mercoledì 17 aprile 2013

CINEMA AL CINEMA - 7


Proseguono le recensioni cinematografiche di Giorgio Giusfredi, esperto cinefilo oltre che cuoco sopraffino (ma anche scrittore, sceneggiatore di fumetti, organizzatore di eventi), è la guida a cui mi affido per chiedere consiglio sui film da vedere. 


CINEMA AL CINEMA 7 
di Giorgio Giusfredi

aprile 2013


IL GRANDE E POTENTE OZ

Con James Franco, Mila Kunis, Rachel Weisz, Michelle Williams, Zach Braff. Titolo originale Oz: The Great and Powerful. Fantastico, durata 127 min. - USA 2013 - Walt Disney

Sam Raimi, maestro dell’horror in anni precedenti alla prima trilogia cinematografica di Spiderman,  dirige questa favola, prequel della storia di Boum con Dorothy e le sue scarpette rosse. Lo fa rispettando la cosa più importante, cioè instaurando quella insensata paura che ogni bambino, e ogni bambino dentro a un adulto, ha. Se ci fermiamo ad analizzare le favole, infatti, capiamo che si trattano – in gran parte – di racconti horror che esorcizzano la paura atavica che ognuno di noi ha dentro.  Il sense of wonder che si respira durante la proiezione è un piacevole mix tra avventura e mistero che l’occhio del regista ci fa deglutire dolcemente anche nelle parti più assurde. La prima parte, quella ambientata nel mondo reale, fotografata in bianco e nero, è forse la più triste e la più bella, dove il circo itinerante, nella provincia americane di inizio secolo, uccide con la sua decadenza i sogni del giovane prestigiatore. Oz è un po’ stronzo, ma tutti lo amano perché questa sua leggera misantropia è giustificata dalla sua sognante ambizione. James Franco, d’altronde, lo interpreta perfettamente: chi meglio di lui può incarnare un uomo con così alte ambizioni, lui che è attore, regista, scrittore, pittore, poeta e comico? “Perché fare bene una cosa quando puoi essere mediocre in molte?”, rispose, con genio, a una giornalista che gli chiedeva il perché delle sue molteplici attività (e il ragazzo è molto bravo in molte).  Torniamo al film, che presenta tre streghe, tutte bellissime. Quella che rappresenta la bontà pura ha la stessa faccia della ragazza del mago nella vita vera ed è interpretata da "la bionda di Dawson Creek".  Questo ritornare dei personaggi del mondo vero in quello di Oz, funziona anche con l’assistente che diventa una scimmia facchino (l’attore protagonista – nonché sceneggiatore – della serie Scrubs) e con la ragazzina paraplegica vista allegoricamente come una bambolina di porcellana animata. In alcuni tratti il film ricorda l’armata delle tenebre, sempre di Raimi.



GLI AMANTI PASSEGGERI

Un film di Pedro Almodóvar. Con Antonio de la Torre, Hugo Silva, Miguel Angel Silvestre, Laya Martí, Javier Cámara. Titolo originale Los amantes pasajeros. Commedia, durata 90 min. - Spagna 2013. - Warner Bros

Si può dire di tutto di un film così. Tipo che se l’aveva diretto Ceccherini sarebbe stato giudicato uno schifo, ma siccome lo ha diretto Almodovar… Quello che resta però è il divertimento, che in questo caso è duplice. In primo luogo ti diverti grazie agli ammiccamenti morbosi, spiazzanti e citazionisti del regista spagnolo. In secondo ti diverti perché la gran parte degli spettatori seduti accanto a te sarà venuta per assistere a una commedia trash e non a una commedia volutamente trash e in molti casi gli spettatori saranno spiazzati dal non-sense dell’autore e si volteranno a destra e a sinistra per reagire alle immagini come i propri vicini. Questa ultima considerazione vale in maniera più accentuata nei cinema provinciali, molto molto meno che ne i cineforum o nei circoli. Più che altro il regista riesce a ripetersi senza ripetersi. E non è importante se delle trovate di inquadratura ambiziose risultano così ridicole da stridere, perché arrivi ad un punto e ti chiedi se l’avrà fatto apposta e poi vieni subito ringalluzzito da sequenza geniali come quella postata nel video qui sotto. O da espedienti narrativi interessanti come la preparazione dell’Aigua de Valencia, mistico cocktail dolcino al palato grazie al succo di frutta ma pieno di droghe e vodka. Quasi tutta la storia si svolge nella carlinga di un aereo. Un film che, secondo quello che dice Marge Simpson, grazie alla sua sessualitàambigua e ammiccante, sarebbe piaciuto a Homer, suo marito.


COME UN TUONO

Un film di Derek Cianfrance. Con Ryan Gosling, Bradley Cooper, Eva Mendes, Dane DeHaan, Emory Cohen. Titolo originale The Place Beyond the Pines. Thriller, durata 140 min. - USA 2012. - Lucky Red

Il tocco dorato di Ryan Gosling non sbaglia neanche un colpo e anche stavolta insaporisce un film che ha il mitologico respiro che solo i grandi romanzi americani hanno. Si tratta di un dramma, non di un thriller poliziesco come vogliono farci credere. E anche in questo caso molti degli spettatori si spaventano – e possono anche lasciare la sala – quando capiscono con cosa hanno a che fare. Il regista è lo stesso di Blue Valentine, una struggente storia d’amore, sempre con il biondo ex giovane di Hercules, un film che è uscito da poco in Italia dopo tre anni di censura per un famoso cunnilingus proibito e passato inosservato, mal distribuito, ma bellissimo. Questo secondo film di Cianfrance, il cui titolo originale (The Place Beyond the Pines) rende molto meglio l’idea della storia che stiamo per affrontare, ha lo stesso malinconico e inesorabile meccanismo di forti sentimenti costruiti in una società ne giusta ne sbagliata, che lascia allo spettatore il giudizio. Il finto tono documentaristico serve per scuotere segretamente e ancor più profondamente gli animi di un pubblico sensibile. Non c'è da dire molto sulla trama per non svelare situazioni da cui è piacevole farsi sorprendere. Eva Mendes e figa anche quando fa una parte con dieci anni in meno dei suoi. Gosling, in questo stesso film, vanta già un imitatore di stile: quel Dane Dehaan, già visto in Cronicle e Lawless, che presto farà l’assassino in un film sulla beat generation, Kill your Darlings, accanto a giovani attori che impersoneranno gli scrittori di quell’epoca, da Ginburg a Keruac.



IL CACCIATORE DI GIGANTI

Un film di Bryan Singer. Con Nicholas Hoult, Eleanor Tomlinson, Stanley Tucci, Ian McShane, Bill Nighy. Titolo originale Jack the Giant Slayer. Azione, durata 114 min. - USA 2013. - Warner Bros Italia

Fee fye foe fumm: da dove proviene il fulmine e il suo boom? Le storielle in rima come questa, anche tradotte in italiano sono la cosa più bella del film. Viene da chiedersi dov’è il Singer morboso che per un frame di pochi secondi fece fare a dei ragazzetti la doccia per settimane per riprenderli nudi? Non vuole essere questa assolutamente un’apologia di pedofilia, ma soltanto per spiegare che, vedendo il film, si ha la sensazione che il regista non ci tenga, non abbia quell’amore pulsante per quello che sta facendo ma lo faccia solo per il cachet che non deve essere stato male per una produzione, tutto sommato, imponente. Se si va al cinema con scoramento se ne può uscire anche semicontenti. Ma la realtà dei fatti è che la storia manca veramente di qualcosa che la imprima in qualche ricordo, forse solo le filastrocche, comunque mal utilizzate. Il sogno di un bambino che vuol diventare cacciatore di giganti poteva essere meglio gestito visto l’epica aspettativa che genera in ogni fruitore. Anche gli attori più importanti come Stanley Tucci, Ewan McGregor e Ian McShane fanno il compitino. Per quel che riguarda il protagonista, cioè il famoso Jack del fagiolo magico, è interpretato dall’attore di Warm Bodies, di cui si parla la puntata scorsa, a anche qui sembra uno zombie o, quantomeno, un celebroleso. Il curioso è che anche la protagonista ha un che di ebete, nonostante la sua virginea bellezza, tant’è che è quella a cui Salvadores, in Educazione Siberiana, fa fare la parte della sempliciotta, per non dire peggio. 

domenica 14 aprile 2013

TERZO GRADO

Gallieno Ferri e Moreno Burattini nel 2004


Da quasi dieci anni rispondo alle domande di un "filo diretto" sul forum zagoriano SCLS (mi hanno offerto comunque uno spazio analogo anche gli amici di ZTN). Dato che alcune delle risposte fornite in passato continuano ad avere un qualche interesse ancor oggi, ho raccolto in questo post quel che mi è capitato di scrivere nei mesi di gennaio e di febbraio del 2004. Le mie parole vanno, ovviamente, contestualizzate in quel periodo: Sergio Bonelli era ancora vivo, gli Zagoroni avevano ancora da giungere sulla scena, eccetera. Tuttavia, rileggerle a distanza di nove anni risulta stimolante. Ogni tanto, cercherò di raccogliere in altri articoli come questo le dichiarazioni del passato.


FILO DIRETTO CON MORENO BURATTINI
Gennaio - Febbraio 2004

E' vero che hai scritto un soggetto con il ritorno di SuperMike?

Sì, il soggetto per Supermike esiste, ma stato bloccato dalla legittima decisione di Bonelli (ribadita e spiegata anche in alcuni incontri pubblici) di evitare un ritorno del buon vecchio Mike Gordon. 

Lascerai mai Zagor per Tex?

Su Tex si viene convocati, e io non credo proprio che l'editore abbia in mente di chiedermelo visto che prima di me, oltre al prolificissimo Nizzi, ci sono comunque mostri di bravura come Boselli, Ruju, Manfredi, Berardi (tutta gente che ha già scritto Tex). Io, peraltro, sto benissimo a Zagor (e non sono un mostro di bravura). 

Dato che Diego Paolucci esordisce come soggettista (benvenuto!), quali sono i motivi della vostra apertura verso l'accoglienza di nuovi soggetti (visto che altre testate in questo sono molto più "chiuse")? E Sergio Bonelli cosa pensa in merito?

