martedì 29 marzo 2011

MA CON GRAN PENA LE RECA JULIA

Come fare per imparare a memoria l'esatta successione delle varie parti delle Alpi e cioè Marittime, Cozie, Graie, Pennine, Lepontine, Retiche, Carniche e Giulie? Ai miei tempi, la maestra ci faceva imparare a memoria la frase "Ma co(n) gra(n) pen(a) le reca giù", dove ogni sillaba rimanda mnemonicamente a una sezione dell'arco alpino.

Oggi mi è venuto in mente (la mia deformazione enigmistica è ormai sperimentata, risaputa e spero tollerata) che la stessa frase cela un indovinello di ambito bonelliano: ma con gran pena le reca Ju(lia). Che cosa? Le soluzioni dei suoi casi, sempre sofferte.

Tutto questo per arrivare a parlare del centocinquantesimo albo di Julia, evento che non poteva suggire (e infatti non è sfuggito) al nostro bravo e attentissimo Saverio Ceri, titolare della rubrica "Diamo i numeri". La penultima volta che Saverio è stato nostro ospite (sperando che voglia continuare a esserlo a lungo, magari anche incrementando i suoi interventi), alle sue sempre interessanti statistiche dedicate a Magico Vento, avevo fatto seguire una intervista da me realizzata a Gianfranco Manfredi in occasione dell'uscita del primo numero del personaggio, e apparsa su Dime Press. Dato che, sulla stessa rivista, comparve anche una intervista a Giancarlo Berardi (che io ritengo il più bravo sceneggiatore del mondo, come ho scritto una volta dedicandogli un articolo) da lui rilasciata subito dopo la pubblicazione del numero uno di Julia, troverete in appendice le mie domande e le sue risposte.

Diamo i numeri 7

CENTOCINQUANTA
SFUMATURE DI GIALLO
di Saverio Ceri

Il centocinquantesimo non è un albo che viene solitamente festeggiato in casa Bonelli, e anche stavolta, nel caso di Julia 150, apparentemente è stato così. Mi piace pensare, però, che in un certo senso un piccolo omaggio ci sia stato. Un doveroso riconoscimento a Laura Zuccheri, disegnatrice principale della serie (unico caso, tra le serie bonelliane in corso, di una donna disegnatrice al vertice di una classifica di tavole realizzate), che avrebbe meritato anche di realizzare il centesimo albo a colori se non ci fosse stato tra i collaboratori della serie anche Giorgio Trevisan, indiscutibile maestro del settore.

Approfittando di questo traguardo “intermedio” diamo un’occhiata ai numeri raggiunti dalla serie nei suoi 12 anni e mezzo di vita editoriale. Con 19464 tavole (quota 20000 è prevista per luglio) su 156 albi (150 della serie regolare più 6 almanacchi del giallo dal 2005 a oggi) Julia è oggi la decima serie bonelliana di tutti i tempi per quantità di tavole pubblicate; lo sarà ancora per pochi giorni visto che col numero di aprile sorpasserà il Comandante Mark fermo a quota 19552 tavole, istallandosi al nono posto. Il prossimo personaggio nel mirino della criminologa è il collega Nick Raider, attualmente ottavo; Julia lo raggiungerà tra poco più di un anno diventando così la principale serie “gialla” di Casa Bonelli.

Decisamente ristretto il numero degli scrittori che Berardi ha scelto per narrare le gesta di Julia. 6 gli sceneggiatori, ma oltre il 95% delle tavole è stato realizzato da soltanto 3 autori. Il creatore della serie del resto segue la sua creatura con attenzione, lo dimostrano oltre 10000 tavole al suo attivo (il 54% del totale), e il fatto che tutti i soggetti portano la sua firma. Inoltre da 138 albi anche tutte le sceneggiature recano il suo nome. Proprio per mantenere un’uniformità stilistica della serie Berardi si affida quasi esclusivamente a due soli collaboratori, l’ultima tavola che porta una firma diversa dai tre principali scrittori risale al numero 106 del 2007. La cura che il creatore del personaggio dedica alla protagonista gli impedisce di realizzare episodi tutti da solo; sono infatti solo 15 le avventure che recano il solo nome di Berardi tra gli sceneggiatori, e l’ultima risale al numero 53! Questa la graduatoria completa:

1° Berardi 10488 tavole

2° Mantero 4404

3° Calza 3564

4° De Nardo 840

5° Ghè 105

6° D'Antonio 63

In realtà al numero degli sceneggiatori andrebbero aggiunti anche Claudia Salvatori e Michelangelo La Neve che hanno “collaborato” rispettivamente alle storie di due e di un albo, ma non essendo quantificabile in tavole la loro collaborazione non risultano in classifica.

Più folta la schiera dei disegnatori chiamati ad illustrare le quasi 20000 tavole di Julia, ben 28, tra i quali 4 di lingua ispanica. Da segnalare anche la presenza nel gruppo di un big del fumetto internazionale: Sergio Toppi. La reginetta di questa graduatoria è Laura Zuccheri, unica donna, dicevamo, tra i vari leader delle classifiche delle pagine disegnate delle serie Bonelli in corso, e con un ultradecennale carriera editoriale. In realtà se andiamo a spulciare tra le serie chiuse, troviamo che in un altro caso non solo il primo posto, ma anche il secondo, è occupato da una rappresentante del gentil sesso. In attesa di dedicare una puntata ai numeri in rosa della casa editrice, lascio a voi il compito di indovinare di quale serie si tratta.
Passiamo alle cifre:

1° Zuccheri 2288 tavole

2° Enio 1995

3° Piccoli 1868

4° Michelazzo 1512

5° Jannì 1428

6° Zaghi 1417

7° Antinori 1197

8° Piccioni 1113

9° Boraley 1018

10° Campi 756

11° Caracuzzo 630

12° Marinetti 546

12° Trevisan 546

14° Pittaluga 472,5

15° Soldi 388,5

16° Siniscalchi 378

16° Foderà 378

18° Dall'Agnol 252

19° Macagno 220,5

20° Vannini 189

21° Trigo 168

22° Roi 126

22° Toppi 126

22° Seijas 126

22° Mattone 126

26° Leoni 94,5

27° Calcaterra 63

28° Spadoni 42

Anche in questa graduatoria dovrebbe esistere un ulteriore riga, il 29° posto occupato da un “collaboratore” di cui ci è impossibile quantificare l’entità della collaborazione. Si tratta dello sceneggiatore Maurizio Mantero, che ha già dato prova in passato di essere anche un valido disegnatore. Per Julia ha momentaneamente posato le sue matite (o le sue chine?) sulle tavole del decimo albo della serie.

