











C'è un racconto molto bello, di cui però non ricordo né il titolo né l'autore, in cui si narra di un uomo che muore e si trova davanti al giudizio divino, quello che dovrà stabilire se merita l'inferno o il paradiso. Con sua grande sorpresa, il defunto vede che i giudici sono tre uomini come lui, vestiti con una toga come nei tribunali terrestri, e Dio c'è ma è lì solo come testimone. I giudici interrogano Dio e gli fanno domande del tipo: "è vero che costui una volta ha tradito la moglie?". E Dio: "sì". "E' vero che ha rubato dal garage del vicino?". E Dio: "sì". Alla fine dell'interrogatorio i giudici si ritirano per deliberare, e il defunto, rimasto solo con Dio, chiede spiegazioni. "Perché devo essere giudicato da tre uomini? Non sei tu, Dio, il supremo giudice?". E Dio risponde: "io sono Dio, e so tutto. Per questo non posso fare altro che il testimone. Io so quello che hai fatto, ma so anche perché l'hai fatto. So quanto sei debole, quanto hanno influito le cattive compagnie, so perché eri disperato quella sera, o cosa volevi dimenticare quando hai bevuto quel giorno. Più uno sa, più comprende. E più comprende, meno può giudicare e condannare. Io che so tutto non posso emettere sentenze. Per giudicare e condannare ci vogliono uomini piccoli, gretti, limitati, ottusi come te. Solo chi sa poco, può sentenziare". I giudici rientrano, spediscono il defunto all'inferno, e dicono: avanti un altro.
Se c'è un lavoro che mai potrei fare, è il giudice. Quello che emette le sentenze, intendo. Magari potrei fare l'investigatore, anzi, forse mi piacerebbe pure, vista la mia passione per i gialli. Ma già decidere di arrestare qualcuno e metterlo in carcere, toglierlo alla sua famiglia e alla sua vita, rovinargli probabilmente l'esistenza o comunque segnargliela per tutto il resto della vita, ecco, non vorrei essere io a doverlo fare. Figuriamoci poi stabilire se strappare un figlio a una madre (come talvolta certi giudici sono chiamati a fare), o se dare l'ergastolo o anche solo vent'anni, o dieci anni, a qualcuno. E se poi fosse innocente? No, al massimo potrei fare indagini e interrogatori, presentare i risultati a gente convinta di saperli valutare e a quel punto tirarmi indietro. Credo che sia un lavoro molto triste, quello del giudice. Se chi lo fa lo fa (come dovrebbe) con la consapevolezza di avere tra le mani il destino di un suo simile, non c'è giorno in cui uno possa recarsi in tribunale sereno, o momento in cui non tornino alla coscienza i dubbi (avrò deciso bene? Avrò deciso male?).
C'è un motivo per cui, proprio oggi, faccio questa riflessione. Giovedì scorso, 24 marzo 2011, verso mezzogiorno e mezzo, sono stato per la prima volta in carcere. Ho sentito chiudersi dietro di me le sbarre di San Vittore, e gli agenti di polizia penitenziaria mi hanno scortato all'interno. Per fortuna, alle tre del pomeriggio mi hanno anche fatto uscire, dopo avermi trattato con molto riguardo. Non ero lì in seguito a un arresto o a una condanna, ma per un incontro con un gruppo di detenuti. Diciamo una conferenza, come tante mi capita di farne, ma in un luogo particolare e di fronte a un pubblico speciale.
Non avevo la minima idea di che cosa mi attendesse e che tipo di feedback avrei avuto confrontandomi con un'umanità sicuramente sofferente, e che impressione mi avrebbe fatto trovarmi all'interno di un carcere. Ho attraversato il famoso punto centrale da cui di diramano i bracci del carcere, e la dottoressa che mi ha accolto all'ingresso mi ha guidato verso una sala conferenze posta vicino alla biblioteca. Mentre ci arrivavamo, mi ha spiegato come funzionano le cose. Non ho potuto portare con me il telefonino e dunque non ho foto da mostrarvi (quelle che vedete a corredo di questo articolo o sono prese da Internet o si riferiscono a mie conferenze tenute in altre occasioni). Però, almeno limitatamente alle zone del carcere che ho attraversato io, ho visto ambienti puliti e persino un clima abbastanza rilassato. Ho saputo che molti detenuti lavorano all'interno della struttura e vengono pagati per ciò che fanno: c'è chi fa l'addetto alla vendita nel mini market, chi si occupa dei libri, chi fa le pulizie, chi organizza iniziative per i suoi compagni. Alcuni settori hanno celle aperte, in altri sono chiuse. All'interno, mi hanno detto gli stessi detenuti, possono esserci quattro o sei letti, con un bagno e una doccia. San Vittore non è un carcere per pene di lunga detenzione: ci si viene rinchiusi se la condanna è a pochi anni o se si è in attesa del verdetto finale con la destinazione in altri penitenziari.