In realtà, su Zagor gli sceneggiatori esordienti, nel corso degli anni, non sono stati poi così numerosi (su Martin Mystere o Nathan Never, secondo me, nel complesso se ne sono visti di più), e molto raramente, poi, si è trattato di collaborazioni destinate a proseguire nel tempo. Questo perché, per quanto possa sembrare strano, scrivere un soggetto per Zagor è molto difficile. Si tratta infatti di rispettare (e dunque conoscere a fondo) la tradizione, mantenendosi nei limiti dei tanti paletti posti dall'editore a tutela di un personaggio che gli appartiene anche come autore, senza scadere nello stesso tempo nel deja vu e senza riproporre stilemi narrativi o tematici superati. Il controllo di Bonelli su Zagor è assai maggiore rispetto a quello operato su altre serie, e si può ben capire il perché, essendo lo Spirito con la Scure non solo un caposaldo della Casa editrice ma anche il personaggio di maggior successo dello stesso editore nei panni dello sceneggiatore Nolitta. Dunque, gli esordi sono rari e problematici (Zagor non si presta troppo alle sperimentazioni, avendo un pubblico esigente e tradizionalista). Appunto per questo, dopo varie esperienze, negli ultimissimi tempi si è preferito accettare un paio di soggetti ritenuti validi, come quello di Stefano Priarone per il ritorno di Dharma o quello di Diego Paolucci con il ritorno di La Plume, affidando però la sceneggiatura al sottoscritto (non so se la scelta sia stata poi felice, ma questa è stata), in modo da poter garantire all'editore e ai lettori il maggior tasso possibile di "ortodossia" zagoriana, almeno quella che posso assicurare io con l'esperienza più che decennale che, bene o male, mi sono fatto. Però, dato che dello staff zagoriano facciamo parte io, Boselli, Mignacco, Cajelli, Rauch e Capone (anche se gli ultimi tre forniscono per ora un apporto limitato), e le uscite in edicola assorbono solo un certo numero di tavole per le quali siamo già in sovrapproduzione, seppur di poco (quel che basta per una scorta), non è che ci sia molto spazio per i nuovi arrivati. Vero è che se non si fanno delle selezioni, se non si fa una certa "scuola", se non mettono alla prova degli autori, i nuovi Sclavi o i nuovi Berardi difficilmente verranno alla luce, ed è questa l'ottica nella quale, per ora, io e Boselli ci siamo impegnati nell'esaminare le proposte in arrivo e nel portare avanti le rare meritevoli, tuttavia gli spazi ristretti e la sempre maggior difficoltà. Nell'accontentare le richieste della Casa editrice renderanno sempre più problematico l'arrivo di altri sceneggiatori.

Bonelli legge le storie quando sono già disegnate o ogni soggetto deve prima essere approvato da lui? O si limita a porre qualche veto di tanto in tanto come per Supermike?

Bonelli legge tutto quello che di Zagor (e degli altri personaggi) va in edicola, prima dell'uscita, e chiede correzioni e aggiustamenti (in questo, è senza dubbio molto più "severo" sulle pagine dello Spirito con la Scure che su quelle dei restanti eroi). Riguardo ai soggetti, non c'è una regola fissa che sia valsa per tutti gli ultimi vent'anni, da quando non è più Nolitta l'artefice unico delle sceneggiature. Non so bene quali siano state le prassi prima del mio arrivo, ma da quando io lavoro alla Bonelli mi sono visto approvare soggetti da Sergio in persona, da Canzio, da Queirolo, da Boselli (e scartarne a dozzine da tutti), a seconda del momento e della contingenza. A volte Sergio ha chiesto di vedere i soggetti prima, a volte si è limitato a chiedere di venirne informato per sommi capi, a volte ha delegato ai curatori il compito di approvare o bocciare; di certo ha sempre approvato, salvo poi magari restarne deluso, i vari ritorni "importanti", e periodiche riunioni in redazione lo hanno sempre informato dei progetti di nuove saghe o trasferte, su cui ha dato le sue direttive. Così come, dopo la lettura di ogni storia, ci comunica i suoi commenti e dà delle dritte per meglio muoverci in futuro. Una cosa curiosa è che mentre Boselli ha avuto sempre, quando più e quando meno, una certa libertà nelle sue scelte dei soggetti zagoriani di "ordinaria amministrazione", tutti i soggetti di Cico sono sempre stati approvati da Nolitta in persona. Ricordo che per "Cico Trapper", che era il mio primo lavoro, si mise a discutere con me gag per gag, bocciandone molte fra quelle che avevo pensato, e accettando quelle finite nell'albo.


Le mura di Jerico, il tuo romanzo zagoriano, verrà mai "tradotto" in fumetto?

"Le mura di Jericho" nacque come un soggetto per una storia di Zagor da fare, appunto, a fumetti. Ma venne scartata, per vari motivi. A me però l'idea piaceva, e pur di raccontare quella storia proposi agli amici di "Darkwood Monitor" di scrivere un romanzo a puntate, naturalmente gratis. E' piaciuto al punto che ne esiste anche una traduzione in portoghese. Ormai, però, non diventerà mai più un fumetto.

Per noi aspiranti sceneggiatori proprio non c'è speranza?

La speranza, come si sa, è l'ultima a morire. Ho solo detto che per gli aspiranti sceneggiatori la contingenza è problematica. Questo non vuol dire che poi a qualcuno che arriva con una idea strepitosa non arrida il successo, né che i tempi cambino, che il clima torni più favorevole, che venga deciso di fare degli esperimenti o di creare una "scuola" per nuovi autori. Però, inutile dare false speranze sull'immediato, quando è evidente, dalla prova dei fatti, che è difficile portare in edicola storie di nuovi autori. Ciò non significa che non ci siano speranze, significa che è difficile. E le difficoltà, per affrontarle, vanno guardate in faccia, no?

Gaetano Cassaro e Luigi Migacco
Cassaro e Chiarolla hanno disegnato 4 Maxi su 5. Visto che sono due disegnatori non amati da tutti per via del loro tratto molto caratteristico non c'è così il rischio di penalizzare la collana?

Cassaro e, soprattutto, Chiarolla, hanno i loro detrattori ma anche i loro ammiratori. In ogni caso, le vendite dei Maxi parlano chiaro: vanno bene. Ci sono poi altri punti di vista da considerare: se fosse vero, e sono parole tue, che non tutti i lettori apprezzano Cassaro e Chiarolla, probabilmente costoro preferiscono una loro storia destinata a un Maxi piuttosto che diluita per tre mesi in tre puntate nella serie regolare; inoltre, trattandosi di disegnatori molto veloci, sono fra i pochi in grado di realizzare dei Maxi in tempi che non siano biblici (figuriamoci quanto impiegherebbero Marco Verni o Massimo Pesce o Marco Torricelli, che fanno dieci tavole al mese).

Perché Ferri si vede meno di frequente di un tempo?

Ferri, è bene sottolinearlo, non si ferma mai. Disegna sempre, con la regolarità di uno schiacciasassi, 25 tavole al mese. Più 15 copertine l'anno. Anche d'agosto. Disegna persino in Sardegna o in Piemonte quando va a sciare (perché Ferri, inutile ripeterlo, E' Zagor e fa windsurf, vela, canoa, sci acrobatico alla sua bella età, classe 1929). Se capitano periodi in cui non escono sue storie è solo perché non sono pronte, perché sono lunghe. O perché sono lunghe e ne sta disegnando due insieme come adesso. Questo significa però che, pazientando, quando le storie escono escono con più tavole e più vicine. 


Qual è la storia più bella o significativa che hai scritto, e viceversa quale la storia peggiore?

Non so rispondere in modo sintetico, dovrò essere analitico e non riuscirò comunque a dire proprio tutto. Dopo quasi quindici anni che scrivo Zagor, mi sono accorto che non può mai essere un autore il miglior giudice del proprio lavoro, e che, soprattutto, nessuna storia sarà mai apprezzata in modo unanime da tutti i lettori. Anzi, il più delle volte i giudizi sono estremamente contrastanti. La storia che più viene detestata da alcuni, viene esaltata oltre ogni aspettativa da altri. Naturalmente va benissimo così: quando un racconto viene licenziato dagli autori e finisce in edicola, appartiene al pubblico. Ciò premesso, tra le mie storie ho una particolare predilezione per "L'uomo con il fucile" e, devo dire, per tutte e tre le avventure in cui compare Mortimer, anche se penso di aver scritto delle pagine brillanti in alcuni dei miei Cico. Ci sono poi storie che io ritengo molto buone ma che non sono state, stranamente (dal mio punto di vista) apprezzate dai lettori, o da una parte di essi, come "I mercenari" o "La corsa sul fiume" o "L'indiana bianca" o "Lo sciamano bianco". Viceversa, ci sono storie su cui io non avrei mai scommesso, come "I pirati del drago", che hanno ottenuto il plauso della platea. Tra le mie storie peggiori, colloco "Nodo scorsoio", soprattutto per il finale rimaneggiato, e "Il sangue dei Cheyenne". Ma storco un po' la bocca anche pensando a "Zanne insaguinate". Circa il trovare più belle o più brutte del previsto certe scene una volta realizzate dal disegnatore, capita di continuo. Di solito, quando vedo che non funzionano, dico: la colpa è mia che non ho saputo dare le giuste indicazioni per i disegni; se vedo che funzionano meglio del previsto, dico: bravo il disegnatore che ha aggiunto del suo. E' la tecnica migliore per costringersi a migliorare.

In una ipotetica schedatura, come si potrebbero computare le tavole di "Thugs!", visto che il soggetto risulta di Burattini-Priarone e la sceneggiatura soltanto tua?

