alessio di farsi allenare da lui, tutti i giorni, per tutto un inverno. E Alessio lo fa di nascosto dalla madre, tenacemente, disperatamente, trovando nella corsa lo sfogo delle sue tensioni e un obiettivo da raggiungere, a costo di farsi deridere dai compagni e di subire le loro perfidie e crudeltà, abituati come sono a sbeffeggiare quello che non capiscono. La finale di una gara che Alessio arriva a correre nonostante tutto, segna il suo riscatto, segna la sua crescita: negli ultimi metri della corsa gli vengono finalmente in testa tutte le parole da scrivere al padre lontano: "Anche se non sono sicuro di averli percorsi proprio tutti, i chilometri che servono, mi sa che sono riuscito a fregarla, la tristezza, pezzetto per pezzetto, durante questi mesi. Ecco, papà, è questo che voglio dirti: che io, oggi, ho capito. Io, oggi, sono felice". Applausi. La mail dell'autore è: fedefasc@virgilio.it. Il sito della sua Casa editrice, invece: www.fermento.net. Il romanzo è anche disponibile in versione e-book. Io l'ho letto su carta, ma voi potete scaricarlo, e non ve ne pentirete.



Andrea G.Pinketts e Laura Avalle
E l'allodola disse al gufo: "Io sono sveglia, e tu?"
Europa Edizioni, 2012

Anche per un fan di Pinketts come il sottoscritto è stato difficile aver notizia e procurarsi come questo libro, per cui immagino che solo il fatto di segnalarne l'esistenza meriti una qualche attenzione. Poi, si tratta probabilmente del libo più insolito che sia mai uscito dalla penna dell'istrionico scrittore, personaggio egli stesso al pari dei protagonisti dei suoi romanzi e spesso più incredibile e sopra le righe di molti di loro. Del resto: "questo non è un libro", scrive lo stesso Pinketts nella sua non-prefazione. Poi però si spiega: "Nel febbraio 2002, tra me e Laura Avalle, esplose un Hindemburg. Uno Zeppellin di emozioni". Una storia d'amore, insomma, durata quel tanto (o poco) che serve per restare indimenticabile. Tra due persone diversissime fra loro, peraltro: gufo nottambulo uno, allodola diurna l'altra, diciassette anni di differenza di età, gusti completamente differenti su una quantità di cose, ma d'accordo sul ritrovarsi vicendevolmente irresistibili. "Facciamo così: - propone a un certo punto Laura ad Andrea - ognuno di noi racconta a se stesso, scrivendolo, come sta vivendo lo stesso episodio della nostra storia, senza farlo leggere all'altro. Quando sarà il momento, tra molto tempo, mi auguro, ci scambieremo i nostri piccoli scritti. per ricordarci emozioni separate di un viaggio, una parte del tragitto in comune". Dopo dieci anni,gli scritti di lei e di lui, che raccontano da punti di vista differenti gli stessi fatti, buffi e romantici, sono stati raccolti in un libro di cento pagine. Questo. A testimonianza di una storia d'amore diversa da tutte, ma a tutte uguale, come accade sempre fra persone speciali, dato che sono speciali tutti gli innamorati.




Victor Hubinon e Jean-Michael Charlier
Buck Danny L'Integrale 1951-1953
Nona Arte, 2011