Alle classifiche generali si arriva sommando di numero in numero, di anno in anno le tavole realizzate dai vari autori. Esiste, pertanto, anche una classifica annuale degli sceneggiatori e dei disegnatori. Inutile dire che tra gli scrittori la classifica parziale annuale è sempre stata vinta da Giancarlo Berardi dal 1998 a oggi: il suo anno più prolifico è stato il 2001 con 1197 tavole.

Più variegato l’albo d’oro annuale dei disegnatori:

1998 Roi-Trigo-Vannini 126 tavole

1999 Caracuzzo-Siniscalchi-Zuccheri 252

2000 Caracuzzo 252

2001 Enio-Zuccheri 252

2002 Enio-Janni 252

2003 Michelazzo-Piccoli-Zaghi 252

2004 Jannì- Zuccheri 252

2005 Zuccheri 220

2006 Enio Michelazzo 252

2007 Zuccheri 220

2008 Piccoli 252

2009 Michelazzo 252

2010 Enio 252

Laura Zuccheri ha “vinto” in 5 anni su 13 la graduatoria, seguita da Enio Legisamon con 4 successi e Ernesto Michelazzo con 3. A differenza delle altre serie, il copertinista della serie regolare non corrisponde con quello degli almanacchi. Perciò nella breve graduatoria di questa categoria troviamo al comando Marco Soldi con 150 cover, seguito da Laura Zuccheri con 6 copertine.

Alcune curiosità: il lettering è uno degli aspetti di cui Berardi ama prendersi particolarmente cura; generalmente preferisce che la mano che scrive nelle nuvolette sia unica, nel caso si Julia, la mano è quella di Maria Pejrano che ha al suo attivo 115 albi, il 76% del totale; a riempire il restante 24% ci pensa quasi esclusivamente Marina Sanfelice (32 albi), che, soprattutto nel periodo iniziale ha affiancato Pejrano; solo 2 albi per Alessandra Belletti e 1 per Viviana Spreafico. Nessuna indicazione invece per le autrici del lettering dei sei almanacchi.

L’avventura più lunga si può considerare la trilogia che ha aperto la serie: 378 pagine. Le storie più corte le 6 dedicate alla giovane Julia, apparse sugli almanacchi: 94 pagine. L’albo realizzato a più mani (ben 12 mani!!!) è il numero 81 di Berardi e Mantero alla macchina da scrivere e di Leoni, Macagno, Pittaluga e Soldi ai pennelli.

Tutto sommato questo centocinquantesimo albo una particolarità c’è l’ha: è stato scritto dai due principali sceneggiatori, disegnato dalla principale disegnatrice, “copertinato” dal principale copertinista e letterato dalla principale letterista: non male per un numero che di solito non viene festeggiato. Alla prossima.

Saverio Ceri

INTERVISTA A GIANCARLO BERARDI
da Dime Press (1998)

Dime Press - Quali sono state le ragioni della scelta
di un personaggio femminile come protagonista della serie?


Giancarlo Berardi – E’ stata un’evoluzione naturale. Nelle mie storie precedenti, e in particolare nella saga di Ken Parker, l’attenzione al mondo muliebre era diventato quasi una costante. Per un uomo, compenetrarsi nella psicologia di una donna, è come scandagliare un mistero affascinante e terribile; entrare in un mondo alieno e imparare a interpretarne il linguaggio. L’arte del racconto è fondamentalmente un atto di mimesi. E quello di rappresentare l’eterno femminino ha illustri e antichissimi precedenti nell’arte, nel teatro, e nella letteratura. La mia generazione è stata cresciuta con una forte differenziazione tra i due sessi: il maschio doveva essere maschio nelle sue caratteristiche esteriori come in quelle interiori. E così la femmina. Un modello culturale che diventava un invito pressante a disfarsi di quella percentuale dell’altro sesso che ogni essere umano si porta dentro. Con gli anni ho capito che era un impoverimento. Quindi ho preso a coltivare la mia parte femminile con grande cura. Oggi la identifico con la sensibilità, con la percezione e con la fantasia creativa.

DP - Julia assomiglia molto all’attrice Audrey Hepburn. Perché questa scelta?

GB - A cinque-sei anni, Audrey Hepburn è stato il mio primo amore cinematografico. E il primo amore non si scorda mai.

DM - Parlaci un po’ del cast dei comprimari della protagonista. Chi sono e quale sarà la loro funzione nelle storie di Julia?

GB - In questa serie (ma forse in tutte) i comprimari sono fondamentali. Trattandosi di una narrazione realistica, basata sul metodo oggettivo, la protagonista è quanto più possibile la rappresentazione di un essere umano normale. Per intendersi, non ha conoscenze o poteri superomistici, non pratica le arti marziali e non sa usare le armi da fuoco. Le sue doti sono l’intelligenza, la professionalità, la capacità d’immedesimazione, l’intuizione. Il contesto, però, resta quello noir , in cui avvengono delitti particolarmente efferati. Da cui la necessità per Julia di avere rapporti con la polizia (il tenente Alan Webb e il sergente “Big” Ben Irving), e di essere affiancata da un investigatore privato, atletico e capace di menare le mani (Leo Baxter). La nera Emily, invece – come la gattina persiana Toni – fa parte del nucleo familiare, nella doppia veste di collaboratrice domestica e di “tata” coccolona.

DB - Nella sua prima avventura, Julia deve affrontare un “serial killer”, una figura che, da alcuni anni, i mass media, il cinema e la letteratura hanno portato alla ribalta. Quale sarà l’approccio di Julia verso questo materiale?

GB - Il suo approccio al problema dei serial killer è squisitamente scientifico e aggiornato. Tiene conto, cioè, degli ultimi studi e delle statistiche elaborate dai vari centri che studiano il comportamento criminale umano. La tecnica è quella del profilo psicologico, messa a punto dall’F.B.I.; ma la spinta determinante, che permette a Julia di immedesimarsi anche con gli individui più aberranti, viene da un fortissimo desiderio di empatia, una propensione a capire i propri simili (capire, non giustificare), scevra da ogni pregiudizio. In questo senso, Julia è una vera e propria detective dell’anima.

DP - Già a partire dal primo numero della serie, ti trovi a maneggiare un argomento piuttosto scottante e scabroso, drammaticamente reale. Con quale approccio ti sei avvicinato a questa materia?

GB - Nel modo più sereno. Con la consapevolezza che qualunque argomento può essere trattato in maniera efficace, senza ferire la sensibilità dei lettori. Certo, per ottenere un effetto di realismo, una qualche dose di violenza è inevitabile, ma non va mai estrapolata dal contesto. Voglio dire: è funzionale alla storia e non fine a se stessa.

DP - E’ vero che, per la preparazione della serie, tu hai frequentato per alcuni mesi un corso universitario di criminologia? Se sì, in che modo questo ‘ti ha aiutato nella realizzazione della serie?