In realtà, non credo che esista un criterio universale. Dipende da come è stata pensata la schedatura. In teoria, se si calcola il numero di pagine "sceneggiate", non ha importanza chi ha scritto il soggetto, giacché si contano solo quelle scritte da chi ha steso la sceneggiatura. Se invece si vogliono contare le pagine di una storia dividendole equamente fra gli autori di soggetto e sceneggiatura, può darsi che il criterio giusto sia quello del fifty/fifty, anche se all'atto pratico sceneggiare è più impegnativo e faticoso (in ambito zagoriano, salvo eccezioni) rispetto allo scrivere un soggetto. Nel caso di Thugs, però, la sceneggiatura è tutta mia e il soggetto mio a metà con Stefano Priarone (avendo io rielaborato un suo brillante spunto originale, che però necessitava di sostanziali interventi). Dunque si potrebbe pensare a un 75% mio e un 25 % di Stefano?

Quando tu decidi di far mangiare Cico, o comprare delle munizioni a Zagor, in base a cosa stabilisci i prezzi, naturalmente in dollari? Utilizzi dei riferimenti storici in questo senso?

Leggo spesso saggi e romanzi molto ben documentati riguardanti il West, e volendo potrei essere anche molto preciso nel dare i prezzi ai cibi, o ai cavalli, o alle armi. Esistono, insomma, delle fonti a cui fare riferimento. Quello che mi colpisce quasi sempre, quando leggo testi "ufficiali" è come si tratti di cifre sempre molto più basse di quelle che siamo abituati a vedere nei fumetti. Per esempio, nel West dieci dollari erano molto di più di quanto possiamo immaginare noi oggi. Però ci sono da fare due considerazioni: primo, Zagor non è ambientato nel classico Far West (che sarebbe il Sud Ovest degli anni seguenti la Guerra di Secessione) ma nel nord-est dei primi decenni del secolo. Addirittura, le banconote erano rare in quegli anni, ed esiste molta minore documentazione in proposito. Ma la consuetudine nolittiana vuole che alcuni classici elementi del western vengano inseriti nel contesto da "Ultimo dei Mohicani" tipico di Zagor, per cui abbiamo, per esempio, le ferrovie (che non c'erano o erano agli albori con locomotive primitive)e le armi automatiche (che non c'erano sicuramente). Così, anche i "prezzi" in dollari e la forma delle banconote che a volte si vedono sono prese dalle tradizioni del western. In altre parole, non mi devo chiedere, e non mi chiedo, come autore, quanto poteva davvero costare un pranzo al ristorante nel 1835 in Pennsylvania, perchè se lo facessi e stabilissi che costava 50 centesimo il lettore direbbe: che stupidaggine, non può costare così poco. Il lettore usa come riferimento i prezzi della tradizione del cinema e del fumetto western, e casomai i riferimenti interni alla serie. Per cui io cerco di far costare gli oggetti in vendita così come, su Zagor, sono sempre costati. Ma, a volte, correggo abbassando (tendo sempre ad abbassare, mai ad alzare).

Giovanni Luigi Bonelli

E' vero che l'irascibilità dello Zagor di Nolitta era dovuta proprio al carattere dello stesso autore? Una sorta di autocitazione, diciamo. E' per questo che lo Zagor attuale ha meno attacchi d'ira ?

Ogni autore tende a riflettersi nel proprio personaggio. Questo è evidente nei disegnatori: Diso ha trasformato Mister No in se stesso, Gallepini dava i suoi occhi e le sue espressioni a Tex, Ferri dà a Zagor il suo fisico, lo stesso Prisco, per fare il nome dell'ultimo arrivato, tende a fare Zagor più esile del solito perchè esile lui. Questo vale anche per gli sceneggiatori: G.L.Bonelli ERA Tex, Dylan Dog è nato dal sangue di Sclavi, e così via. Non definirei Nolitta "Irascibile", ma probabilmente "umorale" nel senso di soggetti a sbalzi d'umore, sì  ma umorali lo siamo tutti, chi più chi meno. Il suo Zagor, simpatico ma irascibile, buono ma potente, in questo gli assomiglia. Circa il cambiamento di Zagor in personaggio meno umorale temo che dipenda non tanto dagli autori ma dalla tendenza generale al politicamente corretto per cui gli eroi finiscono un po' per omologarsi in un buonismo a volte un po' stucchevole, non dovuto a direttive precise ma al fatto che chiunque scriva pensa: oddio, se scrivo questo qualcuno protesterà. Perfino Tex non è più l'uomo rude di una volta, ci pensa due volte prima di spazzolare un cattivo e c'è da contargli le sigarette. Non servono "direttive" precise perché un autore subisca le pastoie del politically correct e sia autocensuri, basta respirare l'aria, si sente da che parte tira il vento, e se non si è editori di se stessi e soprattutto se si lavora si personaggi altrui, occorre anche, ragionevolmente, tener conto della communis opinio, del sentire comune. In casa Disney, un personaggio come Moby Duck non si vede più perché fa di mestiere il baleniere, e le storie di Floyd Gottfreddson non vengono ristampate perché  ci sono personaggio di colore disegnati in modo caricaturale, e anche Diabolik, eroe nero, si è "addolcito" nel corso degli anni. C'è comunque da notare, politicamente corretto a parte, che i personaggi cambiano da soli, comunque, nel corso del tempo. Zagor ha "smussato" gli aspetti più umorali del carattere e non ha gli scatti di collera di un tempo (di cui a volte faceva le spese il povero Cico), ma tutto sommato è rimasto molto più simile a se stesso di altri eroi, Tex compreso.


Non è un segreto che la storia "Neve Rossa" fosse stata inizialmente pensata come uno speciale di 160 pagine. In casi come questi, allunghi semplicemente il finale di una trentina di tavole oppure rivedi alcune scene precedenti?

Dipende in che momento della lavorazione viene deciso l'allungamento. Nel caso del Maxi "Il forte abbandonato", allungato dopo che la storia era già stata finita, ho fatto degli inserti nel corso della storia (a volte anche una sola pagina qua o una sola pagina là, a volte veri e propri taglia/incolla con singole vignette o strisce, altre volte gruppi di tavole); nel caso di "Neve rossa", essendo stato deciso l'allungamento in tempo utile, ho potuto allungare il finale rendendolo più arioso, senza fare inserti in scene precedenti (ma sono state aggiunte anche alcune tavole nello stacco fra i due albi).

Non è la prima volta che ti capita di sceneggiare soggetti altrui: ti piace questo metodo di lavoro? Segui diligentemente le indicazioni del soggettista oppure possiedi comunque dei margini di libertà"

Preferisco sempre sceneggiare soggetti miei, ma non ho difficoltà, se necessario, ad adattarmi a sceneggiare quelli degli altri. Se il soggetto a cui devo lavorare è dettagliato, come quello di Boselli per "La strega della Sierra" o di Colombo per "La leggenda di Wandering Fitzy", lo seguo scrupolosamente. Se è essenziale come quello di Guzzon per "I sabotatori dell'Ontario" (uno speciale Mark), ci metto molto del mio. Il soggetto di Paolucci era una via di mezzo, dettagliato nella parte iniziale, essenziale nel secondo albo.

Con quale criterio vengono inseriti i disegnatori nelle varie testate?

Il criterio è quello di valutare in che cosa riescono meglio. Alcuni autori bravissimi nel disegnare fantascienza non sono altrettanto bravi a disegnare il western, e viceversa. In genere, sono gli stessi disegnatori a proporsi per una certa testata o per un certo genere; altre volte è Bonelli che riconosce un talento e lo mette alla prova (per esempio, chi mai avrebbe detto che Capitanio poteva passare così bene da Nick Raider a Tex?).

Francesco Manetti in basso a sinistra, con me, Alessandro Monti, Saverio Ceri e Alessandro Pastore negli anni Ottanta
Esiste, pubblicato da Paolo Ferriani, e datato 1998, anche un altro Index oltre a quelli zagoriani: quello di Alan Ford (1-300) con testi di Burattini - Manetti. Puoi rievocarci quell'esperienza e presentarci, per chi non lo conoscesse, il co-autore Francesco Manetti? La mia impressione è che, prima di essere analisti della serie, siete stati due lettori divertiti.

Sul fatto che io e Francesco Manetti siamo da sempre lettori divertiti da Alan Ford, non ci sono dubbi. Ma del resto, tutti i libri e i saggi che io (e Francesco, insieme e separatamente) abbiamo scritto sui fumetti nascono in primo luogo dal nostro divertimento. Facendo un po' di conti, io e Francesco Manetti abbiamo scritto insieme almeno otto libri: i cinque volumi di "Cavalcando con Tex", poi due su Zagor (lo "Speciale Zagor" di Collezionare e il volume della Glamour), e appunto l'Index di Alan Ford. Poi lui ne ha scritti altri da solo (è uno dei massimi esperti di Carl Barks, per esempio) e altri io da solo (o in coppia con Stefano Priarone, uno su Gallieno Ferri e uno su Guglielmo Letteri). C'è da notare che il Francesco Manetti mio sodale e compagno di merende non è il Francesco Manetti di uBC e che scrive su Ken Parker Collection, ma un omonomo (ma i due si sono più volte incontrati!). Francesco oggi ha trentanove anni, e io lo conosco da quando ne aveva ventitrè. Mi contattò lui stesso, dopo aver letto uno dei primi numeri della fanzine "Collezionare", di cui io ero uno degli artefici, e si offrì per scrivere articoli dato che era un super appassionato di fumetti. Scoprii, incontrandolo, che eravamo appassionati anche di altre cose in comune, per esempio Isaac Asimov e Stephen King. Diventammo amici per la pelle e, per esempio, lui è stato il mio testimone di nozze e io il suo. C'era anche lui, il giorno che io misi piede per la prima volta in Via Buonarroti, quando andammo a intervistare Bonelli (e lo stesso giorno, eravamo andati a trovare, in via Fatebenefratelli, un altro nostro mito comune, Max Bunker). Su Alan Ford, abbiamo scritto insieme, oltre l'Index, anche molto altro, e abbiamo curato la mostra "Alan Ford Venticinque", durante la mostra del fumetto di Prato del 1993 (in quell'occasione portammo a Prato Max Bunker). Avevamo in programma un altro libro, con Paolo Ferriani, mio e Manetti, su tutta la produzione di Max Bunker, ma poi il progetto si è arenato.

Sono curioso di sapere se, nel ricercare riferimenti nel passato della serie di Zagor, prendete come riferimento la serie Zenith o i Tutto.

