Cerco sempre di fare in modo che i miei ragazzi si guadagnino gli euro di cui hanno bisogno per le loro piccole (e sempre più spesso grandi) spese. Quindi, quando sono con loro, gli trovo qualcosa da fare. La paga è di dieci euro l'ora. La mia figlia più grande si sta da tempo occupando di ribattere al computer l'enorme mole di miei vecchi testi scritti a mano o a macchina, compresi gli appunti universitari.
Tra le ultime cose riemerse da un vecchio scatolone, ho recuperato un testo scritto per un giornaletto scolastico del Ginnasio Cicognini di Prato, che ho frequentato negli anni Settanta. Si tratta di una controstoria del latino, vista con gli occhi di uno studente del ventesimo secolo obbligato a studiarlo e che avrebbe preferito che la lingua di Cicerone fosse rimasta indecifrabile come l’etrusco (che del tutto indecifrabile, in realtà, oggi non è).
Vi sottopongo volentieri ciò che scrissi più o meno quindicenne, a cui farà seguito (immagino il vostro entusiasmo) un altro canto del mio poema epico intitolato “Enode”, risalente più o meno allo stesso periodo, quello degli anni del liceo, di cui alcuni mesi fa proposi un primo assaggio, suscitando anche (incredibile ma vero) alcuni inviti a proseguire. Si tratta di una parodia dell’Eneide virgiliana (che Virgilio mi perdoni), scritta con spirito goliardico e boccaccesco, in versi endecasillabi e con frequenti contaminazioni vernacolari toscane: da esperienze come queste (ne ho scritte altre) nascono le mie “canzoncine” di Cico (di cui un giorno potremmo arrivare a parlare).
Il punto preso in giro è quello in cui Enea (nel mio testo, chiamato Eneo per motivi troppo lunghi da spiegare) racconta alla regina Didone della sua fuga da Troia, data alle fiamme al termine dell’assedio e della lunga guerra con i greci. Ovviamente, propongo una versione abbastanza diversa da quella omerica riguardo alle cause e allo svolgimento dell’epico conflitto. Ricordo che in quegli anni mi faceva raggomitolare dal gran ridere la parodia dell’Iliade fatta da Magnus & Bunker sulle pagine di Alan Ford, negli albi in cui il Numero Uno raccontava di essere stato testimone della guerra e sosteneva che a originarla fu sì la bella Elena, ma per motivi del tutto diversi: il marito Menelao la voleva sbolognare a Paride perché le sue esose spese stavano dissanguando il tesoro reale di Sparta, e Priamo, visto scemare anche il livello dei suoi forzieri, pretendeva che il marito se la ripigliasse. La mia versione è del tutto diversa, ma chiaramente il tono burlesco (venato anche da humour nero di evidente ispirazione bunkeriana) è lo stesso.
Vi assicuro comunque, come già feci nell’occasione precedente, che non serve nessuna particolare cultura classica per leggere i quaranta versi (suddivisi in dieci quartine) che seguono. Basterà sapere che il re di Troia, Priamo, era famoso per avere cento figli, in un'epoca in cui non esistevano gli assegni famigliari. Buon divertimento!
Tra le ultime cose riemerse da un vecchio scatolone, ho recuperato un testo scritto per un giornaletto scolastico del Ginnasio Cicognini di Prato, che ho frequentato negli anni Settanta. Si tratta di una controstoria del latino, vista con gli occhi di uno studente del ventesimo secolo obbligato a studiarlo e che avrebbe preferito che la lingua di Cicerone fosse rimasta indecifrabile come l’etrusco (che del tutto indecifrabile, in realtà, oggi non è).
Vi sottopongo volentieri ciò che scrissi più o meno quindicenne, a cui farà seguito (immagino il vostro entusiasmo) un altro canto del mio poema epico intitolato “Enode”, risalente più o meno allo stesso periodo, quello degli anni del liceo, di cui alcuni mesi fa proposi un primo assaggio, suscitando anche (incredibile ma vero) alcuni inviti a proseguire. Si tratta di una parodia dell’Eneide virgiliana (che Virgilio mi perdoni), scritta con spirito goliardico e boccaccesco, in versi endecasillabi e con frequenti contaminazioni vernacolari toscane: da esperienze come queste (ne ho scritte altre) nascono le mie “canzoncine” di Cico (di cui un giorno potremmo arrivare a parlare).