GB - Sì, ho frequentato l’Istituto di Medicina Legale di Genova, come auditore. Oltre ad essere consulente della procura di Garden City, Julia insegna criminologia all’università, quindi è stata un’occasione straordinaria per approfondire le mie cognizioni in materia e per verificare di persona l’approccio didattico di un vero criminologo. In più ho avuto la possibilità di consultare la sterminata biblioteca dell’istituto, da cui ho tratto indicazioni per formare un mio nutrito scaffale, con testi di psicologia, sociologia, psichiatria, psicanalisi, medicina legale, balistica e criminologia. A questi si sono aggiunti poi i romanzi, i resoconti di cronaca vera, i documentari, i film… un repertorio sterminato in cui continuo a pescare con la voracità del neofita e lo scrupolo del professionista.

DP - I ‘serial killer’ rappresenteranno le figure centrali delle storie di Julia, oppure la vedremo alle prese anche con casi criminali di altra natura?

GB - Julia sarà alle prese con le devianze e i delitti più disparati. Gli stessi, alle volte incredibili, che ci offre la cronaca di tutti i giorni. Con in più un approfondimento dei motivi e dei personaggi coinvolti. A mio modo di vedere, dovrebbe trattarsi di un viaggio nel lato oscuro dell’uomo, per conoscere meglio gli altri e noi stessi.

DP - Ci sono modelli cinematografici o letterari ai quali ti sei ispirato nella creazione di “Julia”? Mi vengono in mente, per esempio, la Jodie Foster de “Il silenzio degli innocenti” e, per la letteratura, la Kay Scarpetta protagonista dei romanzi di Patricia Cornwell...

GB - I miei ricordi cinematografici e letterari risalgono ancora più in là nel tempo: a “M”, di Fritz Lang; a “Psycho”, di Robert Bloch-Alfred Hitchcock”; a “Lo strangolatore di Boston”, di Richard Fleischer; a “Non si maltrattano così le signore”, di William Goldman. Il romanzo poliziesco, nei suoi vari sottogeneri – tra cui la Crime Story – ha sempre avuto un ampio spazio nelle mie letture, tanto che da ragazzo dedicai la mia tesi di laurea alla “Sociologia del Romanzo Poliziesco”. Sono debitore nei confronti di migliaia di libri e di film; troppi, per citarli tutti.

DP - Nel numero uno della serie, Julia affida le proprie impressioni alle pagine di un diario. Questo “espediente” narrativo sarà una presenza costante nelle storie di “Julia”?

GB - Un vero e proprio leit motiv, direi. Le annotazioni diaristiche di Julia mi permettono di approfondirne i pensieri e le emozioni, superando i limiti rigorosi della narrazione oggettiva. Ma è anche un omaggio alla scuola californiana del romanzo poliziesco – capitanata da Hammett e da Chandler – che privilegiava il racconto in prima persona.

DP - Le storie di Julia avranno un formato un po’ particolare rispetto alla tradizione bonelliana: 126 pagine contro le consuete 94. Perché questa scelta? Ci saranno storie divise in due o più parti? Oppure la formula sarà quella delle storie autoconclusive?

GB - L’aumento del numero delle pagine è una necessità legata al tipo di storie e alla peculiarità della mia scrittura. È molto difficile sviluppare una vicenda a suspense in 94 pagine. Non c’è lo spazio materiale per mettere in scena i personaggi, per farli agire, per approfondire le psicologie. Con un trentaduesimo in più, invece, si può lavorare anche sul ritmo, che è importantissimo. In musica, gli accenti, le pause, le accelerazioni, e i conseguenti rallentamenti costituiscono il fascino di un brano. Lo stesso vale per ogni tipo di racconto. La respirazione di chi legge dovrebbe aumentare o diminuire in sintonia con la storia.

DP - Parlaci dello staff di disegnatori che lavoreranno alla serie.

GB - In questa prima fase di lavoro abbiamo assemblato un team di disegnatori di grande caratura. Secondo la tradizione della Sergio Bonelli Editore, consolidata ormai da lungo tempo, abbiamo unito talenti conclamati ad altri in via di affermazione. Così (in ordine di apparizione), i primi dodici numeri sono stati illustrati da Luca Vannini, Corrado Roi, Gustavo Trigo, Piero Dall’Ágnol, Laura Zuccheri, Marco Soldi, Luigi Siniscalchi, Giorgio Trevisàn, Giancarlo Caracuzzo, Valerio Piccioni, Sergio Toppi, e Federico Antinori. E altri si stanno aggiungendo. Nonostante le difficoltà, e non sono poche, di questa nuova serie, si è creato tra tutti i collaboratori un bel clima di cooperazione, e talvolta di amicizia, che è già una prima risposta positiva all’impegno profuso dall’editore e dal sottoscritto.

DP - Ci saranno altri sceneggiatori che ti affiancheranno nel lavoro di scrittura delle storie?

GB - Un numero di pagine così elevato per albo richiede naturalmente l’apporto di altri sceneggiatori. Così, nel primo anno di programmazione, sono stato affiancato da Maurizio Mantero e da Giuseppe De Nardo. Ma sono al lavoro anche Gino D’antonio, Michelangelo La Neve e Claudia Salvatori.

DP - Julia introdurrà delle novità anche a livello grafico? La copertina, per esempio, o, più in generale, il “look” della serie.

GB - Sì, la grafica della copertina e il logo sono piuttosto innovativi rispetto alle altre testate bonelliane. Si è voluto sottolineare il fatto che si tratta di una serie noir, ammiccando alla tradizione del genere e cercando allo stesso tempo di rinnovarla. La professionalità di Nico Zardo ha poi tradotto il tutto in un prodotto di grande suggestione. Le copertine di Marco Soldi faranno il resto. Anche all’interno ci sono novità. Le vignette saranno molto regolari, come uno schermo cinematografico o televisivo. In questo modo, ritengo che il lettore potrà concentrarsi maggiormente sulla recitazione dei personaggi e sulla storia, senza essere distratto da grafismi, spesso eccellenti, ma talvolta un po’ compiaciuti e fini a se stessi.

DP - Sergio Bonelli Editore pubblica già da alcuni anni una serie poliziesca, “Nick Raider”. In che cosa Julia si differenzierà da questa serie già esistente?

GB - “Nick Raider” è una delle mie serie preferite. Molti anni fa ne scrissi anche un episodio, il numero 18, se non sbaglio. Ai miei occhi, il suo fascino consiste nell’aver ricreato un atmosfera da romanzo poliziesco anni 50-60, nella tradizione di Ed McBain. In Julia ci sarà una maggiore attenzione alla metodologia e alla tecnologia dei moderni corpi investigativi, oltre che alla psicopatologia criminale. E poi c’è lei, la protagonista, con quel suo miscuglio di fragilità e di decisione, con quegli occhioni a mandorla che penetrano in profondità, e quell’aspetto così sexy…

DP - Parlaci dell’ambientazione delle storie.