Per quanto mi riguarda faccio riferimento ai Tutto, che considero l'edizione definitiva, con logiche correzioni a molte incongruenze del passato (fatte, peraltro, dallo stesso autore, cioè Nolitta). Naturalmente, questo fin dove i Tutto sono arrivati.

Una volta conclusa la storia le tavole disegnate a chi appartengono, a Bonelli o al disegnatore? E  che uso ne viene fatto?

E' già stato risposto nel modo giusto: una volta pubblicata la storia, le tavole (intese come oggetto fisico) vengono restituite al disegnatore, almeno qui alla Bonelli (non è così altrove, e ci sono molte controversie in corso). Naturalmente il disegnatore non può stamparle di nuovo, può solo, de vuole, venderle come oggetta da collezione, vende l'oggetto ma non dispone del diritto di stampa (che resta all'editore). 



Un autore può decidere di utilizzare un personaggio creato da un altro autore per una propria storia senza il veto del creatore? Per esempio, tu,  Moreno puoi decidere di utilizzare Nat Murdo senza chiedere il parere a Mauro Boselli?


Circa l'uso dei personaggi altrui, se ti riferisci a personaggi nell'ambito di una stessa serie, chiedere il parere del creatore è norma di buona creanza, ma non è obbligatorio, in quanto tutto ciò che noi creiamo in ambito zagoriano appartiene a Bonelli, ed è lui che poi ne dispone; in teoria Bonelli potrebbe autorizzare l'uso di Nat Murdo anche se Mauro Boselli non fosse d'accordo. Ma è logico che queste conflittualità non esistono: ci accordiamo facilmente su tutto.

Riguardo all'ipotesi di nuove sorprese emergenti dal passato di Zagor (parenti, amori, eccetera) qualcosa del genere bolle in pentola? Tu, personalmente,che ne pensi della questione? Secondo te il passato di Zagor è già inflazionato?

Io sono uno a cui piacciono le storie sul passato dei personaggi, sento molto il fascino della scoperta di segreti celati nella memoria o nascosti dalla polvere del tempo. Mi piace anche il gioco di costruire delle storie in flashback o retrospettive tenendo conto di quello che già si sa, o di spiegare le apparenti incongruenze. Una delle mie storie migliori, secondo me, è l'albetto allegato a uno Speciale del Comandante Mark in cui, in sole 32 tavole, ho raccontato il passato di Betty e ho risolto l'impossibile giustificando un sacco di cose che non tornavano nella serie. Detto ciò, non posso fare a meno di constatare come questa mia passione non sia condivisa da Sergio Bonelli né da molti lettori. Inoltre, toccare il passato di un eroe è pericoloso: probabilmente solo il suo creatore può farlo. Insomma, personalmente mi divertirei a spiegare un sacco di cose del passato di Zagor (sulla madre, per esempio, ma anche sul padre, ma anche su di lui) e credo che le cose da dire siano parecchie. Però, so con certezza che Nolitta preferisce che non si torni troppo spesso sull'argomento. Dunque, allo stato attuale delle cose non ci sono storie sul passato di Zagor in lavorazione. Però, se ne potrebbe parlare in occasione del numero 500. Se mi verrà chiesto, farò delle proposte. Che poi siano accettate, è tutto da vedere.

Se quindi le tavole vengono restituite al disegnatore le modifiche ai disegni di TuttoZagor dove venivano fatte? Non mi dire sulle fotocopie!

Il commercio di tavole originali non è un fenomeno molto vecchio, in Italia, anzi, diciamo che è recente (ultimi venti anni). Prima, gli autori non è che pensassero di rivendere ai mercanti le loro storie né che importasse molto loro di tenersele in casa. Una volta consegnate in casa editrice, restavano là e stava bene pure ai disegnatori. Anche il principio secondo il quale le tavole andavano restituite agli autori si è affermato di recente, appunto negli ultimi due decenni. Prima, la Bonelli ha conservato a lungo le tavole nei suoi archivi, senza che gli autori, almeno nella maggior parte dei casi, le richiedessero. Dunque, la serie "TuttoZagor" ha potuto contare sulle tavole originali (almeno in gran parte), e lì sopra sono state fatte le correzioni (di solito si è trattato di rifare il lettering). Via via che le storie venivano corrette, sugli originali, questi venivano restituiti agli autori. A meno che, come tuttora accade, gli autori non le richiedano neppure perché non sanno dove metterle! Quando gli originali non sono disponibili, si correggono delle copie che non sono semplici fotocopie, ma riproduzioni da pellicola su cartoncino da disegno, in pratica identici agli originali.

Nella tavola della storia di Diablar in mio possesso, l'ultima vignetta è stata sostituita tramite incollaggio. Perché?

In questo caso non si tratta di una correzione dovuta all'aggiornamento di una storia per la ristampa, ma a una correzione in fase di revisione prima della stampa. Nel tempo ci sono state varie filosofie riguardo a queste correzioni, anche in ragione delle aspettative dei lettori, ma oggi (ed è questa una parte del mio lavoro) si esaminano le tavole dei disegnatori al momento della consegna e dopo il lettering, prima della stampa (ci sono varie letture: mia, di Boselli, di Canzio, di Bonelli, e ogni lettura trova degli errori da correggere, nei testi e nei disegni); e se ci sono errori occorre rimediare. Gli errori ci sono sempre, a volte clamorosi, a volte piccolissimi. Se è possibile, le correzioni le fa lo stesso disegnatore. Se non è possibile (per la distanza o il tempo che manca) rimediano i nostri tre bravissimi grafici, con interventi comunque il più possibile limitati.

Circa le correzioni devo aver letto da qualche parte che Tex fu costretto all'autocensura negli anni '50 e '60. Scene in cui indiane apparivano troppo svestite vennero successivamente coperte e poi riscoperte nelle ristampe successive dopo alcune polemiche che investirono il mondo dei fumetti in generale con tanto di interrogazioni parlamentari dell'epoca ( i vecchi babbioni ). Si ha notizia di qualcosa del genere su Zagor?

No. Almeno, non ci sono mai state censure come quelle subite da Tex, e per un motivo ben preciso. Tex uscì la prima volta nel 1948. La proposta di legge di due parlamentari democristiani, i famigerati Domenici e Migliori, che portò al triste marchio della "Garanzia Morale" sugli albi di gran parte dei fumetti italiani, è della metà degli anni Cinquanta. Dunque, per alcuni anni Tex uscì libero da ogni censura, felicemente espressivo come voleva papà Bonelli. I guai sorsero quando, nella seconda metà degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, si cominciarono a ristampare le storie uscite appunto prima della "Garanzia Morale" (quelle uscite dopo erano già castigate di loro fin dal primo apparire). Le ristampe sono state tutte censurate, come hanno dimostrato numerosi saggi (ho scritto anch'io qualcosa in proposito). Zagor è uscito la prima volta nel 1961, dunque già in regime di "Garanzia Morale", ed è nato dunque morigerato di suo (ma in fondo nacque scritto da Guido Nolitta, che aveva un temperamento diverso da Gian Luigi Bonelli, e dunque, probabilmente, non sarebbe stato ugualmente "sfrontato" come il Tex delle origini). Le correzioni che si sono fatte sulle tavole di Zagor per le varie ristampe, e soprattutto per TuttoZagor (dove gli interventi sono stati notevolissimi), non sono state "censure" ideologiche o di stampo moralistico, ma solo soluzione di errori o di sviste nei testi o nei disegni, miglioramenti decisi in gran parte della stesso Bonelli.

Come mai De Vescovi ha disegnato solo una storia per Zagor? Secondo me diede un ottima prova. E' stata una scelta sua non continuare o editoriale? E tu come giudichi i suoi disegni in quella circostanza,fra l'altro su testi tuoi?

Devescovi fu, purtroppo, solo un "prestito" momentaneo in un momento in cui serviva un aiuto esterno per garantire la produzione della serie. Una volta fatto il lavoro, Devescovi fu restituito a Martin Mystere (dove è uno fra i più bravi). Avrai notato, credo, che non a caso Franco ha disegnato la storia in due albi dove, nella serie del BVZM si parla di Zagor.  Il mio giudizio sullo Zagor di Devescovi è positivissimo. Mi piacque molto come realizzò quella mia storia. Peraltro, lo ricordo come una persona squisitissima: andai a trovarlo a Trieste, dove abita, e mi portò a mangiare in un paio di posti bellissimi, trascorremmo un bel weekend insieme (io ero all'epoca giovane e alle prime armi, ma lui mi trattò come un autore navigato!).

venerdì 12 aprile 2013

ARRIVA CICO COLOR!






La notizia già la conoscevo da qualche tempo ma la tenevo per me, in attesa che fosse l’editore interessato a renderla pubblica. Finalmente, sul blog di Gianni BonoImmagini & Fumetti” la cosa è stata annunciata e dunque eccomi qui a a dare all’avvenimento tutto il rilievo che merita. Mi propongo anzi di tornare a parlarne in più occasioni, dedicando un articolo a ogni uscita della collana che le Edizioni If si apprestano a mandare in edicola. Perciò, questo primo post è soltanto l’inizio di un discorso che spero possa durare il più a lungo possibile. 

