Mi pongo spesso il problema degli argomenti da trattare su questo blog. Non già perché ne sia a corto, ovviamente: purtroppo, o per fortuna (a seconda dei punti di vista), quelli non mancano mai, e anzi mi si affastellano nella testa come una maledizione biblica, dato che mi piacerebbe essere una mente semplice, visto che la felicità sta nell’ inconsapevolezza. Il problema è piuttosto capire che cosa sia il caso di dire, visto che il mio “privato” si sovrappone al mio ruolo “pubblico” nell’organico di una importante Casa editrice, e che cosa possa interessare i visitatori di questo spazio, che si aspettano chissà che cosa mentre io finisco per parlare magari di tutt’altro. Riflessioni, queste, che ho già fatto.
Alla fine, mi lascio guidare dall’istinto e scrivo quel che mi viene di scrivere. Come ho già avuto modo di dire nel post che ha scatenato il maggior numero di messaggi privati in assoluto, “Fatto così”, scrivere sul blog ha finito per avere, per me, una funzione catartica. Mi serve per liberarmi di qualcosa che ho bisogno di dire, di spiegarmi meglio anche e soprattutto a beneficio di me stesso. Perciò, è senza alcun imbarazzo che, di nuovo, torno a parlare di rapporti umani e a proporre alcune riflessioni maturate nel tempo sulla base delle esperienze, degli incontri, degli scontri, delle gioie e dei dolori. Soprattutto dolori perché, come diceva il mio terapeuta di un tempo, che già mi è capitato di citare, la vita non è una passeggiata.
Uno dei punti fermi si cui baso il mio atteggiamento nei confronti degli altri, è di prendere tutti per come sono, nella speranza di venire contraccambiato. Non giudico, per non essere giudicato. Sono indulgente verso i difetti altrui, augurandomi di trovare indulgenza verso i miei. Il che, sottintende com’è ovvio, che di difetti sono convinto di averne tanti. Però, mi viene spontaneo, di fronte al comportamento (talvolta incomprensibile) degli altri, di pensare che ognuno ha il suo carattere e che, come io sono “fatto così”, anche chi mi è di fronte è fatto a modo suo, e bisogna prenderlo com’è. Se ci sono delle asperità, ci saranno anche dei lati positivi. In ogni caso, non posso pretendere che quello sia diverso per far piacere a me: sono io che, di fronte a un dato di fatto, ne prendo atto e decido se star vicino a una certa persona o, se proprio i suoi pregi non riescono, ai miei occhi, a compensarne i difetti, salutarla cortesemente e cambiare strada.
Mi capita a volte, tuttavia, come capita a tutti, di sentirmi ferito dall’atteggiamento malevolo, sgarbato, rancoroso, aggressivo di qualcuno che, forse, ha dinamiche interne da risolvere e conflitti personali da ricomporre. Ovviamente, è sempre un mistero insondabile ciò che turbina nell’animo altrui (e che turbina anche in me, dato che siamo tutti sulla stessa barca, vittime e carnefici allo stesso modo, a seconda delle circostanze). E il fatto che io mi senta ferito è un problema soltanto mio: basterebbe essere più corazzati, o soltanto un po’ più saggi, per non farsi scalfire. Uno dei punti fermi del bel libro dello psicologo Giulio Cesare Giacobbe “Alla ricerca delle coccole perdute” (Ponte alle Grazie, 2004) è che nessuno può far soffrire nessuno e che soltanto noi abbiamo la responsabilità della nostra sofferenza. Un concetto sacrosanto che a parole, certo, è facile accettare; nella vita di tutti i giorni, è un po’ più difficile.
