Sono stato incoraggiato a continuare e dunque, dato che non mi si deve mai pregare per scrivere, ma solo per smettere dopo che ho cominciato, proseguo con la serie delle mie recensioni iniziate lo scorso mese con la storia di Abelardo ed Eloisa. La rubrica si chiama (forse con un minor spreco di fantasia di quanto qualcuno si aspetta da me) "La biblioteca di Babele". Per ricapitolare di che cosa si tratta, basterà dire che fin dai tempi del liceo, ogni volta che ho letto un libro mi sono appuntato le mie impressioni a caldo scrivendo una piccola recensione che servisse a ricordarmi meglio il contenuto del volume. Con il tempo ho ricopiato sul computer i fogli scritti a mano, e ho cercato di coltivare questa abitudine. Così, ho messo insieme centinaia e centinaia di mini-recensioni, alcune troppo brevi e frettolose per essere pubblicate, altre invece decisamente più elaborate. Mettendole a disposizioni di tutti qui sul blog, spero di suggerire a qualcuno il recupero di qualche libro del passato. Quello di cui parlo più sotto, però, è un romanzo abbastanza recente che probabilmente avete letto tutti. In ogni caso, ecco che cosa mi sono appuntato dopo averne letta l'edizione illustrata.
Dan Brown
IL CODICE DA VINCI
Romanzo – Mondadori
Edizione Speciale Illustrata
2005
Traduzione di Riccardo Valla
cartonato - 460 pagine
Nei ringraziamenti finali, Dan Brown menziona per primo il suo editor, Jason Kaufman, il quale avrebbe “sinceramente capito il vero significato di questo libro”. C’è dunque da chiedersi quale sia, questo significato. Secondo me, la “chiave di volta”, se ce n’è una ed è quella che serve per capire, è da rintracciarsi nel penultimo capitolo del romanzo, allorché Marie Chauvel spiega a Robert Langdon come la vera storia del Graal (quella ipotizzata dal racconto che si avvia a conclusione, e cioè legata alla metafora del “calice” femminile, in fondo l’ “urna molle e segreta” cantata anche dal Pascoli nel “Gelsomino notturno”) sia stata raccontata per secoli “dall’arte, dalla musica, dai libri, sempre di più, giorno dopo giorno”. E poiché anche Robert sta lavorando a un saggio sul femminino sacro, la donna lo esorta: “Lo pubblichi, signor Langdon. Canti la canzone alla dea. Il mondo ha bisogno di moderni trovatori”. Ecco, quindi, che cos’è “Il codice da Vinci”: una canzone alla dea.
Stupisce, perciò, il livore degli ambienti clericali più integralisti riguardo a un romanzo tutto sommato abbastanza moderato, nel senso che volendo stupire con effetti speciali si potevano inventare versioni alternative della vita di Gesù assai più clamorose e spettacolari. Nulla, nelle ipotesi sostenute dai personaggi, contrasta contro la fede in Dio, né si mette in dubbio la grandezza di Cristo, e perfino i cattivi del racconto, alla fine, non sono riconducibili al Vaticano. Anzi, il “colpevole”, Leigh Teabing, è un nemico giurato della Chiesa di Roma. Personalmente, non sono affatto turbato dall’idea che Gesù possa aver avuto dei fratelli e una moglie (io non mi pronuncio sulla faccenda, ma so di biblisti che ne sono convinti). Non capisco in che modo l’idea di un “figlio di Dio” che si fa uomo possa essere messa in crisi dal fatto che l’accettazione dell’umanità sia portata fino al punto di sposare una donna, o generare una prole, come se questo possa rappresentare un male. Dunque, non vedo nella teoria di un ipotetico matrimonio di nostro Signore nulla che possa far dubitare della sua divinità o mettere in discussione i suoi insegnamenti. Quindi, la congettura è di per sé innocua o, a voler essere proprio drastici, non particolarmente dannosa. Mi chiedo perché non disturbino di più i romanzi e i film sull’Anticristo e sugli esorcisti. Dan Brown, in fondo, parla di amore e di eterno femminino. A me, per assurdo, non interessa particolarmente quel che Brown pensa realmente a proposito del Graal: non è uno scienziato. A me interessa, come lettore di un suo romanzo, quel che partorisce la sua fantasia. Ai mei occhi, fa testo solo il suo racconto, e fa testo solo in quanto fabula.