GB - Julia vive a Garden City, che è una cittadina americana fittizia, posta più o meno nel New Jersey, a un’ora d’auto da New York. Le sue strade portano nomi di fiori, in contrasto con la crudezza di certi crimini che vi hanno luogo. È un set di comodo, dove ho potuto concentrare un microcosmo umano che fa da sfondo alle investigazioni di Julia. New York è troppo grande e dispersiva; non vivendoci, si corre il rischio di banalizzarla o di incorrere in errori grossolani.

DP - Nella prima storia di Julia, ritroviamo citata una famosa canzone, “You Make Me Feel (Like a natural woman)”. Come sarà la “colonna sonora” della tua serie?

GB - La musica è una parte importante nella mia vita. Tanti anni fa cominciai proprio come musicista e oggi, a trent’anni di distanza, in concomitanza con la nuova serie, ho ripreso a strimpellare in prima persona. Tutto questo non poteva non riversarsi in Julia. La sua colonna sonora abbraccia un raggio molto ampio, che va da Schuman – Julia suona il pianoforte – a Carol King, ai Rolling Stones, a Bob Marley… e forse, prossimamente, a Eric Clapton e agli Eels, che mi tengono compagnia in questo periodo.

DP - E per finire, Ken Parker. In futuro avremo ancora occasione di leggere una storia di questo tuo amatissimo personaggio?

GB - Ken Parker ha riempito i miei pensieri per quasi venticinque anni. Puoi immaginare cosa significhi per me. Attualmente, alcune traversie ne hanno decretato la chiusura. Questo è già successo altre volte. E ogni volta Lungo Fucile è ritornato a cavalcare nelle edicole. In questo momento non ci sono i presupposti, ma un domani… chissà?

sabato 26 marzo 2011

SONO STATO A SAN VITTORE

C'è un racconto molto bello, di cui però non ricordo né il titolo né l'autore, in cui si narra di un uomo che muore e si trova davanti al giudizio divino, quello che dovrà stabilire se merita l'inferno o il paradiso. Con sua grande sorpresa, il defunto vede che i giudici sono tre uomini come lui, vestiti con una toga come nei tribunali terrestri, e Dio c'è ma è lì solo come testimone. I giudici interrogano Dio e gli fanno domande del tipo: "è vero che costui una volta ha tradito la moglie?". E Dio: "sì". "E' vero che ha rubato dal garage del vicino?". E Dio: "sì". Alla fine dell'interrogatorio i giudici si ritirano per deliberare, e il defunto, rimasto solo con Dio, chiede spiegazioni. "Perché devo essere giudicato da tre uomini? Non sei tu, Dio, il supremo giudice?". E Dio risponde: "io sono Dio, e so tutto. Per questo non posso fare altro che il testimone. Io so quello che hai fatto, ma so anche perché l'hai fatto. So quanto sei debole, quanto hanno influito le cattive compagnie, so perché eri disperato quella sera, o cosa volevi dimenticare quando hai bevuto quel giorno. Più uno sa, più comprende. E più comprende, meno può giudicare e condannare. Io che so tutto non posso emettere sentenze. Per giudicare e condannare ci vogliono uomini piccoli, gretti, limitati, ottusi come te. Solo chi sa poco, può sentenziare". I giudici rientrano, spediscono il defunto all'inferno, e dicono: avanti un altro.


Se c'è un lavoro che mai potrei fare, è il giudice. Quello che emette le sentenze, intendo. Magari potrei fare l'investigatore, anzi, forse mi piacerebbe pure, vista la mia passione per i gialli. Ma già decidere di arrestare qualcuno e metterlo in carcere, toglierlo alla sua famiglia e alla sua vita, rovinargli probabilmente l'esistenza o comunque segnargliela per tutto il resto della vita, ecco, non vorrei essere io a doverlo fare. Figuriamoci poi stabilire se strappare un figlio a una madre (come talvolta certi giudici sono chiamati a fare), o se dare l'ergastolo o anche solo vent'anni, o dieci anni, a qualcuno. E se poi fosse innocente? No, al massimo potrei fare indagini e interrogatori, presentare i risultati a gente convinta di saperli valutare e a quel punto tirarmi indietro. Credo che sia un lavoro molto triste, quello del giudice. Se chi lo fa lo fa (come dovrebbe) con la consapevolezza di avere tra le mani il destino di un suo simile, non c'è giorno in cui uno possa recarsi in tribunale sereno, o momento in cui non tornino alla coscienza i dubbi (avrò deciso bene? Avrò deciso male?).


Ovviamente non ho niente contro i giudici, anzi, capisco che sono indispensabili e che quel lavoro qualcuno lo deve pur fare. Ma ecco, mi sembra superiore alla mia capacità di sopportazione e sono lieto di non doverlo fare io. Spero che chi lo fa, lo faccia con coscienza e convinzione, quasi con spirito missionario, per dare il suo contributo al funzionamento della società. Spero anche che abbia le spalle larghe per portarne il peso, che a me sembra intollerabile. Mi auguro che nessuno emetta sentenza con la leggerezza con cui si appongono dei timbri o, peggio, si senta superiore rispetto al resto del genere umano. Anche se si deve condannare qualcuno perché quello la condanna se la merita, il momento del verdetto non può mai essere gioioso: comunque sia è una sconfitta, perché sarebbe tanto bello poter fare a meno dei giudici e viene dimostrato una volta di più che non è possibile.

C'è un motivo per cui, proprio oggi, faccio questa riflessione. Giovedì scorso, 24 marzo 2011, verso mezzogiorno e mezzo, sono stato per la prima volta in carcere. Ho sentito chiudersi dietro di me le sbarre di San Vittore, e gli agenti di polizia penitenziaria mi hanno scortato all'interno. Per fortuna, alle tre del pomeriggio mi hanno anche fatto uscire, dopo avermi trattato con molto riguardo. Non ero lì in seguito a un arresto o a una condanna, ma per un incontro con un gruppo di detenuti. Diciamo una conferenza, come tante mi capita di farne, ma in un luogo particolare e di fronte a un pubblico speciale.

Una delle educatrici del carcere, la dottoressa Michela De Ceglia, specializzata nelle attività di sostegno e di formazione dei reclusi, si è messa in contatto con me e mi ha chiesto, alcuni mesi fa, se ero disponibile a due incontri all'interno di San Vittore, durante i quali avrei parlato di fumetti e del mio lavoro, presentando alcune delle mie storie. Il tutto, ci tengo a dirlo, a titolo gratuito: come servizio verso chi vive un momento drammatico della propria vita e potrebbe essere aiutato a superarlo e non vederlo ripetere mai più. Ho accettato senza esitazione e così ho fatto la prima conferenza e presto farò la seconda. La Casa editrice mi ha aiutato regalando quaranta Maxi Zagor alla biblioteca di San Vittore: venti copie di "Agenti Segreti" e venti de "L'uomo nel mirino", che ho portato personalmente nel carcere (previa autorizzazione).