Ma arriviamo al dunque: dal 16 giugno 2013 sarà in edicola il primo numero di Zagor presenta Cico, una collezione cronologica a colori che ristamperà la collana bonelliana degli Speciali Cico, usciti tra il 1979 e il 2007 (ventisette volumi, diciannove dei quali scritti da me). La riedizione avrà (almeno inizialmente) cadenza bimestrale e riproporrà le copertine originali di Gallieno Ferri. Ogni uscita conterrà una sola storia, ma riproposta in technicolor. I primi cinque titoli sono, come si sa, altrettanti capolavori di Nolitta & Ferri. Il sesto, è stato scritto da Tiziano Sclavi per i disegni di Francesco Gamba, l’indimenticabile creatore grafico e principale disegnatore del Piccolo Ranger. Nell’elenco, ci sono anche due episodi sceneggiati da Tito Faraci

Conosco Gianni Bono da molti anni, ho collaborato con lui a molte iniziative (realizzazione di mostre, libri, riviste e cataloghi), ed è stato appunto durante una cena in riva al Naviglio durante il mese di marzo che, fra le altre cose, è saltata fuori l’idea di rispolverare i Cico, riproponendoli a chi non li conoscesse o li avesse persi, ma arricchendo l’iniziativa con il colore e redazionali. Infatti, Gianni mi ha chiesto di curare le postfazioni a tutti i volumi e io ho accettato di buon grado. Ho sempre annoverato le gag cichiane scritte da Nolitta fra le cose più divertenti che abbia letto, e per quanto riguarda la mia esperienza credo che alcune pagine degli speciali del messicano che portano la mia firma siano fra i miei lavori migliori. Dunque, sarà un piacere ritrovare tutto ciò di nuovo in edicola. Spargete la voce, non mancate all’appuntamento!

venerdì 5 aprile 2013

L'ELETTRIZZANTE WALLACE


Fra le mie tante collaborazioni (e gli ancor più numerosi tentativi di collaborazione) ce n'è una durata pochissimo, causa chiusura della pubblicazione, con una rivista intitolata "Crimen" che, se non ricordo male, uscì nei primi anni Novanta ed era curata da Dino Caterini. Credo di aver scritto quattro o cinque articoli, dedicati ciascuno a un diverso giallista, ma solo un paio, probabilmente, vennero effettivamente pubblicati. Fra gli inediti, c'è il pezzo su Asimov già apparso su questo blog. Uno di quelli pubblicati è invece il breve pezzo che segue, che è a mio avviso una buona esercitazione giornalistica su Edgar Wallace: avevo a disposizione pochissimo spazio e dovevo essere godibile, queste le indicazioni dell'editore. In più, mi venne chiesto di tradurre e ridurre in un numero di battute davvero minimo, un racconto dello scrittore. Non ricordo assolutamente né dove mi procurai il testo, né che tipo di lavoro vi feci sopra. So solo di aver ritrovato per caso la mia riduzione. Dunque, qui di seguito troverete: il mio articolo su Wallace e poi la mia traduzione e adattamento riassuntivo di un suo racconto.

Per la vostra curiosità, ecco il testo della lettera di accompagnamento che scrissi per Caterini:  "I racconti di Wallace sono numerosissimi, ma quelli che ho rintracciato sono tutti piuttosto lunghi. Il più breve è Il Mamba Verde, che ho scelto per la tua rivista. L'ho ridotto di oltre la metà, ma ciò nonostante risulta pur sempre di 7 cartelle. Ulteriori riduzioni non sono possibili senza fare del racconto  un riassuntino privo di fascino letterario. In questo racconto compare l'investigatore Reeder, che è un personaggio ricorrente nei gialli di Wallace, e poiché di Wallace è davvero il caso di parlare non si può rinunciare a due righe di presentazione. Fosse per me, scriverei tre o quattro cartelle, ma dato che già sette sono occupate dal racconto mi limiterò all'essenziale redigendo una scheda di una sola cartella (che ti invierò mercoledì mattina). In tutto, Wallace occuperà dunque 8 cartelle contro le 6,5/7 previste. Credo che tu possa trovare un po' di posto al testo riducendo le dimensioni delle illustrazioni, in ogni caso non vedo alternativa (se non quella, che non raccomando, di saltare la scheda introduttiva)".

L'ELETTRIZZANTE WALLACE
di Moreno Burattini

Sulla copertina originale della prima edizione del romanzo "L'astuzia del signor Reeder", uscita in Inghilterra nel 1925, compare un slogan che dice: "E' impossibile non rimanere elettrizzati da Edgar Wallace"!  Era vero: i lettori dell'epoca lo sapevano bene e attendevano con trepidazione tutti i nuovi libri con il marchio dello scrittore, consistente in un cerchio rosso con all'interno la sua firma, piazzato a mo' di garanzia sulla cover di ogni volume. E Wallace, probabilmente l'autore di gialli più prolifico del mondo, non si faceva mai attendere troppo: in 27 anni di attività consegnò alla stampa oltre 170 romanzi, più un numero impressionante di racconti. Per non parlare delle commedie e delle sceneggiature cinematografiche: anche lo screenplay di King Kong è opera sua. In una lettera del 1927 al suo editore, citata a titolo di aneddoto da tutti i suoi biografi, Wallace precisa i termini della consegna dei suoi ultimi lavori e promette otto opere in quattro mesi! Dietro a questa incredibile vulcanicità, qualche detrattore dei suoi tempi insinuò la presenza di "ghost writers", cioè collaboratori che scrivevano per lui lasciando a Wallace solo l'onere della firma. Wallace si infuriò come una belva e promise un premio di mille sterline a chi fosse riuscito a dimostrare che uno solo dei suoi scritti non fosse opera sua: nessuno si presentò mai a incassarlo. In realtà, Wallace poteva scrivere tanto in fretta (addirittura un romanzo in un week-end) perché era all'avanguardia anche dal punto di vista tecnologico: incideva la sua voce su un dittafono (apparecchio modernissimo, all'epoca) e tre solerti segretarie si occupavano di trascrivere il testo. Tre, perché tante ne occorrevano per tenere il suo ritmo!
Nato a Greenwich nel 1875, in una famiglia dai pochi mezzi e con dieci figli da allevare, dopo una giovinezza trascorsa passando da un mestiere all'altro (una lapide in Fleet Street a Londra ricorda ancor oggi che lì Wallace faceva lo strillone), il futuro scrittore iniziò a lavorare come giornalista per alcuni quotidiani. Nel 1905 presentò a un editore il suo primo romanzo. Era "I quattro giusti": fu un successo clamoroso. Da lì in poi, la sua carriera fu sempre accompagnata dal favore del pubblico fino alla sua morte, avvenuta nel 1932. "Il lettore - diceva Wallace - deve sempre essere accontentato". E lui l'accontentava, sfornando a getto continuo racconti con una inesauribile variazione di personaggi, trame e di sfondi. Pochi i personaggi ricorrenti nelle opere di Wallace: i Quattro Giusti, appunto, membri di un riservatissimo club il cui scopo è quello di uccidere i criminali riusciti a sfuggire alla giustizia; e il signor Reeder, un cinquantenne investigatore londinese dall'aria mite e compita, con sempre un ombrello al braccio, che dietro la sua apparenza inoffensiva nasconde l'astuzia e la perfidia di un serpente nel perseguitare i malavitosi. 


IL MAMBA VERDE
di Edgar Wallace

Traduzione e adattamento di Moreno Burattini

Lo spirito d'avventura ha rovinato più persone che non il bere, il giocare o il desiderare le donne degli altri. Mo Liski, per esempio, godeva di una posizione sicura: era un uomo piccolo, azzimato e con dei ridicoli occhialetti a molla che lo facevano assomigliare a un professore di scuola, eppure la sua parola era legge in un gran numero di bische e di club e chiunque gli sbarrasse la strada veniva inevitabilmente eliminato. Avrebbe potuto conservare per sempre la sua corona di imperatore dei bassifondi londinesi se non si fosse impelagato in una faccenda del tutto estranea alle sue normali attività.  Tutto cominciò per colpa di arabo di nome El Rabhut, che capitava di frequente in Gran Bretagna viaggiando sulle bananiere che collegano Londra a Madeira. Rabhut conosceva Linski perché di tanto in tanto trafficava droga, contrabbandandola per lui in piccoli cilindri di metallo che inseriva nelle cassette della frutta.  Un giorno, seduto al tavolo di un bar, Rabhut parlò a Mo del  grande furto. Erano stati rubati addirittura gli smeraldi di Solimano, la cosa più preziosa custodita in Marocco. I ladri, privi di scrupoli, avevano osato profanare la Moschea di Omar e uccidere due guardiani pur di allontanarsi con le nove pietre verdi del grande sovrano. Adesso stavano cercando un compratore. Mo ascoltò Rabhut carezzandosi il mento con la mano. Quella faccenda esulava dal suo campo d'azione, ma aveva letto sui giornali quanto valeva la refurtiva e anche se Scotland Yard e le centrali di polizia di mezzo mondo erano all'erta, ma lui conosceva bene i cunicoli attraverso i quali delle pietre preziose potevano agevolmente scivolare. 
- Ci penserò su - concluse Mo. 
Il negoziato sembrava diretto. Peccato che proprio in quel momento Mo Linski si trovasse immischiato in una faccenda che non prometteva nessun guadagno: la vendetta di Marylou Plessy. Quando una donna è cattiva, è cattiva davvero: e Marylou Plessy lo era. Però era anche bella: alta e con i capelli neri e lisci tagliati corti, eccetto una elegante frangia sulla fronte. E questo la faceva salire di molto nella considerazione di Mo. Il marito di lei, Bartholomew Plessy, un francese piuttosto ingegnoso,  aveva scoperto un nuovo metodo per dare l'apparenza di antiche a monete di conio recente. Il suo sistema le falsificava alla perfezione, ma un investigatore di nome Reeder non si era lasciato ingannare e aveva fatto condannare Bartholomew  a vent'anni di lavori forzati.  Adesso Marylou Plessy odiava John Reeder e aveva chiesto aiuto a Linski. Benché quella donna lo stuzzicasse,  Mo cercava di ragionare con la sua naturale prudenza.
- D'accordo, Marylou - gli aveva detto - forse potrei ammazzarti Reeder. Ma hai idea che trambusto che ne verrà fuori? E' un tipo pericoloso. Non mi hanno mai spaventato i piedipiatti, ma questo lavora nell'ufficio del Pubblico Ministero e puoi essere certa che non è stato messo là perché è uno sciocco. Come se non bastasse, ho per le mani uno dei più grossi affari che mi siano mai capitati. Non puoi sistemarlo da sola? Sei la donna più astuta che conosca. -