Ho letto tutte le 240 pagine a colori di questo libro ed è stato come tornare bambino, quando leggevo le avventure del pilota americano e dei suoi amici sui meravigliosi albi Cenisio. La riproposta integrale della serie in volumi cartonati da parte della Nona Arte (in realtà si parte dal 1951 e non dal 1947, dunque da "Les nouveles aventures de Buck Danny", saltando le storie ambientate nella Seconda Guerra Mondiale) merita un applauso anche per il ricco apparato critico che precede e correda le avventure: il documentatissimo saggio di Patrick Gaumer, corredato di foto d'epoca e di immagini rare, vale di per sé il prezzo del volume. Gaumer racconta del primo incontro fra Goscinny e Uderzo, e mille altri aneddoti e curiosità della fucina del fumetto franco-belga che fu la World's Publicité Presse di Georges Tresfontaines, con sede al n° 5 di Place de Brouckère a Bruxelles. Il primo volume dell' Integrale presenta quattro storie di Buck Danny: "I trafficanti del Mar Rosso", "I pirati del deserto", "I gangster del petrolio" e "Piloti collaudatori", tutte collegate fra loro in stretta continuità (ma i primi tre racconti, in particolare, uniti a formare una trilogia mediorentale): ogni episodio è corredato dalle copertine originali, dall'indicazione delle prime edizioni a puntate sulla rivista "Journal de Spirou", dalle pagine di pubblicità originali, dalle curiosità accessorie. Una vera chicca, una lezione su come dovrebbero essere fatte tutte le edizioni in volume (eccezion fatta per la carta, che avrebbe potuto essere patinata, ma allora il volume sarebbe costato più del 29,90 euro richiesti). E che bello sarebbe se avere volumi del genere che ristampino, con un adeguato apparato critico, cose bonelliane quali, non so, il "Gordon Jim" di Roy d'Ami o il "SuperTex" di Bonelli & Galleppini (se si ristampa Buck Danny, che gode di un pubblico di nicchia, mi chiedo perché l'archivio bonelliano, che nel nostro Paese ha di sicuro un più largo seguito, non venga valorizzato allo stesso modo). Dicevo poco sopra di come "Le nuove avventure di Buck Danny" inizino dopo che la Seconda Guerra Mondiale è finita e i piloti dell'aviazione americana si ritrovano a spasso, senza soldi e disoccupati. Buck Danny cerca un lavoro come ingegnere, ma non ne trova. Stessa sorte per il suo amico Tumbler, un tempo ai suoi ordini, mentre un terzo collega Sonny Tucker, il "tipo buffo" del gruppo, fa il commesso in un pub. I tre decidono di unire le forze e accettano un ingaggio da parte di una misteriosa compagnia aerea mediorentale, che li assume a patto che raggiungano a spese loro Porto Said, in Egitto. E' molto divertente il modo in cui il terzetto, senza mezzi, riesce a superare l'Atlantico. Una volta giunti a destinazione, Danny e i suoi amici si trovano coinvolti in un turbinare di avventure in cui ogni pagina racconta qualcosa e non ci sono tempi morti: trafficanti di armi e di droga, ricchi petrolieri, ragazze in pericolo, sommosse e tradimenti si susseguono per il nostro divertimento. Nel quarto episodio del volume, i tre piloti tornano nei ranghi dell'aviazione americana come collaudatori di prototipi, e devono subito sventare un intrigo internazionale a base di sabotaggi. Pare che il rientro di Buck Danny nell'esercito statunitense sia stato richiesto a gran voce dai lettori che non avevano apprezzato il fatto che l'eroe e i suoi amici agissero come piloti free lance. Per chi si intende di aerei, la quarta avventura dimostra come soggettista e sceneggiatore fossero all'avanguardia, quanto a documentazione, in campo aerospaziale, facendo ricorso a tutte le nuove idee tecnologiche che si stavano sviluppando nella loro epoca: i disegni del caniffiano Hubinon, in particolare, fanno ancora scuola quanto a efficacia narrativa e rigore documentario.





Paolo Bacilieri e Matz
Adiòs muchachos
Rizzoli Lizard, 2011

Ho letto, con molto divertimento, "Adiòs muchachos" di Paolo Bacilieri, sceneggiato da Matz (Alexis Nolent) per il mercato francese (oltralpe è uscito con il marchio Casterman) e quindi arrivato da noi in traduzione. Matz, a sua volta, ha tratto il soggetto da un romanzo dello scrittore Daniel Chavarrìa, un uruguayano da quasi cinquant'anni riparato a Cuba. Partendo dal presupposto che vale la pena di leggere tutto quello che esce dal pennello di Paolo Bacilieri (uno dei più grandi disegnatori, e autori completi, del fumetto italiano contemporaneo), questo volume si segnala per la storia intrigante, erotica e drammatica, noir e brillante al tempo stesso. Protagonista ne è una ragazza cubana, Alicia, che nega di essere prostituta, o meglio, una delle tante "jineteras" che abbordano i turisti occidentali, ma nei fatti lo è (senza che questo costituisca un demerito agli occhi di nessuno, di noi lettori in primo luogo). Il suo modus operandi, vero e proprio compromesso con la propria morale e con la realtà è questo: finge un incidente in bicicletta facendosi soccorrere dal ricco guidatore di una automobile di lusso, seduce il conducente come se fosse scattata una storia d'amore e, senza chiedere compensi in denaro per le prestazioni a letto, presenta alla "preda" di turno, sempre ben contenta di essere vittima della bella cacciatrice, la propria famiglia e i problemi quotidiani della madre e dei fratelli, accettando aiuti e regali. La faccenda si complica quando Alicia incontra un canadese, John King, detto "Juanito" perché ha lavorato a lungo in Messico, uomo d'affari coinvolto in un grosso investimento a Cuba. Alicia rischia di innamorarsene, lui invece scopre il suo passato e la "assume" per un gioco erotico che consiste nel farle fare sesso con degli sconosciuti mentre lui e sua moglie Elizabeth osservano al di là del vetro di un falso specchio. Solo che, come si scoprirà a un certo punto, Elizabeth (che Alicia non vede mai) non è esattamente la moglie di Juanito ma... vabbè, il resto, se volete, ve lo potete leggere da soli. Ne vale la pena, se vi fidate del mio consiglio.



