sabato 26 marzo 2011

SONO STATO A SAN VITTORE

C'è un racconto molto bello, di cui però non ricordo né il titolo né l'autore, in cui si narra di un uomo che muore e si trova davanti al giudizio divino, quello che dovrà stabilire se merita l'inferno o il paradiso. Con sua grande sorpresa, il defunto vede che i giudici sono tre uomini come lui, vestiti con una toga come nei tribunali terrestri, e Dio c'è ma è lì solo come testimone. I giudici interrogano Dio e gli fanno domande del tipo: "è vero che costui una volta ha tradito la moglie?". E Dio: "sì". "E' vero che ha rubato dal garage del vicino?". E Dio: "sì". Alla fine dell'interrogatorio i giudici si ritirano per deliberare, e il defunto, rimasto solo con Dio, chiede spiegazioni. "Perché devo essere giudicato da tre uomini? Non sei tu, Dio, il supremo giudice?". E Dio risponde: "io sono Dio, e so tutto. Per questo non posso fare altro che il testimone. Io so quello che hai fatto, ma so anche perché l'hai fatto. So quanto sei debole, quanto hanno influito le cattive compagnie, so perché eri disperato quella sera, o cosa volevi dimenticare quando hai bevuto quel giorno. Più uno sa, più comprende. E più comprende, meno può giudicare e condannare. Io che so tutto non posso emettere sentenze. Per giudicare e condannare ci vogliono uomini piccoli, gretti, limitati, ottusi come te. Solo chi sa poco, può sentenziare". I giudici rientrano, spediscono il defunto all'inferno, e dicono: avanti un altro.


Se c'è un lavoro che mai potrei fare, è il giudice. Quello che emette le sentenze, intendo. Magari potrei fare l'investigatore, anzi, forse mi piacerebbe pure, vista la mia passione per i gialli. Ma già decidere di arrestare qualcuno e metterlo in carcere, toglierlo alla sua famiglia e alla sua vita, rovinargli probabilmente l'esistenza o comunque segnargliela per tutto il resto della vita, ecco, non vorrei essere io a doverlo fare. Figuriamoci poi stabilire se strappare un figlio a una madre (come talvolta certi giudici sono chiamati a fare), o se dare l'ergastolo o anche solo vent'anni, o dieci anni, a qualcuno. E se poi fosse innocente? No, al massimo potrei fare indagini e interrogatori, presentare i risultati a gente convinta di saperli valutare e a quel punto tirarmi indietro. Credo che sia un lavoro molto triste, quello del giudice. Se chi lo fa lo fa (come dovrebbe) con la consapevolezza di avere tra le mani il destino di un suo simile, non c'è giorno in cui uno possa recarsi in tribunale sereno, o momento in cui non tornino alla coscienza i dubbi (avrò deciso bene? Avrò deciso male?).


Ovviamente non ho niente contro i giudici, anzi, capisco che sono indispensabili e che quel lavoro qualcuno lo deve pur fare. Ma ecco, mi sembra superiore alla mia capacità di sopportazione e sono lieto di non doverlo fare io. Spero che chi lo fa, lo faccia con coscienza e convinzione, quasi con spirito missionario, per dare il suo contributo al funzionamento della società. Spero anche che abbia le spalle larghe per portarne il peso, che a me sembra intollerabile. Mi auguro che nessuno emetta sentenza con la leggerezza con cui si appongono dei timbri o, peggio, si senta superiore rispetto al resto del genere umano. Anche se si deve condannare qualcuno perché quello la condanna se la merita, il momento del verdetto non può mai essere gioioso: comunque sia è una sconfitta, perché sarebbe tanto bello poter fare a meno dei giudici e viene dimostrato una volta di più che non è possibile.

C'è un motivo per cui, proprio oggi, faccio questa riflessione. Giovedì scorso, 24 marzo 2011, verso mezzogiorno e mezzo, sono stato per la prima volta in carcere. Ho sentito chiudersi dietro di me le sbarre di San Vittore, e gli agenti di polizia penitenziaria mi hanno scortato all'interno. Per fortuna, alle tre del pomeriggio mi hanno anche fatto uscire, dopo avermi trattato con molto riguardo. Non ero lì in seguito a un arresto o a una condanna, ma per un incontro con un gruppo di detenuti. Diciamo una conferenza, come tante mi capita di farne, ma in un luogo particolare e di fronte a un pubblico speciale.

Una delle educatrici del carcere, la dottoressa Michela De Ceglia, specializzata nelle attività di sostegno e di formazione dei reclusi, si è messa in contatto con me e mi ha chiesto, alcuni mesi fa, se ero disponibile a due incontri all'interno di San Vittore, durante i quali avrei parlato di fumetti e del mio lavoro, presentando alcune delle mie storie. Il tutto, ci tengo a dirlo, a titolo gratuito: come servizio verso chi vive un momento drammatico della propria vita e potrebbe essere aiutato a superarlo e non vederlo ripetere mai più. Ho accettato senza esitazione e così ho fatto la prima conferenza e presto farò la seconda. La Casa editrice mi ha aiutato regalando quaranta Maxi Zagor alla biblioteca di San Vittore: venti copie di "Agenti Segreti" e venti de "L'uomo nel mirino", che ho portato personalmente nel carcere (previa autorizzazione).


