Vorrei tornare ancora una volta sul storia del ritorno di Hellingen, e
chiudere il discorso. Per farlo ricorrerò a Massimo Manfredi, usando un suo
commento come spunto di discussione. Di Massimo una volta ho scritto, in un
articolo pubblicato su questo blog, che è il lettore che ogni autore
desidererebbe avere. Spiegavo così il perché: “è fedele e ben disposto ad
ascoltare, acuto, intelligente, e non accondiscendente.Anche quando il suo
giudizio è critico, argomenta senza acrimonia. Soprattutto, non serba rancore:
dalla storia successiva è pronto a valutare ciò che gli viene proposto, senza
pregiudizi. Se individua delle falle, conserva memoria dei meriti”. Nel gennaio
2013 io e lui abbiamo idealmente festeggiato insieme i primi venti anni di una
consuetudine: l'arrivo in redazione di una lunga lettera in cui, con certosina
pignoleria, Massimo esamina uno per uno tutti gli albi zagoriani dell'annata
precedente appena conclusasi”. Per la cronaca, anche quest’anno la tradizione è
stata rispettata. Nell’occasione del ventennale, però, ho pubblicato l’intero
corpus delle sue disamine. Potete leggerle qui
Che cosa scrive, dunque, Massimo, di “Finale di partita”
e degli albi precedenti? Copio e incollo il suo commento così come è apparso
sul forum SCLS. Dopodiché proverò a spiegare il mio punto di vista.
La storia mi è piaciuta, e parecchio. A parte il finale. La metà disegnata da Ferri è quella che mi ha preso di
meno (non certo per i disegni, eh!), dato che questi indiani robot sono gli
avversari peggiori da leggere. Da un lato sono invincibili sul piano fisico,
per cui pur essendo inizialmente stuzzicanti per le difficoltà create all'eroe,
dopo pochi minuti diventano bloccanti per la narrazione; dall'altro essendo
robot non hanno alcuno spessore psicologico, quindi oltre i cazzotti non vanno.
L'altra metà si prende invece subito ben altre altezze.
Contribuiscono a questo:
- un Hellingen mai così feroce, sadico, pazzo. Se devo
dire, forse anche troppo. Mi ha dato l'impressione che Burattini abbia voluto
calcare sulle scene forti (anche visivamente splatter) quasi per contrastare
certe accuse di "autore buonista" che gli vengono mosse. Il risultato
è comunque notevole. Voglio avversari così: intelligenti e quasi superiori nel
porsi verbalmente, figli di puttana nei fatti. Concordo che per alcune cose si
discosta dall'Hellingen di Nolitta, che aveva anche diversi momenti mentalmente
stabili, ma fa parte delle legittime interpretazioni dei vari autori che si
occupano nel tempo di un personaggio, se non lo tradiscono. E non è stato fatto
(aggiungerò qualcosa dopo);
- uno Zagor quasi specchio della sua nemesi, che perde la
testa e le staffe di fronte a lui. E' una cosa che ho visto poco sottolineata
nei vostri commenti. A me ha invece esaltato vedere uno Zagor così istintivo e
umorale, che non si fa troppe seghe mentali e va a spaccare i grugni che si
frappongono tra lui e la sua preda. Dato che si dice (a ragione) che negli ultimi
anni è troppo moscio, e/o si parla di tradimenti nolittiani ecc. ecc., mi
stupisce che nessuno rilevi quanto sia nolittiano questo carattere di Zagor,
specie nelle sue più antiche incarnazioni. Ma anche nelle ultime se ricordate
le urla folli quando a Skylab, dopo aver profanato la tomba di Hellingen
davanti a un Perry atterrito, la scopre vuota;
- essere riusciti nell'impresa (ripeto: impresa) di fare
una summa di tutti gli Hellingen visti fino a qua, spesso contrastanti tra loro
(anche all'interno degli stessi di Nolitta, alle volte). E farla coerente e che
sta in piedi. Certo, qualcosa si è dovuto sacrificare nell'opera di limatura.
Ma se riuscire ad andare oltre a quanto fatto da Sclavi
era già difficile (e infatti Boselli ci riesce solo parzialmente, cioè ha senso
la trovata ma qualitativamente mal gestita), andare oltre Sclavi+Boselli, senza
negare il passato ma aggiungere qualcosa di nuovo, peggio ancora. Esame
superato a pieni voti, per me;
- il passato del giovane Garth è ben raccontato e, se non
c'erano state manifestazioni di razzismo così marcate in Nolitta, nemmeno si
può dire che questa caratteristica sia incongruente con la sua mentalità. Ci
può stare. Era una delle ipotesi sul suo passato, che non tradiscono il
personaggio, e in linea con la sua forma mentis.
Per me va benissimo così. Altrimenti, scusate, per i
puristi del mad doctor, che cosa ci doveva raccontare Burattini? Una ennesima
invenzione folle con cui minacciare il mondo? Un robot da guidare tipo Mazinga?
QUESTO SI' che lo avrebbe trasformato in macchietta, come è ad esempio Verybad.