Carrie Bebris
Orgoglio e preveggenza
Tea, 2007

Il sottotitolo spiega tutto: "Un'indagine di Mr. & Mrs. Darcy". Chi ha letto "Orgoglio e pregiudizio" di Jane Austen, ha già capito il senso dell'operazione. Chi non ha letto "Orgoglio e pregiudizio", va da sé che dovrebbe farlo: è uno di quei romanzi che, nella vita, bisogna leggere almeno una volta. Non si può arrivare in fondo all a più nota opera della Austen senza aver voglia di ritrovare ancora, da qualche parte, Elizabeth Bennet e Fitzwilliam Darcy, il cui amore impossibile e contrastato giunge a coronarsi proprio nelle ultime pagine del racconto. Così, la scrittrice americana Carrie Bebris ha pensato di accontentare i fan della coppia, scrivendo il seguito di "Pride and Prejudice" in salsa mistery. Infatti, "Orgoglio e preveggenza" inizia là dove "Orgoglio e pregiudizio" terminava: con il doppio matrimonio di Lizzie e Jane, la prima con Darcy, la seconda con Charles Bingley. Il primo capitolo, infatti, riporta in scena tutti i personaggi principali del racconto, dal logorroico cugino Collins al, citato sepppur assente, debosciato cognato Whickham, ricostruendo con una ben imitata scrittura "d'epoca" lo stile della Austen. Dal secondo capitolo in poi, invece, e purtroppo, le cose cominciano a cambiare e lentamente degenerano perché dal "falso letterario" ci si sposta verso un giallo vecchia maniera che successivamente si trasforma in un tenebroso racconto di magia e di oscure maledizioni. Il mistero che si crea attorno alla malattia di Caroline Bingley, divenuta Mrs. Parrish dopo un frettoloso matrimonio con un ricco americano, e il giallo di un delitto avvenuto tra le mura di Netherfield (dimora ben nota ai lettori della Austen) si risolvono infatti ricorrendo non alla logica ma al paranormale. Non solo: l'eroina del racconto, Lizzy Bennet divenuta Mrs. Darcy si rivela una fan dell'occulto, disposta a credere alla magia, e dotata di doti di preveggenza (di cui l'autrice promette di chiarire meglio la portata in successivi romanzi). Sinceramente, la Lizzy che ricordavo io sembrava una ragazza con la testa sulle spalle e non una mezza strega. Però, tant'è. Il romanzo è gradevole se uno non si aspetta niente di più di quel che riesce a dare, e la soluzione del caso è comunque ben servita dopo un paio di depistaggi. Non credo che leggerò, i successivi titoli della serie. Già, perché, dopo "Orgoglio e preveggenza", la Brebris ha già scritto "Sospetto e Sentimento" e altri due romanzi incentrati sui misteri affrontati e risolti dai coniugi Darcy. Non è finita qui: sappiate che un'altra scrittrice, Stephanie Barron, sta portando avanti una serie dal titolo "Le indagini di Jane Austen", in cui la protagonista è, come appare chiaro, la stessa Austen (finora i titoli sono tre), e una terza autrice, Pamela Aidan, ha iniziato una ulteriore nuova serie tutta dedicata a Fitzwilliam Darcy, indagando sul suo passato e incentrata sulla ricostruzione dell'epoca Regency (fine Settecento) in cui è ambientato "Orgoglio e Pregiudizio".