Il punto preso in giro è quello in cui Enea (nel mio testo, chiamato Eneo per motivi troppo lunghi da spiegare) racconta alla regina Didone della sua fuga da Troia, data alle fiamme al termine dell’assedio e della lunga guerra con i greci. Ovviamente, propongo una versione abbastanza diversa da quella omerica riguardo alle cause e allo svolgimento dell’epico conflitto. Ricordo che in quegli anni mi faceva raggomitolare dal gran ridere la parodia dell’Iliade fatta da Magnus & Bunker sulle pagine di Alan Ford, negli albi in cui il Numero Uno raccontava di essere stato testimone della guerra e sosteneva che a originarla fu sì la bella Elena, ma per motivi del tutto diversi: il marito Menelao la voleva sbolognare a Paride perché le sue esose spese stavano dissanguando il tesoro reale di Sparta, e Priamo, visto scemare anche il livello dei suoi forzieri, pretendeva che il marito se la ripigliasse. La mia versione è del tutto diversa, ma chiaramente il tono burlesco (venato anche da humour nero di evidente ispirazione bunkeriana) è lo stesso.
Vi assicuro comunque, come già feci nell’occasione precedente, che non serve nessuna particolare cultura classica per leggere i quaranta versi (suddivisi in dieci quartine) che seguono. Basterà sapere che il re di Troia, Priamo, era famoso per avere cento figli, in un'epoca in cui non esistevano gli assegni famigliari. Buon divertimento!
CONTROSTORIA
DEL LATINO
DEL LATINO
di Moreno Burattini (1977)
Quando Romolo tentò di fondare Roma, subito il saggio fratello Remo, prevedendo la lingua che in quella città si sarebbe evoluta, cominciò a ostacolare tanta scelleratezza. Ma purtroppo ebbe la peggio. I Sanniti, gli Equi, i Volsci e tutti gli altri popoli intorno, accortisi della lingua che stava nascendo, e pensando a noialtri posteri che avremmo dovuto studiarla, indissero la mobilitazione generale e si precipitarono addosso alla novella Urbe, tentando di soffocarla prima che fosse troppo tardi. Nonostante l'impegno, non ci riuscirono. Accorsero allora all’istante i previdenti Etruschi, che da parte loro avevano badato bene a non far decifrare la loro lingua, così che non ci toccasse studiare pure quella, e Porsenna assediò Roma. Stava quasi per vincere, quando lo scellerato Muzio Scevola diede una mano (la destra) ai romani e rovinò tutto. Benché lontani, i Galli cercarono di rimediare correndo a soffocare il latino prima che il danno fosse irrimediabile (già i romani avevano cominciato a scrivere), ma non ci fu niente da fare. I cartaginesi si impegnarono a fondo nelle guerre puniche, e Annibale portò pure gli elefanti per schiacciare per bene ogni frammento di pergamena ma, nonostante tutto, non ci fu verso di combinare niente. Roma si era ormai imposta e il latino diffuso. Quando i Barbari riuscirono a dar fuoco alle biblioteche, ormai era inutile: i grafomani in riva al Tevere avevano già riempito diecimila chilometri di libri. Impossibile distruggerli tutti.
Cesare scrisse in latino il “De Bello Gallico” e il “De Bello Civili” e il mai troppo lodato Bruto lo tolse dal mondo per impedirgli di comporre qualcos'altro. Il saggio Ottaviano, vedendo Ovidio scrivere in latino le sue opere, con la scusa che erano licenziose lo mandò subito in esilio, e gli disse: "Ma va’ via! Non rompere più con i tuoi versi! Togliti dalle scatole e smetti di scrivere!". Ovidio fu spedito fuori, nella speranza che desistesse dal comporre rompimenti, ma lui, imperterrito, continuò a scrivere anche dall’esilio. Il buon Virgilio non riuscì a trattenersi e buttò giù l’Eneide ma, prima di morire, pensando a noi scolari che l’avremmo dovuta tradurre, ordinò che fosse distrutta. I suoi amici, vigliacchi e traditori, invece la conservarono! Il Cicerone venne al mondo e cominciò subito a scrivere, e continuò finché qualcuno pensò bene d’ammazzarlo per farlo smettere. Ma ormai il Marco Tullio aveva già redatto un mezzo miliardo di orazioni, epistole, lettere, cartoline dalle vacanze e biglietti di buon Compleanno. A Roma il servizio postale (diversamente dal nostro) doveva funzionare a meraviglia. Di tutte le lettere spedite da Cicerone non se n’è persa una e ora ci tocca tradurle tutte! Ma pensa te che fregatura! Che ci volete fare? Malgrado tutti i tentativi, nessuno è riuscito a impedire al latino di arrivare fino a noi.