Le mie due conferenze sono inserite in un programma di incontri che prevede la visita in carcere di vari scrittori che si sono resi disponibili, alcuni per parlare delle proprie opere, altri per leggere o spiegare libri altrui. Mi sono organizzato con un CD di immagini da far vedere su un televisore, così da poter parlare, come di solito faccio, commentando foto e disegni. Ho salutato una per una, dando una stretta di mano a ognuno, le persone (una trentina) che si sono presentate nella sala (che non ne poteva contenere di più). Tutti, ovviamente, erano lì per loro scelta e mi è stato detto che ci sono sempre molte richieste per questo tipo di incontri, ci sono detenuti che non se ne perdono uno. Si trattava di uomini, di età (apparente) fra i venti e i quaranta anni, tutti in grado di capire e parlare perfettamente l'italiano anche se alcuni avevano nomi arabi, che ciascuno ha tenuto a dirmi. I miei interlocutori erano tutti sorridenti, gentili e cordiali: immagino che in altre circostanze capiti loro di essere depressi o disperati, ma all'incontro sono venuti come a un momento di divertimento.
A ciascuno ho regalato un albo a fumetti, e sono certo di averli fatti felici: "davvero è per me?", mi chiedevano, "posso tenerlo?". Per i reclusi, mi ha spiegato la dottoressa, sono importanti anche le piccole cose, le minime dimostrazioni di solidarietà, l'attenzione verso di loro. Tutti sapevano benissimo cos'erano i fumetti, la maggior parte conosceva Zagor ed era in grado di citare con cognizione di causa altri personaggi come Dylan Dog o Alan Ford, Lupo Alberto o Tex. Non solo: tutti sono stati attenti dal primo all'ultimo minuto dell'incontro, intervenendo con domande e osservazioni molto acute. C'è stato anche un momento che mi ha riempito di soddisfazione perché, sfogliando "L'uomo nel mirino", uno dei detenuti si è imbattuto nel personaggio di Badal, l'addestratore dell'elefante Shiva, che si rivolge al pachiderma dando degli ordini in una lingua incomprensibile. Tutti avranno pensato che mi sia inventato le parole. Invece, uno dei presenti ha detto: "Ma questo è hindi!", e ha tradotto il senso della frase: "Vieni, Shiva, è ora di andare a mangiare". In effetti, nello scrivere quella sequenza, mi ero documentato sulle parole che usano gli addestratori di elefanti e le avevo citate con precisione. Non so perché quel brillante detenuto conoscesse l'hindi, ma sono stato lieto che non gli sia sfuggito il mio sforzo di documentazione.
L'argomento della mia conferenza non era comunque l'incontro di Zagor con Tocqueville e con Andrew Jackson (di cui si racconta nei due Maxi che ho portato a San Vittore) ma il linguaggio del fumetto e le potenzialità del suo codice espressivo, in grado di raccontare con efficacia qualsiasi cosa senza alcuna sudditanza verso gli altri medium. Hanno molto colpito alcune tavole di Ken Parker e di Dino Battaglia che ho mostrato sullo schermo.
Il clima è stato però assolutamente rilassato, e l'interesse senza dubbio più alto di quanto capita di solito se si parla, per esempio, a una scolaresca (anche se io mi vanto di riuscire, nei limiti del possibile, a tenere alta l'attenzione anche delle classi più svogliate, almeno per un'oretta - poi c'è comunque un crollo fisiologico dell'uditorio).