Non avevo la minima idea di che cosa mi attendesse e che tipo di feedback avrei avuto confrontandomi con un'umanità sicuramente sofferente, e che impressione mi avrebbe fatto trovarmi all'interno di un carcere. Ho attraversato il famoso punto centrale da cui di diramano i bracci del carcere, e la dottoressa che mi ha accolto all'ingresso mi ha guidato verso una sala conferenze posta vicino alla biblioteca. Mentre ci arrivavamo, mi ha spiegato come funzionano le cose. Non ho potuto portare con me il telefonino e dunque non ho foto da mostrarvi (quelle che vedete a corredo di questo articolo o sono prese da Internet o si riferiscono a mie conferenze tenute in altre occasioni). Però, almeno limitatamente alle zone del carcere che ho attraversato io, ho visto ambienti puliti e persino un clima abbastanza rilassato. Ho saputo che molti detenuti lavorano all'interno della struttura e vengono pagati per ciò che fanno: c'è chi fa l'addetto alla vendita nel mini market, chi si occupa dei libri, chi fa le pulizie, chi organizza iniziative per i suoi compagni. Alcuni settori hanno celle aperte, in altri sono chiuse. All'interno, mi hanno detto gli stessi detenuti, possono esserci quattro o sei letti, con un bagno e una doccia. San Vittore non è un carcere per pene di lunga detenzione: ci si viene rinchiusi se la condanna è a pochi anni o se si è in attesa del verdetto finale con la destinazione in altri penitenziari.

Le mie due conferenze sono inserite in un programma di incontri che prevede la visita in carcere di vari scrittori che si sono resi disponibili, alcuni per parlare delle proprie opere, altri per leggere o spiegare libri altrui. Mi sono organizzato con un CD di immagini da far vedere su un televisore, così da poter parlare, come di solito faccio, commentando foto e disegni. Ho salutato una per una, dando una stretta di mano a ognuno, le persone (una trentina) che si sono presentate nella sala (che non ne poteva contenere di più). Tutti, ovviamente, erano lì per loro scelta e mi è stato detto che ci sono sempre molte richieste per questo tipo di incontri, ci sono detenuti che non se ne perdono uno. Si trattava di uomini, di età (apparente) fra i venti e i quaranta anni, tutti in grado di capire e parlare perfettamente l'italiano anche se alcuni avevano nomi arabi, che ciascuno ha tenuto a dirmi. I miei interlocutori erano tutti sorridenti, gentili e cordiali: immagino che in altre circostanze capiti loro di essere depressi o disperati, ma all'incontro sono venuti come a un momento di divertimento.

A ciascuno ho regalato un albo a fumetti, e sono certo di averli fatti felici: "davvero è per me?", mi chiedevano, "posso tenerlo?". Per i reclusi, mi ha spiegato la dottoressa, sono importanti anche le piccole cose, le minime dimostrazioni di solidarietà, l'attenzione verso di loro. Tutti sapevano benissimo cos'erano i fumetti, la maggior parte conosceva Zagor ed era in grado di citare con cognizione di causa altri personaggi come Dylan Dog o Alan Ford, Lupo Alberto o Tex. Non solo: tutti sono stati attenti dal primo all'ultimo minuto dell'incontro, intervenendo con domande e osservazioni molto acute. C'è stato anche un momento che mi ha riempito di soddisfazione perché, sfogliando "L'uomo nel mirino", uno dei detenuti si è imbattuto nel personaggio di Badal, l'addestratore dell'elefante Shiva, che si rivolge al pachiderma dando degli ordini in una lingua incomprensibile. Tutti avranno pensato che mi sia inventato le parole. Invece, uno dei presenti ha detto: "Ma questo è hindi!", e ha tradotto il senso della frase: "Vieni, Shiva, è ora di andare a mangiare". In effetti, nello scrivere quella sequenza, mi ero documentato sulle parole che usano gli addestratori di elefanti e le avevo citate con precisione. Non so perché quel brillante detenuto conoscesse l'hindi, ma sono stato lieto che non gli sia sfuggito il mio sforzo di documentazione.

L'argomento della mia conferenza non era comunque l'incontro di Zagor con Tocqueville e con Andrew Jackson (di cui si racconta nei due Maxi che ho portato a San Vittore) ma il linguaggio del fumetto e le potenzialità del suo codice espressivo, in grado di raccontare con efficacia qualsiasi cosa senza alcuna sudditanza verso gli altri medium. Hanno molto colpito alcune tavole di Ken Parker e di Dino Battaglia che ho mostrato sullo schermo.


Alla fine, i detenuti sono usciti a mio avviso molto contenti delle due ore passate insieme e alcuni mi hanno persino chiesto un autografo sugli albi che ho regalato loro. Nessuno li ha scortati e nessuno li ha controllati entrando e uscendo dalla stanza, e non c'erano guardie ad assistere all'incontro: eravamo soltanto io, la dottoressa e i reclusi.


Il clima è stato però assolutamente rilassato, e l'interesse senza dubbio più alto di quanto capita di solito se si parla, per esempio, a una scolaresca (anche se io mi vanto di riuscire, nei limiti del possibile, a tenere alta l'attenzione anche delle classi più svogliate, almeno per un'oretta - poi c'è comunque un crollo fisiologico dell'uditorio).

Sono uscito molto soddisfatto. Non mi tiro mai indietro se c'è da prestarmi per iniziative di solidarietà e mi capita spesso di venire coinvolto, tuttavia non faccio parte di una specifica attività di volontariato. Però, credo che ci siano poche cose nella vita che fanno bene allo spirito più che darsi da fare per aiutare gli altri, quelli che davvero hanno bisogno del nostro aiuto. E' un argomento che mi sta a cuore e su cui potremmo tornare.

Se ci sono altri autori disposti a incontrare i detenuti, sarò lieto di metterli in contatto con chi ha invitato me.

mercoledì 23 marzo 2011

DOMANI SMETTO

Per un vecchio fanzinaro come il sottoscritto (fanzinaro una volta, fanzinaro per sempre) sfogliare una rivista amatoriale è sempre un richiamo irresistibile, come per Roger Rabbit cantare "ammazza la vecchia col flit". Avete voglia di farmi vedere i più fantasmagorici siti Internet: io mi imbambolo ancora davanti alle pagine dalla grafica approssimativa ma trasudanti entusiasmo di chi si sporca le mani di inchiostro. E non ho mai smesso di scrivere, ovviamente gratis, articoli per tutte le piccole testate (magari semiclandestine) che me lo hanno chiesto. E' più forte di me. "Ci scrivi un intervento su....?", chiede il redattore di turno. "Sì!", rispondo io, prima ancora di sapere su che cosa. E' richiamo della foresta. Sono trent'anni che intervengo e non mi riesce di smettere, neppure con l'agopuntura. Penso che riproporrò, di tanto in tanto, qualcuno di quei pezzi su questo blog. Ho pensato di cominciare, però, con una delle ultime cose che ho scritto per una fanzine, visto che l'argomento riguarda il "mestiere di scrivere" di cui ho parlato in diverse occasioni.