Moreno sceglie un'altra strada (come del resto i suoi predecessori) e fa
benissimo. Può non piacere la resa (a me piace), ma la scelta in sé è corretta;
- sempre di Hellingen, apprezzo gli spiegoni scientifici
fatti a Zagor (non importa che lui non li può capire, il lettore sì) che
inspessiscono il narrato (a differenza appunto di quanto accade con le macchine
di Verybad), e la parte della conferenza, che ne inspessiscono la psicologia. Qua, mi lascia solo perplesso l'ostracismo accademico
degli intellettuali americani alle sue teorie che, al contrario, erano molto
apprezzate, come ha fatto già notare Carlo Monni. Teorie continuate ben oltre
il periodo zagoriano, se è vero come è vero che Hitler si è espressamente
ispirato all'eugenetica statunitense verso i pellerossa, fino ad arrivare a
soggetti istituzionali come Harry Laughlin. Ma nella impostazione
"positiva" della testata ci sta che venga osteggiato;
- il momento finale con Zagor convinto che sia arrivata
l'ora della sua morte.
“Io ho pagato il mio debito di sangue per la mia vendetta
di tanti anni fa… Ho lottato per la pace e per la giustizia… e sono certo di
avere vinto… anche questa volta!”
Un passaggio da scolpire nel muro di ogni zagoriano,
summa perfetta della sua filosofia di vita.
Come mi pare tutti, non ho invece apprezzato
l'invocazione di Wendigo, ma sopratutto non accetto il suo ruolo di sfacciato
deus ex machina, figura che detesto come poche altre in qualunque forma di
narrazione.
Riconosco a Burattini che ha cercato di prepararla al
massimo, con le riflessioni Tao di Zagor sugli equilibri, sull'ammettere che è
comunque una avventatezza, sulla spremitura del suo quinto senso e mezzo, delle
iniziazioni di Shyer, sulla forse non ripetibilità, ecc.... insomma, gli do'
atto che non la usa a cuor leggero come fanno tanti altri, ma il fatto rimane.
Questo è per me l'unico grosso buco di questa run, che in ogni caso non mi fa
dimenticare tutto il resto che ho detto sopra.
I disegni della premiata coppia sono ottimi come sempre.
Leggibilità bonelliana ai massimi livelli. Si perde invece qualcosa in
spettacolarità.
Mi piace, di tutto ciò, come Manfredi abbia sottolineato
i molti elementi presenti nella storia che a lui (a differenza di altri) non
sono sfuggiti, e che non si esauriscono certamente nell’apparizione del Wendigo
in una vignetta dell’ultimo albo. Peraltro, mi chiedo che cosa abbiano pensato,
i critici di questa apparizione, dell’intera sceneggiatura di Mauro Boselli con
il precedente ritorno di Hellingen, il cui il demone aveva un ruolo assai
maggiore a addirittura predominante, ma lasciamo perdere. Fatto sta che il
Wendigo non si poteva non fare i conti a meno di decidere di ignorare del tutto
la storia boselliana. Io ho deciso di farci i conti con una sola pagina,
proprio per non turbare i fautori della nolittianità, ma per costoro anche una
vignetta è stata troppo: pazienza. Personalmente, avrei trovato assurdo il
fatto che il clone di Hellingen non si chiedesse che fine avesse fatto
l’originale e non si proponesse di liberarlo dalla sua prigione. Però, per
altri meglio questa assurdità che rivedere il Wendigo e dunque lasciamo costoro
nelle proprie convinzioni.
Mi ha colpito comunque una frase di Massimo: "come mi pare tutti", riferito appunto al mancato gradimento ritorno del Wendigo. Posso assicurare che invece ho ricevuto decine di attestati di felicitazioni in proposito, così come in precedenza avevo avuto richieste precise (anche dall'estero) sul fatto che non mi dimenticassi del demone boselliano (cosa che non avrei potuto fare neanche volendo proprio per ragioni di logica e coerenza). Dunque le opinioni sono tante e diverse e, cosa che potrà meravigliare i detrattori pregiudiziali, anche positive.
Concentriamoci piuttosto sulla definizione di “deus
ex machina” attribuita (da Massimo e da altri) all’escamotage con cui la lunga
storia è stata divisa in due parti in attesa di uno nuovo scontro. Faccio
notare che anche l’ultimo, recente film di “Guerre Stellari” non si conclude e
il proseguimento della vicenda viene rimandato a data da destinarsi, dunque non
ho fatto niente che già non si sia fatto, si faccia e si farà per ogni dove.
Del resto, far durare una storia sette mesi invece di quattro mi sarebbe
sembrato micidiale e non credo di aver fatto una scelta folle, tuttavia
qualcuno penserà il contrario e ciascuno è libero di ragionare con la propria
testa.
Ma che cos’è, esattamente un “deus ex machina”? Copio e incollo da Wikipedia: “Deus ex
machina è una frase latina mutuata dal greco che significa letteralmente
"divinità (che scende) dalla macchina". Originariamente, indicava un
personaggio della tragedia greca, ovvero una divinità che compare sulla scena
per dare una risoluzione a una trama ormai irrisolvibile secondo i classici
principi di causa ed effetto. Per estensione, tale espressione è andata a indicare un
evento o un personaggio che, nel corso di una narrazione, ne risolve
inaspettatamente gli intrecci, spesso con modalità apparentemente non correlate alla logica interna della vicenda, al punto di apparire altamente
improbabile o come il risultato di un evento fortuito“.