Per un vecchio fanzinaro come il sottoscritto (fanzinaro una volta, fanzinaro per sempre) sfogliare una rivista amatoriale è sempre un richiamo irresistibile, come per Roger Rabbit cantare "ammazza la vecchia col flit". Avete voglia di farmi vedere i più fantasmagorici siti Internet: io mi imbambolo ancora davanti alle pagine dalla grafica approssimativa ma trasudanti entusiasmo di chi si sporca le mani di inchiostro. E non ho mai smesso di scrivere, ovviamente gratis, articoli per tutte le piccole testate (magari semiclandestine) che me lo hanno chiesto. E' più forte di me. "Ci scrivi un intervento su....?", chiede il redattore di turno. "Sì!", rispondo io, prima ancora di sapere su che cosa. E' richiamo della foresta. Sono trent'anni che intervengo e non mi riesce di smettere, neppure con l'agopuntura. Penso che riproporrò, di tanto in tanto, qualcuno di quei pezzi su questo blog. Ho pensato di cominciare, però, con una delle ultime cose che ho scritto per una fanzine, visto che l'argomento riguarda il "mestiere di scrivere" di cui ho parlato in diverse occasioni.
IL MESTIERE DI SCRIVERE
Invece, dovete sapete che, per quanto sembri impossibile, i fumetti non sono disegnati con il computer, non sono fatti con lo stampino, e non sono (quasi mai) frutto del lavoro di una sola persona ma di almeno un paio.
Molti di coloro che leggevano i fumetti da bambini, ne hanno poi abbandonato la lettura quando si sono accorti che era più divertente correre dietro alle ragazze (sono d'accordo, ma l'una cosa non esclude l'altra). Costoro, di solito, sono convinti che i fumetti abbiano cessato di venire stampati quando loro hanno smesso di leggerli. "Zagor? Davvero esce ancora?". No, ci sarebbe da rispondere, lo mandavano in edicola soltanto per te. Altri invece, sia pure in minoranza, i fumetti hanno continuato a leggerli, forse per consolarsi di non aver mai raggiunto la ragazza cui correvano dietro. Oppure, per consolarsi del fatto di averla raggiunta.
La realtà è davvero molto diversa. Nelle Case editrici ci sono soltanto impiegati che smistano fatture e buste paga, lettere e bollette, contratti e ricevute. I lettori che suonano alla porta della Bonelli sperando che il campanello faccia "ARRGGH" e che venga ad aprire qualcuno truccato da Groucho, restano tutti molto delusi apprendendo che non c'è neppure un disegnatore per farsi fare un disegnino con dedica. A volte, disperati, ne chiedono uno alla signora delle pulizie o un fattorino, pur di non tornare a casa a mani vuote. Dove sono, dunque, i disegnatori e gli sceneggiatori? E' quello che vorrebbero sapere anche gli editori, quando gli autori non rispettano i tempi di consegna e non si fanno trovare al telefono. Comunque, in linea di massima, disegnatori e sceneggiatori lavorano stando a casa propria. Ovvero, il più delle volte stanno a casa propria senza lavorare, perché non ne hanno voglia o perché non trovano l'ispirazione (e quando non la si trova si può stare anche per ore a fissare con sguardo vacuo lo schermo del computer o il tavolo da disegno). Il fatto che ognuno lavori isolato aggrava la situazione: l'autore si ritrova solo, senza nemmeno il conforto di poter scambiare qualche pettegolezzo con i colleghi alla macchinetta del caffè.
Nel lungo e interessante dibattito seguito nei commenti al mio post "Nudo di donna" mi è capitato di accennare al "Dizionario del diavolo"di Ambrose Bierce, e di citarne a memoria un paio di definizioni. Sono perciò andato, per sommo scrupolo, al controllarne l'esattezza direttamente alla fonte, e cioè sull'edizione integrale (oltre trecento pagine) dell'opera, che io ho nei tipi de La Spiga (1995) tradotta da Giuliano Acunzoli, e che fa parte della mia collezione di libri di aforismi. Mi sono divertito moltissimo nel rileggere le definizioni folgoranti di Bierce e ho deciso di sceglierne un po' da condividere con voi. Non prima però di avervi ricordato come lo scrittore americano (nato nell'Ohio nel 1842) sia il protagonista assoluto (più dello stesso titolare di testata) di un memorabile albo di Ken Parker, il cinquantesimo, intitolato "Storie di Soldati", in cui Lungo Fucile incontra proprio lo stesso Bierce che gli narra un po' dei suoi racconti.