Sono almeno tre le fanzine italiane (stampate su carta, intendo) dedicate a Zagor. Si tratta del "Giornale di Darkwood", organo dello Zagortenay Club, "SCLS Magazine", espressione del forum spiritoconlascure.it, e "Zagortenay", coloratissima voce del forum ZTN. Proprio su quest'ultima testata è comparso l'articolo che segue, pubblicato in due puntate. Spero che vi diverta come, mi hanno detto, ha divertito i lettori della rivista.


IL MESTIERE DI SCRIVERE
di Moreno Burattini


Probabilmente c'è più gente che crede ai fantasmi di quanta sappia che esistono gli sceneggiatori di fumetti. La maggior parte dei ragazzi, ormai, i fumetti non sanno neppure che esistono, e questo è un dato di fatto: vivono soltanto di cartoni animati e videogiochi e la cosa più vicina a un fumetto di cui hanno cognizione sono le istruzioni di montaggio delle sorpresine Kinder.

Ma tralasciando queste forme di vita inferiore e dedicandoci a quelle più evolute, indubbiamente (soprattutto fra chi ha più di venti anni e non ha avuto un'infanzia digitale), c'è una certa percentuale di persone a conoscenza del fatto che ci sono pubblicazioni stampate su carta in cui si raccontano avventure di personaggi disegnati. Fra costoro, si arriva a concepire che esistano dei disegnatori: dato che i fumetti sono disegnati, logicamente c'è chi lo deve aver fatto. In realtà, qualcuno continua a credere che le vignette vengano tracciate da un computer o fatte in serie con dei timbri sagomati: una volta, un tale, dopo avergli rivelato che Tex e Topolino erano realizzati a mano, mi ha guardato incredulo e ha sbottato: "Davvero? Credevo che li facessero con gli stampini". Però, con un minimo di riflessione, seguendo i pensieri che vengono in mente la notte quando si guardano le stelle e ci si interroga sul senso della vita, taluni riescono a concepire che i fumetti possano pure essere stati disegnati a mano. Però, oltre non si va. I fumetti li fa uno, e uno solo, il fumettaro, e se si riesce a credere che un'entità del genere esista, questo spiega tutto. Ma gli sceneggiatori di fumetti vanno oltre il ponderabile. Trascendono il senso comune delle cose. Se i fumetti li crea il disegnatore, costui è già il motore immobile aristotelico e non c'è bisogno di una entità precedente.


Invece, dovete sapete che, per quanto sembri impossibile, i fumetti non sono disegnati con il computer, non sono fatti con lo stampino, e non sono (quasi mai) frutto del lavoro di una sola persona ma di almeno un paio.
A questo punto facciamo subito una prima fondamentale distinzione. Coloro che lavorano nel mondo del fumetto si dividono principalmente in due grandi famiglie: autori dei testi, coloro cioè che inventano una storia e la raccontano dividendola in vignette, e disegnatori, che si occupano di illustrare quanto sceneggiato dai primi. In realtà non è così semplice, dato che a volte gli sceneggiatori sono persone diverse dai soggettisti, e i disegnatori possono divedersi in matististi, inchiostratori e coloristi, e poi ci sono i letteristi, i grafici e gli editor. Ma per iniziare, e non confondervi le idee ci limiteremo per ora a parlare di sceneggiatori e disegnatori. Chi scrive, appartiene alla prima categoria. Sono, appunto, una di quelle persone di cui pochissimi sospettano l'esistenza.
Da qui la difficoltà di far capire ai non iniziati in cosa consista il mio mestiere. Se alla domanda: "Di cosa ti occupi?" rispondo genericamente di lavorare nel campo del fumetto, l'interrogativo successivo sarà: "Ah! E cosa disegni?". E' fisiologico. Com'è facile immaginare, questa domanda getta nello sconforto gli sceneggiatori, che con un moto di orgoglio si affannano a spiegare che no, loro non disegnano, loro sono quelli che scrivono i testi. Seguono stupore e meraviglia degli astanti, i quali proprio non immaginavano che per quelle quattro parole racchiuse nelle nuvolette servisse addirittura una sceneggiatura. D'altro canto, se alla fatidica domanda si cerca di tagliar corto rispondendo "sono uno sceneggiatore", si crea tutta una serie di equivoci a base di: "Davvero? Del cinema?". "No". "Allora della televisione? Ho visto qualcosa che hai fatto tu? Sceneggiati?". "No". "Allora fiction?". "No". "Sit-com?". "No". E ad ogni no il povero autore si fa sempre più piccolo, fino a quando è costretto ad ammettere che sceneggia fumetti, provocando la reazione delusa e stizzita dei suoi interlocutori.


Molti di coloro che leggevano i fumetti da bambini, ne hanno poi abbandonato la lettura quando si sono accorti che era più divertente correre dietro alle ragazze (sono d'accordo, ma l'una cosa non esclude l'altra). Costoro, di solito, sono convinti che i fumetti abbiano cessato di venire stampati quando loro hanno smesso di leggerli. "Zagor? Davvero esce ancora?". No, ci sarebbe da rispondere, lo mandavano in edicola soltanto per te. Altri invece, sia pure in minoranza, i fumetti hanno continuato a leggerli, forse per consolarsi di non aver mai raggiunto la ragazza cui correvano dietro. Oppure, per consolarsi del fatto di averla raggiunta.
In ogni caso, i lettori di fumetti (ex o ancora praticanti che siano) sembrano gli unici in grado di contemplare la possibilità che esistano gli sceneggiatori e che i disegnatori possano averne bisogno. Gli sceneggiatori esistono, facciamocene una ragione. Ma da qui al riuscire a immaginare come effettivamente si svolge il lavoro di chi scrive, e in che cosa si differenzi da quello di chi disegna, ce ne corre.

Un ipotetico sondaggio fra gli abituali acquirenti di albi a fumetti dimostrerebbe che più si immaginano gli autori al lavoro tutti insieme appassionatamente in redazioni colorate, ilari e giulive. C'è un divertente film di Paolo Villaggio del 1982, intitolato "Sogni mostruosamente proibiti", in cui il protagonista veste i panni di un disegnatore di fumetti, Paolo Coniglio, che tutte le mattine va a lavorare negli uffici della Casa editrice, e lì incontra gli altri colleghi, ognuno impegnato su un personaggio diverso: per la redazione girano figuranti in costume (chi da orso, chi da guerriero, chi da supereroe) che fanno da modelli per le avventure in fase di realizzazione, e il terrore di Coniglio è essere trasferito dall'eroina Dalia, di cui si occupa, all'Uomo Lupo.