Chiediamoci dunque: l’apparizione del Wendigo non
rispetta la logica interna della vicenda? E’ altamente improbabile? E’ il
risultato di un evento fortuito? Per come la vedo, soltanto chi abbia letto
un’altra storia (e non quella che ho scritto io) può crederlo. L’apparizione del Wendog è talmente logica e
consequenziale che è stata annunciata e preparata fin dalla tavola d'apertura dell’albo di settembre, prima di verificarsi puntualmente a metà di quello di dicembre.
Infatti, all’inizio dell’ “Eredità di Hellingen” Zagor ha una visione che gli
annuncia chiaramente quello che accadrà: per risolvere la situazione dovrò
infatti scendere nelle caverne del Monte Naatani, decifrare delle iscrizioni,
trovare la mummia di Rakum, versare il suo sangue. La visione gli è stata
mandata da Kiki Manito (personaggio nolittiano) che già aveva risolto
magicamente anche la faccenda degli Akkroniani. In quel caso, nessuno disse che
Rakum era un deus ex machina nonostante non fosse stato annunciato da niente e
comparisse all’improvviso.
Il fatto che io abbia cercato di “far dimenticare”
ai lettori la visione iniziale e l’abbia rammentata solo alla fine è un colpo
di scena come quando nei gialli di Agatha Christie viene svelato da Poirot un
particolare a cui nessuno aveva fatto caso e che invece si rivela di importanza
fondamentale. Tra un colpo di scena e un deus ex machina c’è una bella
differenza. Per di più, Zagor non capita nella grotta di Rakum per un “evento
fortuito” (casomai, un evento fortuito era stato quando ci era finito nella
storia di Nolitta “Magia senza tempo”), ma perché il nostro eroe decide di
andarci avendo capito il messaggio della visione: dunque lode all’intelligenza
del Re di Darkwood. Se si salva, non è perché arriva una divinità a toglierlo
dai guai, ma perché lui fa, con coraggio, quel che c’è da fare (tutto ciò è la
perfetta negazione di quel che si definisce “deus ex machina”).
Come se non bastasse, durante tutto il corso della storia
avevo seminato indizi su ciò che sarebbe successo. Se qualche lettore
disattento non li ha colti, mi dispiace. Per fare due esempi, Zagor, parlando
con il suo avversario, si meraviglia che Hellingen non sappia nulla del Wendigo
e dunque è lui stesso a mettere in testa al Mad Doctor che c’è qualcosa su cui
deve informarsi: impensabile che lo scienziato pazzo non lo faccia e non
elabori un piano in proposito. E’ chiaro che se Hellingen si propone di
studiare il modo di liberare il suo doppio, il Wendigo pensi di intervenire (insomma, il demone era stato già tirato in ballo). Poi, è lo stesso folle
criminale a rivelare al Re di Darkwood il suo intento di affrontare il nemico ultraterreno, convinto che il suo genio avrebbe trovato
il modo di farlo. A quel punto, chiunque avrebbe dovuto capire che il prossimo
step sarebbe stato appunto la discesa in campo del Wendigo. Quando costui
effettivamente compare, come ci se ne può meravigliare? Chi può,
ragionevolmente, accusare questa apparizione di essere un escamotage forzato,
un deus ex machina? E’ piuttosto l’inevitabile conseguenza di tutto ciò che lo
sceneggiatore aveva preparato.
Due parole infine su altre due obiezioni (trascurando di
rispondere a chi reputa tutto ciò al pari di “scarafaggi” sugli spaghetti:
credo che esista una patologia psichiatrica che consiste nel vedere insetti
dappertutto, e magari è quella che fa scambiare olive per blatte). La prima:
non è piaciuta la forma troppo “moderna” dei cyborg che compaiono nella parte
finale del racconto (secondo alcuni Hellingen dovrebbe costruire sempre automi
alla Titan). Faccio notare che è ben spiegato come gli automi in questione non
sono di origine hellingeniana ma akkroniana. Se Hellingen per alcuni è obbligato
a fabbricare solo robot di foggia antiquata, speriamo che almeno gli alieni
possano sbizzarrirsi un po’ di più. Qualcun altro ha notato che le idee di
eugenetica propugnate da Hellingen negli ambienti universitari avrebbero dovuto
trovare riscontro invece di venire disprezzate, perché all’epoca di Zagor il
terreno era fertile. Faccio notare che chi lo dice non ha, evidentemente,
tenuto ben presente due personaggi: Hawking e Quaritch. Il primo è zoppo e
dunque, con l’autorità che dimostra di avere, ha motivo di inalberarsi di
fronte alle proposte di un ritorno alla Rupe Tarpea avanzate da Hellingen, il
secondo è la dimostrazione che qualcuno, in effetti, può rimanere al contrario
affascinato dal Mad Doctor. E vedremo questa cosa che sviluppo avrà nella
prossima storia.