Una cosa che racconto spesso parlando di mio padre, è della sua sostanziale incapacità di capire che cosa io faccia davvero di lavoro. Lui, che è stato fornaio per una vita (e anche a me è capitato di passare parecchie notti a farci il pane insieme), non sa spiegare ai suoi amici o ai nostri lontani parenti in che consista quel mio gran darmi da fare, che mi porta in giro fra la Toscana e la Lombardia ma poi anche qua e là per l'Italia e talvolta persino all'estero. Si è sempre meravigliato che io non apprezzassi il posto fisso e con un buono stipendio che avevo prima di iniziare a lavorare per la Bonelli, e quando gli dissi che mi ero licenziato per scrivere fumetti, ha sgranato gli occhi come se avessi fatto outing e lo stessi informando che andavo a convivere con un travestito.
A distanza di vent'anni, se ne è fatta una ragione e forse si è anche convinto che non avevo tutti i torti, ma ugualmente non ha le idee molto chiare su quel che faccio per guadagnarmi da campare. Così, tiene in casa il primo Zagor che gli ho portato con sopra stampato il mio nome, e quando qualcuno gli chiede: "ma Moreno, che lavoro fa?", lui tira fuori l'albo, lo mostra e risponde rassegnato: "Fa... fa questo!".
Qualche tempo fa, un settimanale fiorentino intitolato "Metropoli" ha pubblicato una mia intervista intitolandola "Il figlio del fornaio nel regno dei fumetti" e lui si è commosso. Non è mai facile, credo, il rapporto di un uomo con suo padre. Si passa dall'adorazione che si ha verso di lui quando si è bambini, alla conflittualità degli anni dell'adolescenza, in un continuo alternarsi di alti e bassi quando si cerca di camminare con le nostre gambe e ci si scontra con i suoi consigli, che spesso non sono quelli che vorremmo sentirci dire, o con la sua ostilità quando prendiamo strade diverse da quelle che lui vorrebbe vederci imboccare. Temiamo sempre il suo giudizio anche se fingiamo di non tenerlo in considerazione perché tanto lui non può capire. Non gli diciamo mai che gli vogliamo bene, perché gli uomini si vergognano a dirlo. Però poi, invecchiando, ed è quello che succede a me in questi anni, ci guardiamo allo specchio e vediamo riflessa non la nostra, ma la sua faccia.
Quando mio padre ha compiuto settant'anni, gli ho scritto un biglietto che dice proprio questo.
Ogni mattina,
guardandomi allo specchio,
mi accorgo di quanto ti assomiglio, babbo.
E non ne sono sorpreso,
perché non ti assomiglio solo fuori,
ma anche, e tanto, dentro.
Come scrisse Vico Faggi in un suo verso, "Scopro in me la presenza di mio padre". Sono andato a recuperare un libretto del 1996 che sapevo di avere da qualche parte. Si intitola "A mio padre", e ha per sottotitolo "Le più belle poesie dei poeti italiani" (Newton & Compton), a cura di Luciano Lusi. Si tratta di una antologia di un centinaio di poesie dedicate al padre da un'ottantina di poeti e poetesse italiani, limitata però a quelli del Novecento (il più vecchio è Giovanni Pascoli, classe 1855). Ammetto, a mio disdoro, che per un buon ottanta per cento si tratta di nomi a me ignoti. Accanto a qualcuno più conosciuto, come Alfonso Gatto, Umberto Saba, Camillo Sbarbaro, Dario Bellezza o Piero Bigongiari, ecco Elena Clementelli o Giovanni Cristini o Tiziano Rossi, di cui vorrei sapere di più.
Ecco il testo in quarta di copertina: "Amato, temuto, ricordato, il padre è una delle figure più forti e presenti nella poesia di ogni tempo. La voce dei poeti del nostro secolo lo celebra in questa bella antologia, inno corale di straordinaria intensità. Un padre cui si rimprovera spesso l'assenza, e il cui comportamento determina talvolta il disamore e persino il disprezzo e l'odio. Ma anche un padre che viene cercato, magari soltanto nella memoria di lontane tenerezze, o in forme sostitutive che sanno svelarci - e molti poeti qui lo fanno esplicitamente - il bisogno della sua attenta presenza al nostro fianco".
Alcune poesie lasciano il groppo in gola, e stupisce come in molti abbiano scritto le loro liriche ricordando e piangendo il padre morto, più che parlandone di lui in vita. Il conflitto è sempre presente, come però l'ineluttibilità del legame. Toccante, da questo punto di vista, quella brevissima di Libero Bigiaretti:
Sei sceso sottoterra,
io aspetto la mia ora.
Tra noi non c'è più guerra
ma mi ferisci ancora.
Mi piacerebbe citarne tante, di poesie, ma so che non è questo luogo. Però, almeno una lasciatemela ricopiare. Perché è bellissima, la più bella scritta sull'argomento che io abbia letto. O forse mi sembra così bella soltanto perché, semplicemente, dice le cose che io vorrei dire al mio babbo e cioè che se anche mio padre non fosse mio padre, se anche fosse un estraneo, per com'è, per il suo "cuor fanciullo", lo amerei lo stesso. Beh, vorrei che anche i miei figli pensassero, un giorno, questa cosa di me.
La poesia che segue è di Camillo Sbarbaro, risale al 1914 e si intitola "Padre, se anche tu non fossi il mio".
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t'amerei.
Ché mi ricordo d'un mattin d'inverno
che la prima viola sull'opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l'appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.
E di quell'altra volta mi ricordo
che la sorella mia, piccola ancora,
per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia aveva fatto non so che).
(la caparbia aveva fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura, ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l'attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l'avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo che eri il tu di prima.
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t'amerei.
(il disegno di Zagor che vede fra le fronde degli alberi il volto del padre è di Joevito Nuccio)