Nell'ufficio del Pubblico Ministero non avevano dubbi sulla capacità di Reeder di aver cura di se stesso. Per questo, quando l'ispettore Pyne venne da Scotland Yard riferendo che Marylou aveva incontrato l'uomo più pericoloso di Londra, l'assistente del Pubblico Ministero abbozzò un sorrisetto.
- Reeder non ha bisogno di protezione. Glielo dirò, se volete. Ma con ogni probabilità lui sa già tutto. E voi? Cosa state facendo per mettere il sale sulla coda a Linski? -
Pyne scosse la testa.
- Abbiamo già provato a pizzicarlo due volte, ma finché non lo beccheremo con le mani nel sacco, non riusciremo a saldargli il conto. E' un demonio! -
- Anche Reeder lo è. - ribatté cupo l'assistente - Reeder è un autentico mamba. Sapete cos'è un mamba? Un grazioso serpentello il cui morso vi manda all'altro mondo nel giro di due secondi! -
Più tardi, nella mattinata, Reeder entrò nell'ufficio del capo. Aveva la sua solita aria riservata che dava a chi non lo conosceva un'idea del tutto sbagliata del suo calibro. Ascoltò con gli occhi chiusi mentre gli veniva riferito dell'incontro tra Mo Linski e Marylou Plessy.
- Ho già sentito delle voci in proposito. - sospirò Reeder quando il resoconto fu terminato - Un uomo interessante, quel Linski. Peccato che la sua libertà getti una cattiva luce sul nostro dipartimento. -
- Provate a incastrarlo voi, Reeder! - 
- Ho pensato spesso che sarebbe una buona idea.-
- Non è facile. Linski ha un sacco di amici. -
- Già. - mormorò Reeder. Il suo sguardo divenne profondo. - Olandesi, russi, ebrei, francesi... e anche arabi. -
Il capo alzò gli occhi di scatto.
- Arabi? State pensando ai nove smeraldi? Amico mio, ci sono centinaia di arabi a Londra, e migliaia a Parigi. -
- E milioni in Marocco. - replicò Reeder - Comunque sia, per quel che riguarda la signora Plessy, non dovete preoccuparvi. - E scivolò fuori dalla stanza.
Per quasi un mese, Reeder non dimostrò alcun interesse per il caso. Poi, una sera, tornando soprappensiero nella sua casa di Brockey Road, trovò sul suo tavolo un pacco arrivato, come gli disse la governante, con la posta del pomeriggio. C'erano dei cioccolatini. Reeder ne prese uno guarnito di violette candite e lo esaminò con ammirazione.  Richiuse la scatola e rifece il pacchetto. Lo indirizzò a un dipartimento di Scotland Yard e ci attaccò sopra una etichetta con una scritta rossa: "veleno". Il mattino seguente, la toeletta di Marylou Plessy fu interrotta dall'arrivo di due uomini che la aspettavano in soggiorno. Mezz'ora più tardi la donna sedeva in una cella di Hariboro Street, ascoltando dei poliziotti che le parlavano di impronte digitali trovate su una scatola di cioccolatini. Alla sessione penale successiva fu condannata a due anni, "per aver inviato per posta a John Reeder una sostanza velenosa, con lo scopo di assassinarlo".
Mo Linski rimase in tribunale fino al verdetto. Dopo che Marylou fu portata via, lui andò nel grande atrio e fece il primo sbaglio. Reeder si stava infilando i suoi guanti di lana, quando l'ometto gli si avvicinò. 
- Il mio nome è Mo Linski, signor Reeder. Voi avete mandato in galera una mia amica.-
- La signora Plessy? - 
- Già... lo sapete! E sappiate anche che ve la farò pagare! -
In un attimo, qualcuno dietro di lui lo afferrò per un braccio. Era un agente di polizia.
- Venite con me. - 
 Mo sbiancò in volo. Fino a quel momento si trovava in una posizione di vantaggio perché non era mai stato condannato: il suo nome non figurava nei registri.
- Qual è l'accusa? - chiese raucamente.
- Intimidazione e minacce - disse il poliziotto.
Il mattino seguente, Mo Linski fu mandato in prigione per tre settimane.
Tornò in libertà con tutti i sensi in allarme. La diffidenza da gatto selvatico che lo aveva salvato in più di un'occasione filtrava ogni suo pensiero. Si malediva per essersi lasciato coinvolgere nella vendetta di Marylou, e aver così messo in pericolo il suo affare degli smeraldi. Il suo primo passo fu quello di mettersi in contatto con El Rabhut. Ma c'era qualcosa che lo turbava: l'amara consapevolezza di non essersi dimostrato infallibile e la paura che i suoi uomini potessero, perciò, cercare di ribellarsi e spodestarlo. 

Di lì a poco, iniziò una serie di incidenti che turbarono la vita di Mo Linski. Cominciarono quando per caso (almeno così sembrava) incontrò Reeder a Piccadilly.
- Forse vi piacerebbe venirmi a trovare, signor Linski? Io vivo a Brockley. - Reeder si tolse gli occhiali e guardò il suo interlocutore con occhi da gufo - Diciamo alle ventuno, questa sera... c'è tanto di cui parlare. Sarebbe meglio, però, che voi non arrivaste in maniera vistosa... capite? Non vorrei che lo sapessero quelli del mio ufficio.-
Sul volto di Linski si dipinse un sorriso. Tutti gli uomini avevano un prezzo, e forse Reeder chiedeva semplicemente il saldo del suo. All'ora stabilita si presentò puntuale a Brockley. Ma, molto stranamente, Reeder cominciò a trattare tutt'altri argomenti che non il compromesso fra i due. Mo, annoiato a morte, attendeva.
- C'è qualcosa di cui volevo parlarvi, ma temo che dovremo rimandare alla prossima volta - disse alla fine Reeder quando già stava aiutando il suo ospite a rimettersi il soprabito. Linski tornò a casa sinceramente stupefatto. Il mattino successivo, la polizia arrestò un suo luogotenente, Teddy Alfield, e lo accusò del furto di un'auto avvenuto tre mesi prima. Questo fu solo il primo di una serie di avvenimenti inspiegabili. Il secondo accadde quando Linski, tornando a casa una sera, si trovò improvvisamente davanti la goffa figura dell'investigatore che, apparentemente, voleva solo scambiare quattro chiacchiere.
- Sentite, Reeder... che gioco è questo? - sbottò Linski.
- Gioco? - replicò Reeder con aria afflitta.
- Se avete qualcosa di importante da dirmi, mandatemi un biglietto e io verrò a trovarvi.-
Liski entrò in casa sbattendo la porta. Meno di due ore dopo, una squadra di Scotland Yard si presentò a casa di Harry Merton, della banda di Mo, e lo accusò di detenzione illegale di merce rubata trovata in una cassetta di sicurezza.
Una settimana dopo, di ritorno da un importante incontro con El Rabhut, Linski sentì dietro di sé dei passi. Si voltò e vide Reeder.
- Che cosa diavolo volete? - chiese Mo.
- Vorrei che io e voi ci incontrassimo e ci scambiassimo delle confidenze. -
Mo Linski sorrise malignamente.
- Oh! Ci state arrivando, dunque? Bene, vi incontrerò dovunque vorrete. -
- Nel Mall. Domani alle ventidue, vicino alla statua dell'artiglieria. Nessuno potrà vederci, lì. -
Liski annuì e se ne andò. Quella notte fu svegliato dal telefono e venne informato che O'Hara, il più fedele dei suoi capobanda, era stato arrestato e incolpato di un furto avvenuto l'anno precedente. Era Carter, uno dei suoi, a dargli la notizia.
- Che cosa stai tramando, Linski? - chiese Carter con rabbia e sospetto.
- Che vuoi dire? - replicò Linski.
- Una settimana fa sei stato visto parlare con Reeder a Brockley, e quella stessa notte hanno beccato Teddy Alfield. Poi Reeder è venuto a casa tua e poco dopo un altro della banda va in galera. Ieri ti ho visto con i miei occhi parlottare con Reeder e ora è toccato a O'Hara! E' una bizzarra coincidenza, non trovi? I ragazzi ne stanno discutendo... questa faccenda non gli piace . -
Liski si pizzicò il labbro con lo sguardo fisso. Ecco qual era il gioco di Reeder! Stava minando la sua autorità scatenandogli contro i sospetti dei suoi stessi uomini!
- Va bene, Carter - disse - Non me ne ero reso conto prima. Ora ti dirò che cosa è accaduto in modo che tu possa spiegarlo ai ragazzi. -
In poche parole raccontò il gioco dei ripetuti inviti di Reeder, poi aggiunse:
- Vedrò Reeder domani notte, e farò in modo che si ricordi a lungo di quell'incontro! Gli farò pagare cara la sua astuzia! -
Alle ventidue di quella notte passò sotto l'Arco dell'Ammiraglio, mentre la nebbia ricopriva il parco e cadeva una pioggerellina gelida. Camminò oltre il Memorial, attendendo Reeder. Alle ventidue e quindici, non c'era traccia dell'investigatore.
Erano le ventitré quando un poliziotto di ronda inciampò su un corpo steso in penombra sul marciapiede. La sua torcia prima illuminò un pugnale di foggia moresca, poi il volto di Linski stravolto dalla sofferenza. Mo era stato accoltellato.
Quando Pyne ne informò Reeder, il giorno successivo, costui non ebbe dubbi sull'identità del pugnalatore.
- El Rabhut. -
- Come fate a esserne così sicuro? -
- Ieri pomeriggio ho perquisito l'alloggio di quell'arabo alla ricerca degli smeraldi di Solimano. Non li ho trovati, e sono sicuro che siano ancora in Marocco. -
- Avete parlato a Rabhut di Mo Linski, per caso? -
Reeder si grattò il mento.
- Oh, temo di sì. Ho accennato al fatto che c'è una ricompensa di cinquemila sterline per chi dà informazioni utili al ritrovamento degli smeraldi. Credo anche di avergli detto che avevo un importante appuntamento con Liski alle ventidue, e di avergli inavvertitamente messo qualche pulce nell'orecchio su chi mi aveva fatto il suo nome coinvolgendolo nella faccenda. Linski starà a lungo in ospedale, non è vero? Che peccato. Non mi perdonerò mai che le mie incaute parole lo abbiano ridotto in quello stato! -
Detto ciò,  se ne andò. Il suo capo guardò Pyne. Pyne sorrise.
- Qual è il nome di quel serpente così pericoloso, signore? - chiese.
- Mamba. -
- Vedrò di ricordarlo. -



sabato 30 marzo 2013

BARBERA E CHAMPAGNE


La scomparsa di Enzo Jannacci, avvenuta il 29 marzo 2013, mi ha fatto riflettere sulla milanesità che lo caratterizzava, manifestata in tante sue memorabili canzoni in grado di descrivere come poche altre la città in cui era nato. Fra le altre, mi è tornata alla mente El purtava i scarp de tennis. Immediatamente il collegamento di idee è scattato con un articolo da me scritto per una introduzione a un volume della collana Alan Ford Story della Mondadori, in cui mi occupavo di Superciuk, il supercriminale in scarpe da tennis contrapposto da un altro milanesissimo autore, Luciano Secchi (in arte Max Bunker) al suo Gruppo TNT, sulle pagine di Alan Ford. In quel mio pezzo accostavo appunto i versi di Jannacci alla figura dello spazzino (anch’egli, a suo modo, un barbùn) e ci elzeviravo sopra. Da qui, il proposito di mettere insieme le tante cose da me scritte su Superciuk in un unico articolo, che potete leggere qui di seguito. 



