Non ho mai capito fino in fondo l’accostamento che di solito si fa tra i fumetti e i videogiochi. Anche la più grande manifestazione fumettistica italiana si chiama, rendendomi da sempre abbastanza perplesso, Lucca Comics & Games. A me, i due mondi sembrano diversi e inconciliabili come il cavolo e la merenda, o come gli asparagi e l’immortalità dell’anima. Probabilmente, visto il pressoché universale parere opposto (il resto del mondo li accosta sempre come se fossero un tutt’uno), sono io che mi inganno e non pretendo di aver ragione. Però, lasciatemi spiegare (se non altro per potermi, poi, dare torto) i motivi della mia perplessità.
Un esempio delle opinioni che vanno per la maggiore potrebbe servire come punto di partenza. Qualche giorno fa, conversando con un amico al tavolo di un ristorante, mi sento proporre questa argomentazione: “Il fumetto è morto. I ragazzi lo hanno sostituito con i videogiochi. Lo vedo tutti i giorni guardando mio figlio. E’ sempre davanti alla playstation. I fumetti sono fermi, immobili, silenziosi. I videgames invece sono spettacolari e dinamici. Se usa un wargame, mio figlio non gioca a fare la guerra, FA la guerra: entra in un mondo virtuale che sembra vero, in uno scenario iperrealistico. Con una simile concorrenza, perché dovrebbe leggere un fumetto con i sonori ‘bang’ e ‘boom’ scritti sulla carta? Che poi, si sa, leggere costa anche fatica”. Chi fa una simile considerazione, dunque, crede che esistano le storie di guerra e che ci siano due modi di raccontarle: uno freddo, statico e magari in bianco e nero, faticoso da seguire (la narrazione su carta), e uno ipercinetico e ipersonorizzato, immediatamente coinvolgente (il videogioco). Il secondo modo, sarebbe inevitabilmente preferibile al primo. Mi chiedo allora se un qualunque wargame debba essere preferibile a “Un anno sull’altipiano” di Emilio Lussu, o a “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Erich Maria Remarque, e se raccontino meglio la guerra questi due romanzi (ambientati entrambi durante il primo conflitto mondiale) o piuttosto un qualunque videogioco in cui il giocatore deve sparare ininterrottamente contro qualsiasi cosa si muova. E’ chiaro che si tratta di due cose completamente diverse, che rispondono a differenti esigenze. Accostare i fumetti ai games con l'approccio di cui ho dato un esempio sopra, significa ritenere che i videogiochi siano la forma più evoluta dei comics, come il film a colori lo è delle pellicole in bianco e nero. Logicamente le giovani generazioni li preferirebbero. Ma non è così. Non siamo di fronte a due fasi di una evoluzione per cui il fumetto è la pikaia gracilens (il primo cordato) e il videogioco l'homo sapiens (o l'homo superior). Comics e games sono entrambi evoluti allo stesso modo, lungo percorsi diversi e, secondo me, molto distanti.