Nella vita di tutti i giorni: già, perché poi le cose che ci fanno stare più male sono gli scontri con le persone che ci sono più vicine. Io ho sempre trovato incredibile il fatto che ci sia gente impegnata in politica o nel sociale, che si riempie la bocca di slogan di fratellanza e di solidarietà, e poi si comporta in modo sgarbato o offensivo verso i familiari o i condomini che vivono con lui nello stesso palazzo. Ho conosciuto uno che andava tutti gli anni alla marcia per la pace Perugia-Assisi, e poi faceva la guerra con tutto il vicinato. C’è chi lotta per aiutare i bambini dell’Africa, e poi tratta male il collega in ufficio. C’è chi esprime solidarietà ai migranti e vorrebbe accogliere tutti quelli che sbarcano sulle nostre coste e poi se ne frega se ha un parente in difficoltà. La cosa che trovo più straniante è quando sono la moglie o il marito (ma anche il fidanzato o la fidanzata, il fratello o la sorella) a rispondersi male a ogni piè sospinto. Non ho mai sopportato le risposte sgarbate, il fatto che a darmele possa essere qualcuno che a rigor di logica dovrebbe volermi bene mi è sempre sembrato inaudito. Quando l’ho fatto notare, mi è stato risposto: “Sì, ma con te c’è confidenza, ti posso trattare come mi pare”. In realtà, se a trattarmi in modo brusco è un estraneo, pazienza, ma se è una persona cara, ecco, non me lo aspetto.
Però, dato che sono partito dal presupposto che non ci si può aspettare che gli altri siano diversi da come sono o che si comportino come noi vorremmo, tutte le volte che mi è capitato di soffrire (per la mia mancanza di saggezza, di difese e di corazza) non ho mai pensato di teorizzare norme di convivenza a cui sarebbe bello che tutti si attenessero, ma ho sempre preferito trarne suggerimenti per me stesso. Se un certo atteggiamento mi ferisce, non pretendo che gli altri non lo adottino più: mi propongo di non adottarlo io. Sapendo che qualcosa fa male, ecco, nei limiti del possibile cercherò di non farla in prima persona. Inevitabilmente, è capitato anche a me di commettere degli sbagli, talvolta inconsapevolmente. Però, vivere serve anche a imparare dai propri errori. Sulla base del bello e del brutto che mi sono trovato a affrontare nei miei primi cinquant’anni, e limitandomi alla vita di tutti i giorni e ai rapporti con il prossimo incontrato per strada, in ufficio, a casa, ecco i miei buoni propositi per l’avvenire.
1) Non usare mai la propria moralità come metro di giudizio di quella altrui. Bisogna avere una morale senza essere moralisti.
2) Non avere pregiudizi verso le persone. Non partire prevenuti contro qualcuno sulla base del sentito dire, o di una ostilità personale a pelle che può impedire di vedere le cose per come realmente sono. Gli altri sono sempre più complessi di come sembrano, o di come sono sembrati, e talora c’è del buono che rischia di sfuggire se, nel guardarli, non ci togliamo gli occhiali scuri.
3) Non rispondere mai in modo sgarbato a nessuno, ma in modo particolare a chi ci è più vicino: i famigliari, i collaboratori, i colleghi di lavoro, i vicini di casa. Non sfogare le proprie tensioni su chi non ne ha colpa.
4) Non valutare soltanto i difetti, ma anche i pregi delle persone. Le ingiustizie più gravi sono quelle fatte ignorando i meriti degli altri.
5) Imparare a dire “grazie” per l’aiuto che ci viene dato, per la collaborazione offerta, per l’impegno profuso, non diamolo per scontato e non riteniamolo sempre e comunque soltanto un dovere.
6) Ascoltare i consigli e chiedere il parere di chi ci è vicino. Ascoltare fin in fondo gli argomenti altrui, valutarli con serenità. Non riteniamoci portatori di luce e di verità, non ci convinciamo di essere sempre nel giusto. Chi ci vede dal di fuori ci valuta meglio di quanto possiamo fare noi, da soli.
7) Non ritenere sempre immeritato il successo altrui e, peggio, non cercare di screditarlo. Se qualcuno ha successo, la cosa più intelligente che si possa fare è provare capirne il segreto. La migliore, è esserne comunque contenti, soprattutto se si tratta di qualcuno che ci è vicino.
8) Non essere mai il nemico giurato di nessuno e, soprattutto, non sentirsi mai invasati dalla sacra missione di voler distruggere l’immagine o la fortuna di qualcun altro.
9) Imparare a vedere il bello in quello che fanno gli altri, coglierne le buone intenzioni anche al di là dei risultati, non denigrare e screditare sempre e comunque le iniziative altrui.
10) Non covare rancori: se c’è un conflitto, meglio affrontarlo. Parlarne è sempre la cosa migliore. Spesso covano sotto le ceneri le braci di un odio nato magari da un malinteso che poteva essere risolto subito. Le cose non dette fanno male a chi non le capisce e a chi non le spiega.