Come premessa, basterà sapere questo: Superciuk  è uno spazzino che ha maturato un vero e proprio odio verso i proletari che insozzano le strade, mentre ammira i ricchi che tengono tutto pulito. In seguito all'esplosione delle cisterne di una azienda vinicola sofisticatrice, il netturbino viene investito da un fiume di vino adulterato. Acquista così il potere della pestilenziale fiatata alcolica, con la quale riesce a stordire chiunque. Nella sua baracca in riva all'Hudson, si cuce un costume fatto di stracci e inizia la sua battaglia: rubare ai poveri per donare ai ricchi. Il Alan Ford e il Gruppo TNT però lo catturano e Mister Lamp, uno scienziato geniale quanto male in arnese, inventa un siero disintossicante che viene iniettato al prigioniero. Il Numero Uno, capo supremo del Gruppo, consegna Superciuk all'ispettore Brok, mentre i miliardari piangono la sconfitta del loro protettore. In seguito, numerosi ritorni sulla scena contrassegneranno lo svilupparsi di una vera e propria saga nella saga, dedicata al personaggio.

SUPERCIUK
IL BANDITO CON LE SCARPE DA TENNIS
Di Moreno Burattini

Max Bunker ha raccontato molte volte come, inizialmente, i dati di vendita di Alan Ford fossero stati tutt’altro che esaltanti. Anzi, i risultati economici erano così deprimenti che l’editore Andrea Corno fu persino tentato di chiudere la serie già con il quarto numero. Poi, lentamente, la china venne risalita fino ad arrivare all’albo intitolato “Superciuk”, il ventiseiesimo della saga, il primo a superare il punto di pareggio. Racconta Bunker in una intervista pubblicata su uno dei volumi dei Classici del fumetto di Repubblica: “Il primo numero di Alan Ford vendette ventottomila copie circa, il secondo ottomila. Voleva dire che a ben ventimila acquirenti non era piaciuto. Un vero disastro. L’editore voleva chiuderlo con il numero quattro, ma lasciò a me la decisione. Io credevo nella novità, ci avevo lavorato sopra per più di due anni, ben conscio che le cose nuove incontrano sempre degli ostacoli”. E ancora sull’argomento, leggiamo nel Supplemento del Venticinquennale pubblicato dalla MBP: “E’ un dato di fatto che Alan Ford abbia rischiato di brutto di terminare con il numero quattro. Sarebbe stata una meteora e non avrebbe lasciato traccia alcuna nella storia del fumetto italiano. Invece... I dati di vendita del tre, seppur negativi, erano un po’ meglio di quelli del due, e così pure quelli del quattro che erano un po’ meglio dei precedenti. Che stava succedendo? A poche centinaia di copie per albo aumentava il numero dei lettori, piano piano, anzi pianissimo, era un lento aumento, ma aumento, accidenti!  Così, ci rimboccammo le maniche per trovare qualcosa che desse un bell’impatto alla collana”.  Quali furono le iniziative prese da Max Bunker per dare una scossa alla testata?  Per prima cosa, fu decisa la sostituzione del copertinista. Le cover, eseguite per i primi dieci numeri con tecnica pittorica da Luigi Corteggi, furono affidate al tratto di Magnus che le rese più in sintonia con i contenuti. Poi, al cast del Gruppo TNT vennero aggiunte prima la fondamentale figura del Numero Uno, poi le due mascotte Squitty e Cirano: sempre di più Alan Ford diventava un fumetto corale. Intanto, anche le storie andavano mettendo a fuoco le caratteristiche di fumetto umoristico con valenza di satira politica e sociale, dotato di una vis comica propria e inconfondibile che cominciava a far breccia nei lettori. Così, come conclude Bunker, “arrivammo al n° 26, ‘Superciuk’, cioè il primo numero attivo della gestione Alan Ford, che deve ringraziare Kriminal e Satanik le cui vendite hanno permesso di coprire la perdita. Ci sono voluti  due anni e quattro mesi, poi il boom! Quel numero venne ristampato tre volte. La dura battaglia era stata vinta! Da allora in poi, Alan fu sempre in salita (come vendite) e divenne il fenomeno degli anni Settanta”. 


Può sembrare strano, se non incredibile, ma cinquant’anni fa (o giù di lì), andare in giro in scarpe da ginnastica era da barboni. A testimoniarlo, resta una celebre canzone di Jannacci: El purtava i scarp de tennis. Oggi, le scarpe da tennis sono supertecnologici oggetti di culto da sfoggiare in ogni circostanza con il marchio di fabbrica in bella evidenza. Ma nel 1964, quando il brano fu pubblicato nell'album "La Milano di Enzo Jannacci", le calzature di quel tipo non identificavano un look o uno style o un trend. Persino il tennis non era così diffuso come adesso. Le scarpe da ginnastica non solo erano di tela e dunque non proteggevano dal freddo, ma erano anche le più economiche; si usavano in palestra, ma per le strade della città le calzavano soltanto i meno abbienti. Così, dipingendo un altro povero cristo nella galleria delle sue canzoni, Jannacci poteva descrivere il suo clochard dagli occhi buoni, dicendo: “el purtava i scarp de tennis, el  parlava de per lu / el purtava i scarp de tennis, perché l'era un barbun.”. Cioè: “Lui portava le scarpe da tennis e parlava da solo, lui portava le scarpe da tennis perché era un barbone”.  Alla fine, lo trovarono cadavere sotto un mucchio di cartone. “L'an tuca che'l pareva che'l durmiva / lasa sta che l'e' roba de barbun”: qualcuno l’ha toccato per vedere se dormiva, ma gli hanno detto di lasciare stare, “è roba di barboni”. Indubbiamente la canzone è una straordinaria fotografia di una umanità disperata, in una Milano diversa da quella delle cartoline o degli spot pubblicitari. Esattamente come molte sequenze di Alan Ford, milanesi al punto da venire dialogate con parole prese in prestito dal dialetto meneghino (come “ciuk”, che significa “sbronzo”), ma perfettamente universali nella denuncia delle diseguaglianze e delle contrapposizioni tra le classi sociali. 

Dichiara Max Bunker in una intervista rilasciata a Paolo Ferriani: “Il mio mondo è Milano. Ci sono nato, lì ho vissuto per tanti anni, nella Milano proletaria: non sono nato conte. La Milano che ho conosciuto io, soprattutto da ragazzo, il periodo nel quale si immagazzina molto di più e rimangono impresse certe cose, è quella del  dopoguerra, quella in cui era un problema unire il pasto con la cena. In Italia, fino all’altro ieri, o forse anche adesso (bisognerà vedere, perché le riflessioni si fanno sempre a posteriori e mentre si vive si fotografa, solo in seguito si può analizzare la fotografia) c’era proprio una disparità. C’era davvero una contrapposizione netta tra i due blocchi sociali”.  Il testo del brano di Jannacci comincia così: “Che scuse', ma mi vori cuntav d'un me amis”, scusatemi, ma vorrei raccontarvi di un mio amico. C’è da credere che il cantautore l’abbia davvero conosciuto, il barbone con le scarpe da tennis. E stando a quel che dice Bunker, sempre nella stessa intervista, anche lo sceneggiatore si è ispirato a un personaggio vero, per creare il suo Superciuk: “L’ispirazione mi venne da un portinaio che era sempre sbronzo, e che aveva un alito terrificante. Io entravo, e lui mi salutava. Poi tornavo giù due ore dopo, e lui di nuovo a salutarmi, credendo di non vedermi da un sacco di tempo. ‘Ah, signor Secchi, come sta?’. Non si ricordava più che due ore prima mi aveva già visto. Aveva i bottoni abbottonati uno su e uno giù...”.  L’aneddoto sul portiere perennemente ubriaco, a cui Bunker dice di essersi ispirato per creare Superciuk, è raccontato con dovizia di particolari in una intervista in un volume dei Classici del Fumetto di Repubblica. Dichiara lo sceneggiatore: “A quei tempi vivevo a Città Studi. D’estate lavoravo di notte: scrivevo dalle undici di sera alle sei del mattino, ininterrottamente. Alle sei apriva il bar sotto casa, così scendevo per prendere un caffè quando il portinaio apriva il portone. E’ stato proprio lui a ispirarmi Superciuk. Magro, sorridente, coi pomelli del viso arrossati, barcollava e aveva una fiatata che lasciava pensare che invece di prendere caffè e latte facesse la prima colazione con barbera corretto con grappa. La sua fiatata stendeva e teneva lontane le zanzare. Ciò avveniva ogni mattina, così lo soprannominai ‘semper-ciuk’, e per ‘Superciuk’ il passo è breve. Poi ho pescato nell’oceano della mia fantasia e ho costruito un farsesco supereroe, un Robin Hood al contrario”.