Io, personalmente (e so di esprimere un’opinione del tutto privata che non mette in discussione la bellezza, la grandezza e la validità del lavoro e delle passioni altrui), trovo noioso quello che vedo quando mi soffermo a guardare i ragazzi di casa che giocano a uccidere i nemici (mostri, alieni, poliziotti, zombi, titani o passanti che siano) sullo schermo del televisore: alla fine, mi sembra, quasi tutti i videogiochi si risolvono in una serie di avversari da far fuori uno dopo l’altro in un tripudio di schizzi di sangue. Se poi il gioco consiste invece nel giocare a calcio, nel pilotare un aereo o nel combattere uno scontro di wrestling, il supporto affabulatorio è ancora più inconsistente, la storia proprio non c’è. Mentre scrivo, mio figlio sta usando la playstation per correre un rally in automobile. Davvero questa esperienza può corrispondere alla lettura di Ken Parker, o di Maus o di una storia di Magnus? Non vedo come si potrebbe sostenere. Un videogioco di cui ho sentito parlare con entusiasmo consiste nel cercare di fare a fette con una spada della frutta che ci viene lanciata contro. Non colgo l’essenza del divertimento (ma mi rendo conto che è un problema mio). Il bello (o il brutto) è che alla fine si annoiano anche i giocatori. Ho già raccontato di come i ragazzi spesso dichiarino di non sapere che fare, di annoiarsi a morte. “Leggi un libro, guarda un film, ascolta un disco, dipingi, fai una passeggiata, comincia a scrivere un diario con la storia della tua vita”, suggerisco. A me non capita mai di non sapere che cosa fare. Come si fa ad annoiarsi con la casa piena di libri? La risposta che ho ottenuto l’ultima volta che l’ho fatto notare, sia pur detta con un sorriso, è stata: “Come siamo diversi, noi due”. “E’ vero, siamo diversi. Io non mi annoio, tu sì”, ho risposto. Io ho una biblioteca, lui la raccolta completa di Super Mario.
Mi si dirà che esistono dei videogiochi in cui si racconta una “storia”. E’ vero, e ho visto qualcosa. E’ il caso, mi sembra di poter dire, di “Assassin’s Creed”. Ciò non toglie che, alla fine, sempre di nemici da far fuori si tratta: Super Mario magari deve eliminare dei pasticcini volanti, in altri casi si devono squartare degli orchi, ma non si esce da lì. Grazie al cielo, i fumetti e i romanzi (due forme di racconto che invece mi sento di accostare tra loro), hanno orizzonti un po’ più ampi. Non vorrei essere frainteso. Non sostengo che i migliori videogames non siano ben realizzati e in grado di divertire gli appassionati del genere. Sono convinto che ci siano autori geniali, meritevoli di premi e riconoscimenti. Quel che contesto è la vicinanza o la sovrapponibilità tra la fruizione di un videogame e la quella di un fumetto.
Anche nel caso in cui un videogame racconti una “storia”, questa non ha niente a che vedere con la “fabula” che caratterizza la narrativa, disegnata o in prosa che sia. Il perché è evidente: la “storia” di un gioco elettronico viene fruita da ogni giocatore in un tempo diverso. Quanto duri un combattimento durante il game non lo stabilisce l’ideatore del gioco, ma il fruitore finale. Se uno è un po’ imbranato (come sarei io se mi cimentassi nell’impresa), per risolvere una situazione o salire di livello ci mette una vita. Ho visto giocatori aggirarsi spada in mano in un labirinto, in cerca di un’uscita, e impiegarci delle ore per trovarla, sempre ritornando sui loro passi, sempre vedendo lo stesso scenario, sempre sfuggendo alle stesse minacce. Che palle. Nei romanzi, nei fumetti, nei film, invece, è il regista che stabilisce la durata di una sequenza. E dunque è come se io dovessi scegliere se sia meglio una scena girata dal genio di Hitchcock (con i fotogrammi contati al minuto secondo per creare una certa suspance e una certa tensione) o una filmata da un invitato al matrimonio che fa una ripresa con la sua videocamera indugiando per ore su tutti i commensali.
Se io ascolto una storia, fosse anche una semplice barzelletta, trovo diverso il racconto fatto da qualcuno che sa come si tiene desto l’interesse (e ha il dono dell’affabulazione) o da qualcuno invece che sbaglia i tempi e suscita soltanto sbadigli. Riconoscendo il talento del grande narratore, non vorrei mai essere io a decidere quanto farla lunga: voglio che sia lui a incantarmi, stabilendo le pause e le accelerazioni. Non voglio essere io a decidere dove andare, mi ci deve portare una guida! Il bello dei romanzi, del cinema e dei fumetti è appunto quello di farsi prendere fra le mani dallo scrittore, dallo sceneggiatore, dal regista che ci massaggiano, ci carezzano, ci stritolano, ci pizzicano come sanno fare perché quello è il loro mestiere.