Cesare scrisse in latino il “De Bello Gallico” e il “De Bello Civili” e il mai troppo lodato Bruto lo tolse dal mondo per impedirgli di comporre qualcos'altro. Il saggio Ottaviano, vedendo Ovidio scrivere in latino le sue opere, con la scusa che erano licenziose lo mandò subito in esilio, e gli disse: "Ma va’ via! Non rompere più con i tuoi versi! Togliti dalle scatole e smetti di scrivere!". Ovidio fu spedito fuori, nella speranza che desistesse dal comporre rompimenti, ma lui, imperterrito, continuò a scrivere anche dall’esilio. Il buon Virgilio non riuscì a trattenersi e buttò giù l’Eneide ma, prima di morire, pensando a noi scolari che l’avremmo dovuta tradurre, ordinò che fosse distrutta. I suoi amici, vigliacchi e traditori, invece la conservarono! Il Cicerone venne al mondo e cominciò subito a scrivere, e continuò finché qualcuno pensò bene d’ammazzarlo per farlo smettere. Ma ormai il Marco Tullio aveva già redatto un mezzo miliardo di orazioni, epistole, lettere, cartoline dalle vacanze e biglietti di buon Compleanno. A Roma il servizio postale (diversamente dal nostro) doveva funzionare a meraviglia. Di tutte le lettere spedite da Cicerone non se n’è persa una e ora ci tocca tradurle tutte! Ma pensa te che fregatura! Che ci volete fare? Malgrado tutti i tentativi, nessuno è riuscito a impedire al latino di arrivare fino a noi.
Di Moreno Burattini (1978)
CANTO OTTAVO
IN CUI ENEO PARLA
DELLE CAUSE E DELLO SVOLGIMENTO
DELLA GUERRA DI TROIA
Tacque il convito, e stette a ascoltare
quello che Eneo si mise a narrare,
dimenticando il tempo presente
ed ogni intrigo di cuore e di mente.
Disse l'Eneo con forte sua voce:
- Dovete saper che ogni mia croce
fu provocata da quella gran guerra
sorta coi greci su la nostra terra.
Quel truce e selvaggio combattimento
origin ebbe dal grande tormento
ch'eran per Priamo, re sciagurato,
i cento figli che avea procreato.
Difatti quando il Paride bello
fe’ quel che fece e successe un macello,
Priamo gli disse: "No! Non ridare
l'Elena al greco di là dal mare!"
Così facendo sperava che fosse
guerra, e difatti il marito si mosse.
Pensò fra sè, contento e furbino:
"Qualche figliolo mi tira il calzino!
Con la battaglia che esser dovrà,
vedrai che di cento qualcuno morrà!
Oh che bellezza! Sia guerra! Sia guerra!
Troppi figlioli ci ho già sulla terra!"
Di volta in volta che un figlio moriva
Priamo aveva più l'aria giuliva.
Teneva il conto col pallottoliere:
"Meno una bocca al desco a sedere!"
E quando l'Ettore, ch'era assai grosso,
fu dall'Achille buttato in un fosso,
Priam felice allora assai fue:
"Bene! - pensò - mangiava per due!"
Così, il re la gran guerra incitava
e sempre al fronte i figli mandava
e benediva con somma gioia
l'assedio fatto dai greci a Troia.
Perciò dieci anni la guerra durò:
finchè sfoltita la prole restò.
Adesso bevo, e poi voglio dire,
com'è che la guerra andette a finire. -