Non avevo la minima idea di che cosa mi attendesse e che tipo di feedback avrei avuto confrontandomi con un'umanità sicuramente sofferente, e che impressione mi avrebbe fatto trovarmi all'interno di un carcere. Ho attraversato il famoso punto centrale da cui di diramano i bracci del carcere, e la dottoressa che mi ha accolto all'ingresso mi ha guidato verso una sala conferenze posta vicino alla biblioteca. Mentre ci arrivavamo, mi ha spiegato come funzionano le cose. Non ho potuto portare con me il telefonino e dunque non ho foto da mostrarvi (quelle che vedete a corredo di questo articolo o sono prese da Internet o si riferiscono a mie conferenze tenute in altre occasioni). Però, almeno limitatamente alle zone del carcere che ho attraversato io, ho visto ambienti puliti e persino un clima abbastanza rilassato. Ho saputo che molti detenuti lavorano all'interno della struttura e vengono pagati per ciò che fanno: c'è chi fa l'addetto alla vendita nel mini market, chi si occupa dei libri, chi fa le pulizie, chi organizza iniziative per i suoi compagni. Alcuni settori hanno celle aperte, in altri sono chiuse. All'interno, mi hanno detto gli stessi detenuti, possono esserci quattro o sei letti, con un bagno e una doccia. San Vittore non è un carcere per pene di lunga detenzione: ci si viene rinchiusi se la condanna è a pochi anni o se si è in attesa del verdetto finale con la destinazione in altri penitenziari.

Le mie due conferenze sono inserite in un programma di incontri che prevede la visita in carcere di vari scrittori che si sono resi disponibili, alcuni per parlare delle proprie opere, altri per leggere o spiegare libri altrui. Mi sono organizzato con un CD di immagini da far vedere su un televisore, così da poter parlare, come di solito faccio, commentando foto e disegni. Ho salutato una per una, dando una stretta di mano a ognuno, le persone (una trentina) che si sono presentate nella sala (che non ne poteva contenere di più). Tutti, ovviamente, erano lì per loro scelta e mi è stato detto che ci sono sempre molte richieste per questo tipo di incontri, ci sono detenuti che non se ne perdono uno. Si trattava di uomini, di età (apparente) fra i venti e i quaranta anni, tutti in grado di capire e parlare perfettamente l'italiano anche se alcuni avevano nomi arabi, che ciascuno ha tenuto a dirmi. I miei interlocutori erano tutti sorridenti, gentili e cordiali: immagino che in altre circostanze capiti loro di essere depressi o disperati, ma all'incontro sono venuti come a un momento di divertimento.

A ciascuno ho regalato un albo a fumetti, e sono certo di averli fatti felici: "davvero è per me?", mi chiedevano, "posso tenerlo?". Per i reclusi, mi ha spiegato la dottoressa, sono importanti anche le piccole cose, le minime dimostrazioni di solidarietà, l'attenzione verso di loro. Tutti sapevano benissimo cos'erano i fumetti, la maggior parte conosceva Zagor ed era in grado di citare con cognizione di causa altri personaggi come Dylan Dog o Alan Ford, Lupo Alberto o Tex. Non solo: tutti sono stati attenti dal primo all'ultimo minuto dell'incontro, intervenendo con domande e osservazioni molto acute. C'è stato anche un momento che mi ha riempito di soddisfazione perché, sfogliando "L'uomo nel mirino", uno dei detenuti si è imbattuto nel personaggio di Badal, l'addestratore dell'elefante Shiva, che si rivolge al pachiderma dando degli ordini in una lingua incomprensibile. Tutti avranno pensato che mi sia inventato le parole. Invece, uno dei presenti ha detto: "Ma questo è hindi!", e ha tradotto il senso della frase: "Vieni, Shiva, è ora di andare a mangiare". In effetti, nello scrivere quella sequenza, mi ero documentato sulle parole che usano gli addestratori di elefanti e le avevo citate con precisione. Non so perché quel brillante detenuto conoscesse l'hindi, ma sono stato lieto che non gli sia sfuggito il mio sforzo di documentazione.

L'argomento della mia conferenza non era comunque l'incontro di Zagor con Tocqueville e con Andrew Jackson (di cui si racconta nei due Maxi che ho portato a San Vittore) ma il linguaggio del fumetto e le potenzialità del suo codice espressivo, in grado di raccontare con efficacia qualsiasi cosa senza alcuna sudditanza verso gli altri medium. Hanno molto colpito alcune tavole di Ken Parker e di Dino Battaglia che ho mostrato sullo schermo.


Alla fine, i detenuti sono usciti a mio avviso molto contenti delle due ore passate insieme e alcuni mi hanno persino chiesto un autografo sugli albi che ho regalato loro. Nessuno li ha scortati e nessuno li ha controllati entrando e uscendo dalla stanza, e non c'erano guardie ad assistere all'incontro: eravamo soltanto io, la dottoressa e i reclusi.


Il clima è stato però assolutamente rilassato, e l'interesse senza dubbio più alto di quanto capita di solito se si parla, per esempio, a una scolaresca (anche se io mi vanto di riuscire, nei limiti del possibile, a tenere alta l'attenzione anche delle classi più svogliate, almeno per un'oretta - poi c'è comunque un crollo fisiologico dell'uditorio).

Sono uscito molto soddisfatto. Non mi tiro mai indietro se c'è da prestarmi per iniziative di solidarietà e mi capita spesso di venire coinvolto, tuttavia non faccio parte di una specifica attività di volontariato. Però, credo che ci siano poche cose nella vita che fanno bene allo spirito più che darsi da fare per aiutare gli altri, quelli che davvero hanno bisogno del nostro aiuto. E' un argomento che mi sta a cuore e su cui potremmo tornare.

Se ci sono altri autori disposti a incontrare i detenuti, sarò lieto di metterli in contatto con chi ha invitato me.