Non ho mai sopportato le storie interattive, quelle con i “bivi”, in cui a un certo punto è il lettore a dover decidere che cosa fa il personaggio. Che assurdità! E’ il narratore che è pagato per dirmi quel che succede, perché devo farlo io? Se un Pinco Pallino con poca fantasia può avere Stephen King a congegnargli un racconto che lo tenga avvinto dalla prima all’ultima parola, perché dovrebbe metterci lo zampino lui e stabilire come debba andare la trama? Io non vorrei mai che la narrazione di Dickens si interrompesse e lasciasse il posto a quella di un Ugo Bianchi qualsiasi. E’ intollerabile che i tempi di una storia non vengano decisi dal grande scrittore che la sta narrando. Una volta ho persino preso in giro le storie a “bivi”, scrivendo una storia di Cattivik disegnata da Giorgio Sommacal, intitolata “Opzioni”. Il buffo di quella parodia era che qualunque “bivio” narrativo imboccasse il Genio del Male per decisione del lettore, gli capitava sempre la stessa cosa.
Perciò, se Lara Croft deve penetrare in una fortezza per compiere una missione, fatemi vedere, per favore, quel che le succede senza chiedermi che sia io guidarla, perché non so penetrare nelle fortezze e non mi importa un accidente di farlo. Dunque assisterò volentieri, piuttosto, a un film in cui Lara cerca la via d’uscita da un labirinto, sperando che il regista sappia gestire la cosa in modo da non farmi annoiare troppo (se la Croft passasse e ripassasse dieci volte nello stesso punto in cerca di un passaggio, vorrei indietro il prezzo del biglietto). C’è anche da considerare che il mio coinvolgimento in una vicenda che preveda il rischio per una eroina che combatte delle orde di cattivi è il fatto che io sia entrato in empatia con lei: dunque dovrei conoscere i suoi sentimenti, le sue debolezze, i suoi affetti. Non so se questo accada con i videogame. Di sicuro non accade con quelli in cui lottano due wrestler. E di certo, accade di più nei fumetti, nei romanzi, nei film, almeno in quelli in cui la trama conta se non di più, almeno quanto l’azione.
Infine, è evidente che la fruizione di un videogames monopolizza la mente frastornandola di suoni e di colori, obbligandola a gestire azioni e reazioni finalizzate al risultato di gioco, e dunque scollega il giocatore dalla realtà, senza fornire nulla in cambio. Si tratta quasi di un’opera di sottrazione. Si toglie qualcosa a chi gioca: lo si rapisce, lo si estranea, lo si monopolizza. Sono d’accordo sul fatto che lo si possa divertire e persino emozionare. Però, la cosa rimane fine a se stessa: come la masturbazione. La lettura, invece, arricchisce: come il sesso fra chi si ama. Il lettore è obbligato ad aggiungere del suo a quel che legge. Dà una voce al personaggio, lo colora, ne immagina i movimenti. La narrazione dello scrittore è quasi sempre evocativa. L’esercizio del leggere abitua a riflettere, a scrivere, a parlare, a ponderare i problemi. Anche quando un fumetto o un romanzo ci portano in mondi di sogno, o in scenari fantasy, ciò che impariamo nell’esperienza fatta a contatto con i personaggi e le loro azioni (che non decidiamo noi, grazie a Dio), riusciamo a trasferirlo nella realtà ed è fonte di arricchimento spirituale e culturale. La narrativa è spesso rappresentazione della realtà, talvolta ne è la metafora, sempre offre spunti di riflessione. Leggere non può essere paragonato a giocare a un videogioco.