E' appunto così che i non addetti ai lavori suppongono che vadano le cose, immaginando la redazione Disney piena di paperi e di topi in posa per i disegnatori, quella di Dylan Dog popolata da gente in costume da mostro e da zombi, e quelle dove si fanno i fumetti porno come le più divertente da visitare. Ma soprattutto, i lettori si immaginano tutti i disegnatori che disegnano alle loro scrivanie, uno accanto all'altro, prestandosi il temperamatite in cambio del righello e magari facendosi dispetti con le cerbottane o gli schizzi di inchiostro quando il direttore non guarda. Possiamo garantire che non è così. Negli uffici dell'editore di Lupo Alberto non c'è nessuna segretaria travestita da Gallina Marta.

La realtà è davvero molto diversa. Nelle Case editrici ci sono soltanto impiegati che smistano fatture e buste paga, lettere e bollette, contratti e ricevute. I lettori che suonano alla porta della Bonelli sperando che il campanello faccia "ARRGGH" e che venga ad aprire qualcuno truccato da Groucho, restano tutti molto delusi apprendendo che non c'è neppure un disegnatore per farsi fare un disegnino con dedica. A volte, disperati, ne chiedono uno alla signora delle pulizie o un fattorino, pur di non tornare a casa a mani vuote. Dove sono, dunque, i disegnatori e gli sceneggiatori? E' quello che vorrebbero sapere anche gli editori, quando gli autori non rispettano i tempi di consegna e non si fanno trovare al telefono. Comunque, in linea di massima, disegnatori e sceneggiatori lavorano stando a casa propria. Ovvero, il più delle volte stanno a casa propria senza lavorare, perché non ne hanno voglia o perché non trovano l'ispirazione (e quando non la si trova si può stare anche per ore a fissare con sguardo vacuo lo schermo del computer o il tavolo da disegno). Il fatto che ognuno lavori isolato aggrava la situazione: l'autore si ritrova solo, senza nemmeno il conforto di poter scambiare qualche pettegolezzo con i colleghi alla macchinetta del caffè.

Nessuno può immaginare l'abisso di solitudine di un autore senza idee davanti a un foglio bianco un uno studio deserto. Alla disperata ricerca di contatti umani, il nostro eroe è costretto a uscire di casa e raggiungere il bar più vicino (molti autori iniziano a fumare proprio per avere una scusa che li faccia uscire spesso), dove attaccano bottone con chiunque pur di scambiare qualche parola con un cristiano, e finiscono a fare comunella con i pensionati che giocano a carte o parlare a un barbone su una panchina del parco (il barbone il più delle volte se ne va e il fumettaro resta a parlare da solo). Se invece l'autore è un uomo sposato e con figli e lavora in casa con la moglie e la prole, il bar più vicino lo raggiunge in fuga dai contatti umani. Continueremo a parlarne, se qualcuno mi sta ascoltando (almeno un barbone).

lunedì 21 marzo 2011

IL DIZIONARIO DEL DIAVOLO

Nel lungo e interessante dibattito seguito nei commenti al mio post "Nudo di donna" mi è capitato di accennare al "Dizionario del diavolo"di Ambrose Bierce, e di citarne a memoria un paio di definizioni. Sono perciò andato, per sommo scrupolo, al controllarne l'esattezza direttamente alla fonte, e cioè sull'edizione integrale (oltre trecento pagine) dell'opera, che io ho nei tipi de La Spiga (1995) tradotta da Giuliano Acunzoli, e che fa parte della mia collezione di libri di aforismi.

Mi sono divertito moltissimo nel rileggere le definizioni folgoranti di Bierce e ho deciso di sceglierne un po' da condividere con voi. Non prima però di avervi ricordato come lo scrittore americano (nato nell'Ohio nel 1842) sia il protagonista assoluto (più dello stesso titolare di testata) di un memorabile albo di Ken Parker, il cinquantesimo, intitolato "Storie di Soldati", in cui Lungo Fucile incontra proprio lo stesso Bierce che gli narra un po' dei suoi racconti.

E' l'espediente con cui Giancarlo Berardi riesce, meritoriamente, a sceneggiare a fumetti dei folgoranti classici della narrativa americana, capolavori nell'ambito delle short stories e della letteratura western ma anche della letteratura tout court. Bierce visse in prima persona gli orrori della guerra di Secessione, e da questa sua esperienza nacquero i suoi Tales of soldiers and civilians, cioè i "Racconti di soldati e civili". Lo scrittore fu anche un maestro nel campo del fantastico, del soprannaturale, del macabro e dell'orrore. Lasciato l'esercito, si trasferì a San Francisco dove cominciò a fare il giornalista: diventato celebre per i suoi attacchi a uomini politici e di malaffare, era costretto a girare per le strade con una fondina e una pistola dato che in parecchi avrebbero voluto fargli la pelle.

Probabilmente lo scrittore è davvero morto prematuramente, forse nel 1914 in Messico dove si era recato come reporter per seguire la guerra civile di Pancho Villa ed Emiliano Zapata, ma nessuno ha mai potuto darne conferma: la sua scomparsa durante la battaglia di Ojinaga resta un mistero.

Non a caso se ne è occupato anche Martin Mystére, con l'episodio "La cosa da un altro mondo", del 1988, sceneggiato da quel grande scrittore di fantascienza che è Pier Francesco Prosperi. Lì si ipotizza che Bierce si sia stato attaccato da una creatura extraterrestre protagonista di uno dei suo racconti, "La cosa maledetta". E' singolare comunque che Bierce avesse affermato, un giorno, che nessuno sarebbe stato in grado di ritrovare le sue ossa dopo la sua morte.

Riguardo il "Dizionario del Diavolo", che è un vero e proprio compendio di folgoranti definizioni di singole parole, dalla A alla Z, lo stesso scrittore così scrive nella sua prefazione all'opera "Il Dizionario del Diavolo vide la luce nel 1881 sulle pagine di un settimanale, per poi venire continuato in modo saltuario fino al 1906".



DAL DIZIONARIO DEL DIAVOLO
di Ambrose Bierce (1842-1914)

Aborigeni: individui di scarso valore che ingombrano le terre appena scoperte dall'uomo civile.

Adorare: venerare aspettandosi qualcosa in cambio.

Aiutare: il modo più sicuro per creare un ingrato.

Ambidestro: persona in grado di rubare con entrambe le mani.

Amicizia: una barca capace di portare due persone con mare calmo, ma una sola con il mare grosso.

Amnistia: magnanimità dello stato verso quei criminali che sarebbe troppo costoso punire.

Anno: periodo composto da 365 delusioni.