Infatti, la questione è di lana caprina perché stiamo parlando non delle tesi più o meno eretiche di un teologo, o del saggio di uno storico o comunque di un testo accademico. Forse i detrattori non hanno ben capito che si tratta di un romanzo. Cioè, di fiction. A parlare, e talvolta a citare passi di presunti documenti, sono dei personaggi di fantasia che, come tali, possono inventarsi quello che vogliono. Non mi è parso di scorgere, nelle pagine di Dan Brown, alcuna pretesa di farsi portavoce di qualche presunta verità: l’intento è soltanto quello del romanziere che cerca di accattivarsi la curiosità del lettore, di avvincerlo, di meravigliarlo e stupirlo come il prestigiatore che fa uscire un coniglio dal cilindro. Chi volesse approfondire, insomma, dovrebbe farlo altrove, e non vedo come si possa imputare a un autore ciò che i protagonisti di un suo racconto vanno sproloquiando. Altrimenti, sarebbe come se si rimproverassero a Cervantes i discorsi astrusi di Don Chisciotte o se qualche scienziato rinfacciasse ad Asimov i balzi nell’iperspazio o le Tre Leggi della robotica. E immagino che la fantasia non manchi neppure in molte biografie dei santi dei tempi che furono, come quelli dove si racconta di Santa Brigida che cambiava l’acqua in birra.
Per di più, i personaggi del Codice da Vinci si limitano a riportare tesi già note, finendo per fornire, sì, interpretazioni suggestive di fatti e opere d’arte ma senza nessuna pretesa di documentare alcunché. Alla base del libro c’è, infatti. un saggio di Richard Leigh, Michael Baigent ed Henry Lincoln, The Holy Blood e The Holy Grail (1982), noto in Italia come Il santo Graal (ovviamente, me lo sono procurato). Non a caso, l’anagramma di Teabing è proprio Baigent, e il nome del cattivo, Leigh, richiama il cognome di un altro degli autori. Dunque, se c’è qualcuno con cui prendersela sono proprio gli autori del volume da cui Brown ha preso ispirazione. Ma, del resto, le leggende su Maria Maddalena non le hanno inventate neppure loro. Dunque, davvero non si capiscono gli anatemi. Eppure, il best seller di Dan Brown ha scatenato tutta una infervorata letteratura a smentita, come se si trattasse di un saggio scientifico e non si è avuta una analoga mobilitazione contro Il santo Graal. Mah.
Ai miei occhi, la cosa più incredibile del romanzo è il fatto che la maggior parte degli eventi si svolga nel corso di una notte. Un po’ come accade a Principe Miskin all’inizio dell’Idiota di Dostojevsky, insomma, che in un giorno riesce a fare tante di quelle cose da riempire una settimana. Suona un po’ strano anche il fatto che il vecchio Sauniere, curatore del Louvre, riesca in mezz’ora, prima di morire, ad architettare un così complicato gioco enigmistico perché la nipote, l’esperta in linguaggio cifrati Sophie Neveu. A parte ciò, pur nei limiti di una scrittura senza pretese e non trascendentale, il romanzo è avvincente e affascinante. Cosa non trascurabile, propone un giallo ben architettato, con un colpevole imprevedibile (un alleato di Langdon e Sophie che sembra braccato al pari loro da un misterioso “Maestro” – che pare inviato contro di loro dal Vaticano, mentre così non è), un killer inquietante (un gigantesco monaco albino, Silas), e un potenziale cattivo, su cui cadono inizialmente tutti i sospetti, che poi si rivela innocente (il poliziotto “papista” Fache, della polizia di Parigi). Il protagonista, Langdon, è poi un tipo interessante e si merita un ritorno sulle scene (dopo essere giunto alla sua seconda apparizione proprio con questo romanzo).
Ma sarebbe ingiusto, oltre che sbagliato, parlare del Codice da Vinci soltanto come di un thriller. E’ evidente che, dato l’argomento si cui si indaga, ci sia di più. Personalmente ho trovato poetica e accattivante la lettura (pur di stampo romanzesco) della figura di Cristo che viene proposta: quasi dispiace che non corrisponda del tutto a quella del catechismo. Ma non solo. Tutta la storia dell’umanità, molti miti, una infinità di simboli, centinaia di opere d’arte e decine di personaggi storici finiscono per essere interpretati alla luce del “femminino sacro”, che rimanda alle società matriarcali della preistoria e alla “magia” del sesso (l’orgasmo come ponte di accesso verso la divinità) e della vita (atto creatore della donna). Il Graal dunque non sarebbe una coppa, che del resto è un simbolo femminile, ma sarebbero Maria Maddalena e la sua discendenza. A lei, Dan Brown ha cantato la sua canzone da moderno trovatore. Il che mi pare bello.
L’edizione illustrata della Mondatori che io ho letto, arricchisce ogni passaggio del romanzo con puntali riferimenti iconografici, così efficaci che mi chiedo come possano aver compreso i lettori del romanzo le tante spiegazioni fornite nel testo senza il supporto delle immagini, non presenti nelle altre edizioni.