Quando io, esprimendo un parere personale che non comporta nessuna scomunica, affermo che i videogiochi scollegano il giocatore dalla realtà, non sottintendo un'opionione negativa. Sottolineo soltanto un dato di fatto. Di per sé, lo scollegamento dalla realtà può essere anche un'esperienza positiva come lo sono, per esempio, il sonno, l'estasi mistica, l'ascolto di musiche ipnotiche, il massaggio thailandese, il guardare la luna, il ballare staccando la testa. Nessuno mette in dubbio il valore catartico dell'estraniazione da se stessi. Ci sono anche stati di allucinazione in cui, invece, l'estraneazione è nociva, ma immagino che non ci siano videogiochi in grado di scatenare psicosi. Il punto è un altro: il produrre riflessi condizionati e il monopolizzare l'attenzione senza richiedere quella particolare forma di rielaborazione linguistica, semantica e semiologica tipica della lettura, rende il giocare alla playstaton più simile al ballare in discoteca la musica techno che applicarsi su un testo. E di sicuro non dà altrettante informazioni e non sviluppa le abilità di linguaggio e di articolazione del pensiero che invece serve ad allenare l'applicazione alla lettura. Il punto è sempre quello: non mescolare le due cose dando a intendere che leggere Dante o giocare a Super Mario siano la medesima cosa. Una volta che sia chiaro questo, si giochi pure e ci si estranei pure quanto si vuole. Io preferisco, comunque, il massaggio thailandese.
Non nego che anche da alcuni videogiochi si possa imparare qualcosina. Tutto, del resto, può accendere la curiosità, ed essere fonte di conoscenza. Tuttavia il motivo per cui molti scelgono la playstation e snobbano il libro è, secondo me, perché tenere in mano un joystick è più facile che concentrarsi su un testo scritto, e questo non mi sembra un indice di elevazione culturale (poi magari mi sbaglio e il videogame con due wrestler che si picchiano è più istruttivo di Guerra e Pace). Non ho mai pensato, comunque, di impedire a qualcuno di piazzarsi davanti alla play, e neppure mai l'ho sconsigliato neppure ai miei figli. Ho semplicemente suggerito di dedicare un po' di tempo anche alla lettura, convinto che l'una cosa non escluda l'altra e che, soprattutto, la prima (il giocare ai videogame) non sia una forma evoluta della seconda, o che contenga in sé a seconda, o che sia alternativa alla seconda.
Dunque, non confondiamo i due universi. Leggere e giocare alla playstation sono due cose diverse. I fumetti non c’entrano nulla con videogiochi. Non dovrebbero essere in concorrenza come non sono in concorrenza il giocare a calcio e andare a teatro. Chi non legge fumetti (o libri) e gioca alla play, non è che se non giocasse alla play leggerebbe i libri. Semplicemente leggere non gli interessa, giocare sì, forse perché è più facile e meno impegnativo. Nel sentire comune, invece, si comincia a ragionare come se il fumetto fosse un videogioco con le animazioni alla pacman, per cui uno preferisce, giustamente, i giochi più moderni con gli scenari iperrealistici e magari in 3D. Non è così! Giocate pure a tutti i games che volete, ma i fumetti sono moderni allo stesso modo. Semplicemente, sono cose diverse. A mio avviso, questa differenza andrebbe rimarcata in ogni circostanza, perché se si continuano ad accostare i comics e i games sarebbe come proporre a un ragazzo la scelta fra un film muto e in bianco e nero e uno con il sonoro e gli effetti speciali. E’ ovvio che il ragazzo sceglierà il secondo. Ma la scelta in realtà non c’è, come non c’è tra un panino di Mac Donald’s e una visita a un museo. Il problema è che se uno va sempre e soltanto da Mac Donald’s diventa obeso e non gli si accresce certo la visuale sul mondo e sulla sua bellezza. Leggere è bello e apre la mente, il cuore, la parola. Perché un’esperienza bella dovrebbe essere preclusa a un ragazzo, con la scusa che non gli interessa perché lui gioca alla play? La scuola, la famiglia, la televisione, dovrebbero educare alla lettura come educano all’alimentazione. Vengano pure tutti i videgames che si vogliono, purché non si continui a dire che il giocare è una nuova forma di lettura. Non lo è.