Non sappiamo se il portinaio perennemente ubriaco indossasse le scarpe da tennis, ma Superciuk le porta non per caso, ma perché è un poveraccio. Vive in una baracca sulla riva dell’Hudson (anche se frequenta osterie degne della riva del Lambro) e odia i poveracci come lui, mentre ammira i benestanti. Così, quando per caso acquista degli incredibili superpoteri (una forza sovrumana, come quella degli ubriachi durante le risse, e una fiatata mortale, con cui stende gli avversari e gonfia dei palloni che lo sollevano in volo), si dedica a rubare ai poveri per dare ai ricchi. Sarebbe però uno sbaglio vedere in questo rovesciamento del mito di Robin Hood soltanto la parodia del genere supereroistico, con la messa in caricatura dei costumi e delle facoltà sovrumane di Superman, dei suoi colleghi e dei loro supernemici. Superciuk è anche questo, ma è molto di più. Ci se ne rende conto esaminando le sue motivazioni, spiegate alla fine di “Un fiasco spezzato” e approfondite ancora di più in seguito, negli episodi in cui lo vedremo ritornare: è evidente che il personaggio di Max Bunker, entrato nella leggenda come il nemico per antonomasia del Gruppo TNT, non usa i suoi superpoteri per arricchirsi. E’ un idealista, votato a una sacra missione (per quanto paradossale). Compie quello che ritiene il suo dovere, ma lo fa gratuitamente. Non accetta ricompense (se non una simbolica botticella di rhum a novantotto gradi alcoolici offerta dai miliardari membri del suo Fans Club), non trattiene niente per sé. In un universo come quello alanfordiano, specchio deformante (ma specchio) della realtà, dove trionfano il cinismo e l’opportunismo, e dove i “buoni” sono senza mezzi di sostentamento e la vita è una lotta per la sopravvivenza, è un “cattivo” a coltivare degli ideali.  “El g'aveva du occ de bun”, canta Jannacci del suo barbone: aveva gli occhi da buono.  Anche di Superciuk, alla fine, si potrebbe dire lo stesso.

La saga di Supoerciuk comincia nella bettola in cui Alan Ford si rifugia per affogare nel vino una delusiona amorosa: il nome del locale è “Osteria del Povero diavolo”.  Come al solito, il luogo non ha niente di newyorkese, dato che la New York di Max Bunker è come la terra delle origini dove Elio Vittorini ambienta  la sua “Conversazione in Sicilia”, che “è solo per avventura Sicilia; perché il nome Sicilia suona meglio di Persia o Venezuela”. Anche il nome New York suona meglio di Cinisello Balsamo o Zagarolo, e il viaggio di Max Bunker nell’Italia delle proprie radici, quella delle contrapposizioni sociali, è a suo modo una denuncia del male nel “mondo offeso” vittoriniano. Nel tugurio dove giunge sperando di ubriacarsi, Alan Ford  assiste alla discussione fra lo scalcagnato proprietario e un riccastro desideroso di acquistare l'immobile per abbatterlo e costruire al suo posto un condominio. L'oste non intende vendere, e dunque ecco giungere in soccorso del palazzinaro una stramba figura in costume: Superciuk! Il supercriminale dà immediata dimostrazione del suo potere: alita una micidiale fiatata alcoolica in grado di stendere qualsiasi avversario. Poi, dà fuoco alla bicocca in modo che l'oste sia costretto a cedere il terreno, e prima di andarsene lascia sul muro una strana scritta: "Superciuk ruba ai poveri per donare ai ricchi". Nei giorni che seguono, il supercriminale continua a colpire a vantaggio dei bene abbienti: anche la sede del Gruppo TNT viene razziata e addirittura Bob Rock si vede spogliare della sua amata mantellina. 

In occasione dell’avvento di Superciuk, sui n° 26, 27 e 28 di Alan Ford, per la prima volta una storia del Gruppo TNT si snoda su tre albi consecutivi, anziché essere autoconclusiva. Superciuk in realtà si chiama Ezechiele Bluff e fa lo spazzino per scelta, non per necessità, essendo stato educato per questa sacra missione dai due genitori Marta e Orazio, netturbini pure loro, morti prematuramente dopo essere stati travolti dalle auto mentre spazzavano l'autostrada di notte (un retroscena, questo, che verrà raccontato soltanto in seguito). Con il tempo, il loro figlio ha accumulato un vero e proprio odio verso i proletari che insozzano le strade. I poveri sono maleducati e sporcaccioni, e imbrattano quelle vie che poi lui, come spazzino, è costretto a ramazzare. I ricchi invece, lindi ed educati, hanno il culto dell'igiene e della pulizia. In seguito all'esplosione delle cisterne di una azienda sofisticatrice, Ezechiele viene investito da un fiume di vino adulterato. Acquista così il potere della pestilenziale fiatata alcoolica, con la quale riesce a stordire ogni essere vivente. Nella sua baracca in riva all'Hudson, si cuce un costume fatto di stracci e dà vita a Superciuk, vendicatore dei ceti abbienti contro il lerciume dei proletari. E' un Robin Hood alla rovescia: ruba ai poveri per donare ai ricchi. Le motivazioni che muovono Superciuk sottolineano il netto dualismo fra miserabili e benestanti che contraddistingue la poetica a fumetti  di Max Bunker. L'umana solidarietà non esiste, l'unica legge è quella dell' homo homini lupus: l'ottica deformante dell'umorismo bunkeriano porta alle estreme conseguenze la divisione fra le classi.

L'incidente che ha permesso a Superciuk di acquistare i suoi superpoteri è una divertente parodia delle modalità con cui i supereroi Marvel (e la maggior parte dei loro supernemici) hanno ottenuto i propri. I Fantastici Quattro subiscono gli effetti di un bombardamento di raggi cosmici, Devil viene travolto da un fusto radioattivo, Hulk assorbe le radiazioni di una bomba gamma, il dottor Octopus ugualmente rimane vittima di uno scoppio in un laboratorio, eccetera. Va notato che, come direttore della Editoriale Corno e con il suo vero nome di Luciano Secchi, Max Bunker da poco più di un anno aveva cominciato a pubblicare in Italia i principali personaggi di Stan Lee, cominciando con Spiderman e Daredevil.  Qualche anno più tardi, sul numero 171 di Eureka dato settembre 1977, Max Bunker svela i retroscena dell’esplosione delle cisterne della “Multata Fabbrica di Vini Sofisticati” (così recita un cartello sul muro di cinta) con una breve storia fuori-serie di otto tavole intitolata "Le origini di Superciuk", disegnata da Paolo Chiarini.  Di questo raccontino extra esistono comunque due versioni: inizialmente Bunker e Chiarini ne avevano realizzata una in formato strip (otto strisce di quattro vignette ciascuna) destinata alla pubblicazione su un quotidiano. Naufragato il progetto (per un cambio di direttore della testata), la storia fu adattata per Eureka. Sia la prima che la seconda versione compaiono, per i più curiosi, nel Supplemento del Venticinquennale edito nel 1994 dalla MBP, ma in ogni caso tutto il resoconto del travagliato passato di Ezechiele Bluff è contenuto nell’albo n° 144, intitolato “La fiatata mortale”, datato giugno 1991, che contestualizza e perfeziona l’intera vicenda.


Tra i vari colpi di Superciuk, assolutamente indimenticabili sono i due messi a segno in rapida successione subito dopo la distruzione dell’osteria. Il primo è ai danni di una famiglia proletaria (affollata infatti di bambini, con il padre in canottiera e la madre precocemente invecchiata), abbagliata dal consumismo e decisa a comprare un frigorifero anche senza avere niente da metterci dentro. La seconda ha come vittima un bambino  povero che possiede un unico soldatino di piombo, rubato da Superciuk e prontamente donato a uno ricco al quale quel pezzo mancava per completare la sua collezione. Inutile il dire che il pargolo benestante non si sente ugualmente appagato, e si dichiara mortalmente infelice mettendosi subito a desiderare qualcos’altro. 

Mentre Superciuk imperversa per le strade di New York, i popolani insorgono contro l'Ispettore Brok, capo della polizia cittadina, accusato di bolsaggine e inefficienza: il poliziotto si reca così da tre maggiorenti dell'Amministrazione Comunale chiedendo congrui rinforzi per assicurare il criminale alcoolico alla giustizia. Ma i tre politici non sembrano dare importanza alla minaccia dello sbevazzone mascherato, e non solo mettono l’ispettore alla porta senza dare seguito alle sue richieste, ma addirittura subito dopo brindano a Superciuk e alla sua benemerita azione contro il proletariato. Brok e i tre Amministratori Comunali sono qui alla loro prima apparizione. Come suggerisce il nome, Brok è un poliziotto incompetente e buono a nulla: perciò, deve ricorrere spesso all'aiuto del Numero Uno. E’ proprio la sua intelligenza non troppo acuta, però, a conservargli il posto, in quanto risulta facilmente manovrabile dai potenti. Solitamente pavido e vigliacco, portato all'autocommiserazione tipica del povero diavolo alle prese con problemi più grandi di lui, Brok incarna alla perfezione, come una maschera della commedia dell’arte, quello che il comune cittadino, di fronte  al dilagare della delinquenza, pensa solitamente dei tutori dell’ordine: che siano inadeguati. 

I tre Amministratori, ugualmente, sono eterni simboli della burocrazia e del potere corrotto. Prototipo, archetipo e paradigma dell'uomo politico, dei tre non è mai stato rivelato il nome. Il soprannome di Tre Suini con cui a volte si identificano, deriva dall'aspetto fisico che li accomuna. Tutti e tre pensano alla stessa maniera e replicano gli stessi gesti: il Potere, infatti, si manifesta sempre nel medesimo modo, chiunque ne sia il rappresentante. E’ del tutto indifferente il partito di appartenenza: gli amministratori sono ladri e corrotti per definizione, intenti ad abbuffarsi al trogolo del proprio tornaconto (da qui la metafora suina), e la vox populi vuole che i politici al potere siano tutti uguali (da qui l'assoluta somiglianza d'aspetto).  Il trio non esita a macchiarsi di ogni nefandezza pur di conservare poltrona e privilegi. Li vediamo viscidi e servili davanti a ricchi e potenti; invece trattano come pezze da piedi i sottoposti. Il loro peggior nemico è il Numero Uno, che, come vedremo, sa tutto di una misteriosa pratica "Lacrima Christi" relativa a una losca vicenda che li vede coinvolti, con cui riesce a ricattarli.