E' l'espediente con cui Giancarlo Berardi riesce, meritoriamente, a sceneggiare a fumetti dei folgoranti classici della narrativa americana, capolavori nell'ambito delle short stories e della letteratura western ma anche della letteratura tout court. Bierce visse in prima persona gli orrori della guerra di Secessione, e da questa sua esperienza nacquero i suoi Tales of soldiers and civilians, cioè i "Racconti di soldati e civili". Lo scrittore fu anche un maestro nel campo del fantastico, del soprannaturale, del macabro e dell'orrore. Lasciato l'esercito, si trasferì a San Francisco dove cominciò a fare il giornalista: diventato celebre per i suoi attacchi a uomini politici e di malaffare, era costretto a girare per le strade con una fondina e una pistola dato che in parecchi avrebbero voluto fargli la pelle.
Non a caso se ne è occupato anche Martin Mystére, con l'episodio "La cosa da un altro mondo", del 1988, sceneggiato da quel grande scrittore di fantascienza che è Pier Francesco Prosperi. Lì si ipotizza che Bierce si sia stato attaccato da una creatura extraterrestre protagonista di uno dei suo racconti, "La cosa maledetta". E' singolare comunque che Bierce avesse affermato, un giorno, che nessuno sarebbe stato in grado di ritrovare le sue ossa dopo la sua morte.
Una cosa che racconto spesso parlando di mio padre, è della sua sostanziale incapacità di capire che cosa io faccia davvero di lavoro. Lui, che è stato fornaio per una vita (e anche a me è capitato di passare parecchie notti a farci il pane insieme), non sa spiegare ai suoi amici o ai nostri lontani parenti in che consista quel mio gran darmi da fare, che mi porta in giro fra la Toscana e la Lombardia ma poi anche qua e là per l'Italia e talvolta persino all'estero. Si è sempre meravigliato che io non apprezzassi il posto fisso e con un buono stipendio che avevo prima di iniziare a lavorare per la Bonelli, e quando gli dissi che mi ero licenziato per scrivere fumetti, ha sgranato gli occhi come se avessi fatto outing e lo stessi informando che andavo a convivere con un travestito.
Come scrisse Vico Faggi in un suo verso, "Scopro in me la presenza di mio padre". Sono andato a recuperare un libretto del 1996 che sapevo di avere da qualche parte. Si intitola "A mio padre", e ha per sottotitolo "Le più belle poesie dei poeti italiani" (Newton & Compton), a cura di Luciano Lusi. Si tratta di una antologia di un centinaio di poesie dedicate al padre da un'ottantina di poeti e poetesse italiani, limitata però a quelli del Novecento (il più vecchio è Giovanni Pascoli, classe 1855). Ammetto, a mio disdoro, che per un buon ottanta per cento si tratta di nomi a me ignoti. Accanto a qualcuno più conosciuto, come Alfonso Gatto, Umberto Saba, Camillo Sbarbaro, Dario Bellezza o Piero Bigongiari, ecco Elena Clementelli o Giovanni Cristini o Tiziano Rossi, di cui vorrei sapere di più.
Ecco il testo in quarta di copertina: "Amato, temuto, ricordato, il padre è una delle figure più forti e presenti nella poesia di ogni tempo. La voce dei poeti del nostro secolo lo celebra in questa bella antologia, inno corale di straordinaria intensità. Un padre cui si rimprovera spesso l'assenza, e il cui comportamento determina talvolta il disamore e persino il disprezzo e l'odio. Ma anche un padre che viene cercato, magari soltanto nella memoria di lontane tenerezze, o in forme sostitutive che sanno svelarci - e molti poeti qui lo fanno esplicitamente - il bisogno della sua attenta presenza al nostro fianco".
Alcune poesie lasciano il groppo in gola, e stupisce come in molti abbiano scritto le loro liriche ricordando e piangendo il padre morto, più che parlandone di lui in vita. Il conflitto è sempre presente, come però l'ineluttibilità del legame. Toccante, da questo punto di vista, quella brevissima di Libero Bigiaretti:
Gli iscritti della mailing list "Ayaaaak" votano ogni mese le storie a fumetti delle testate bonelliane e di quelle "bonellidi", cioè pubblicate da altre case editrici ma con formati simili a quello della Bonelli. Periodicamente vengono poi resi noti i risultati. I voti espresso sui titoli datati gennaio 2011 hanno decretato "albo del mese" il mio Maxi Zagor "La banda aerea", disegnato dai fratelli Di Vitto che, dunque, possono festeggiare con me questo risultato.
Non è la prima volta che una mia storia raggiunge questo risultato, battendo dunque tutti gli altri albi bonelliani e bonellidi del mese. Nel febbraio e nel marzo del 2009, per esempio, ho ottenuto il primo posto per due mesi di fila, con "Zagor contro Mortimer"e "La grotta dei bucanieri". Nel dicembre del 2007 ho vinto la classifica con "Il gigante di pietra".
A proposito di apprezzamenti, chi era presente sabato 12 marzo a Cartoomics, e ha partecipato all'incontro zagoriano con cui abbiamo iniziato i festeggiamenti del cinquantennale dello Spirito con la Scure, sa qual è stato il calore con cui un folto pubblico ha accolto Sergio Bonelli e Gallieno Ferri, in mezzo a tanti altri autori (me compreso, che presentavo la conferenza e ho moderato il dibattito). La sala era piena, gli applausi continui, l'atmosfera gioiosa, non sono mancati i momenti di commozione (come quando uno dei figli di Ferri, Fulvio, ha ricordato la sua infanzia accanto al padre che disegnava le prime storie di Zagor) e di risate (come quando Sergio Bonelli ha fatto un numero di cabaret strapazzando la prima striscia originale appartenente al preoccupatissimo Marco Verni). Le foto che testimoniano quei momenti che vedete qua accanto sono opera del solito Marco "Baltorr" Corbetta.
Fra le cose che Bonelli ha detto c'è stata la conferma dell'incredibile tenuta delle vendite dello Spirito con la Scure in un contesto in cui tutte le tirature sono in calo. Personalmente, ho potuto dare notizia di alcune feste che si terranno in tutta Italia in occasione del cinquantennale, a partire da Parma per poi spostarci a Godega (Treviso), arrivando a Raiano (L'Aquila) e ballando poi sulla spiaggia di Rimini, soltanto per citare alcuni appuntamenti ormai certi, in cui sarà presente anche Graziano Romani con la sua band per proseguire il suo tour "Darkwood to Dreamland". Vi terrò aggiornati.
Un'altra uscita che mi riguarda, sempre in primavera, sarà un Oscar Mondadori dedicato a Lupo Alberto, di cui ho firmato l'introduzione si richiesta e proposta dello stesso Silver, un autore con cui ho collaborato a lungo scrivendo decine e decine di storie del Lupo e di Cattivik ma anche decine e decine di articoli, redazionali, testi umoristici, rubriche per le sue testate. Sono contento di avergli lasciato un buon ricordo. "Quando rileggo le tue storie - mi ha detto di recente - le trovo sempre molto divertenti". Grazie della stima, Guido. A proposito di Cattivik e di Lupo Alberto, a Cartoomics ha incontrato di nuovo due vecchi amici che non vedevo da anni: Giorgio Sommacal e Laura Stroppi, disegnatori brillantissimi di molte delle mie sceneggiature per i personaggi silveriani. Laura è appena uscita con un nuovo, divertente albo del suo personaggio "Ghigo lo Sfigo", che vi consiglio assolutamente.
Vi consiglio anche di vedere le repliche della mia commedia "Il vedovo allegro", messa in scena dalla compagnia Recremisi di Ancona e che proseguono da oltre un anno. Credo che proprio durante la manifestazione zagoriana di Raiano sarà possibile vedere l'ultimo spettacolo a chiusura di una lunghissima turnée, presente l'autore. In questi giorni ho autorizzato una "traduzione" del testo in dialetto romagnolo e spero dunque di potervi dare presto la notizia di un nuovo allestimento (ma non diciamo gatto finché non è nel sacco). Chi volesse leggere il copione di questa mia fortunata opera teatrale, può scrivermi tramite i commenti in calce a questo articolo o lo può scaricare dagli appositi siti.