Aria: sostanza dispensata a piene mani dalla Provvidenza per sfamare i poveri.

Assurdità: un'opinione manifestamente in contrasto con le nostre idee.

Barometro: ingegnoso strumento che serve a confermare che tempo sta facendo.

Bellezza: il potere grazie al quale una donna affascina l'amante e terrorizza il marito.

Buffone: individuo che sporge querela.

Cannone: strumento impiegato per rettificare i confini di una nazione.

Capitale: sede del malgoverno.

Chiaroveggente: chi ha il potere di vedere quel che sfugge al suo cliente, cioè il fatto che sia un gonzo.

Confidente: uno che racconta ad A i segreti di B dopo averli sentiti da C.

Conoscente: persona che conosciamo abbastanza per chiedergli un prestito, ma non a sufficienza per prestargli alcunché.

Consultare: chiedere il parere di qualcuno su una cosa già decisa.

Davvero: apparentemente.

Destino: circostanza invocata per spiegare gli insuccessi.

Discussione: sistema per confermare agli altri che hanno torto.

Egocentrico: uomo dai gusti volgari che si interessa più a sé che a me.

Elettore: colui che gode del privilegio di votare un candidato scelto da qualcun altro.

Empietà: indifferenza altrui per le nostre divinità.

Farmacista: il complice del dottore.

Gentilezza: breve prefazione a dieci volumi di arroganza.
Giorno: periodo di ventiquattr'ore sprecate.

Giustizia: bene di consumo falso e adulterato che lo Stato vende ai cittadini in cambio di buone e autentiche tasse.

Governo monarchico: qualsiasi governo.

Idiota: membro di una vasta e potentissina casta la cui grande influenza da sempre domina e controlla le umane faccende.

Imbrattacarte: scrittore le cui idee sono in antagonismo con le nostre.

Imparziale: incapace di vedere i vantaggi personali che potrebbe ottenere abbracciando una delle parti.

Indifeso: impossibilitato ad attaccare.

Infedele: a New York, uno che non è cristiano; a Costantinopoli, uno che lo è.

Insurrezione: rivoluzione non coronata da successo.

Legale: compatibile con la volontà di un giudice.

Libertà: esenzione dai vincoli dell'autorità in una miserabile mezza dozzina di casi.

Longevità: prolungamento della paura di morire.

Magia: miracolosa capacità di trasformare la superstizione in denaro.

Matrimonio: piccola comunità consistente in un padrone, una padrona e due schiavi. In tutto, comunque due persone.

Mendicante: uno che ha confidato nell'aiuto degli amici.

Mulatto: bambino nato da due razze, che si vergogna di entrambe.

Opportunità: occasione favorevole per ricevere una delusione.

Pace: periodo di imbrogli tra due guerre.

Patriota: uno per cui gli interessi di una parte contano più degli interessi dell'insieme.

Pedone: per un'automobile, la parte variabile di una carreggiata.

Pianificare: scervellarsi sul modo migliore per conseguire un risultato accidentale.

Pignolo: critico del nostro lavoro.

Presente: quella parte d'eternità che divide il regno della delusione da quello della speranza.

Presidente: figura dominante di un piccolo gruppo di uomini che sanno, senza ombra di dubbio, che un numero immenso di cittadini non voleva nessuno di loro alla Presidenza.

Prezzo: il valore di una cosa, più una ragionevole somma per il dispiacere di doverla vendere.

Rabdomante: uno che grazie a un bastone divinatorio riesce a scoprire metalli preziosi nelle tasche dei gonzi.

Recluta: persona che si distingue da un civile per la sua uniforme e da un soldato per il suo passo.

Residente: impossibilitato a partire.

Ribelle: fautore di un diverso malgoverno, che non è riuscito a instaurare.

Riforma: cambiamento studiato per soddisfare chi si oppone ai cambiamenti.

R.I.P. : Ridotto in Polvere.

Riposare: smettere di disturbare.

Rivoluzione: brusco cambiamento nella forma di malgoverno.

Schiena: parte del corpo degli amici che ammiriamo nei momenti di sfortuna.

Scimmia: animale arboreo che vive sul nostro albero genealogico.

Sciocchezze: obiezioni sollevate contro di noi.

Scusarsi: gettare le basi per una futura offesa.

Seccatore: persona che parla invece di ascoltarci.

Senzatetto: uno che ha pagato tutte le imposte sulla casa.

Signorina: donna ancora sul mercato.

Tollerare: sopportare, mentre si cova un piano segreto di tremenda vendetta.

Tregua: amicizia.

Tumulto: divertimento popolare offerto ai poliziotti da molti passanti innocenti.

Ultimatum: ultima richiesta prima di fare concessioni.

Vino: il secondo dono di Dio all'uomo.

Vita: salamoia spirituale che impedisce al corpo di decomporsi.

Volgarità: il linguaggio di chi ci critica.

Zelo: disturbo nervoso che colpisce i giovani e gli inesperti.

sabato 19 marzo 2011

PADRE NOSTRO

Una cosa che racconto spesso parlando di mio padre, è della sua sostanziale incapacità di capire che cosa io faccia davvero di lavoro. Lui, che è stato fornaio per una vita (e anche a me è capitato di passare parecchie notti a farci il pane insieme), non sa spiegare ai suoi amici o ai nostri lontani parenti in che consista quel mio gran darmi da fare, che mi porta in giro fra la Toscana e la Lombardia ma poi anche qua e là per l'Italia e talvolta persino all'estero. Si è sempre meravigliato che io non apprezzassi il posto fisso e con un buono stipendio che avevo prima di iniziare a lavorare per la Bonelli, e quando gli dissi che mi ero licenziato per scrivere fumetti, ha sgranato gli occhi come se avessi fatto outing e lo stessi informando che andavo a convivere con un travestito.


A distanza di vent'anni, se ne è fatta una ragione e forse si è anche convinto che non avevo tutti i torti, ma ugualmente non ha le idee molto chiare su quel che faccio per guadagnarmi da campare. Così, tiene in casa il primo Zagor che gli ho portato con sopra stampato il mio nome, e quando qualcuno gli chiede: "ma Moreno, che lavoro fa?", lui tira fuori l'albo, lo mostra e risponde rassegnato: "Fa... fa questo!".


Qualche tempo fa, un settimanale fiorentino intitolato "Metropoli" ha pubblicato una mia intervista intitolandola "Il figlio del fornaio nel regno dei fumetti" e lui si è commosso. Non è mai facile, credo, il rapporto di un uomo con suo padre. Si passa dall'adorazione che si ha verso di lui quando si è bambini, alla conflittualità degli anni dell'adolescenza, in un continuo alternarsi di alti e bassi quando si cerca di camminare con le nostre gambe e ci si scontra con i suoi consigli, che spesso non sono quelli che vorremmo sentirci dire, o con la sua ostilità quando prendiamo strade diverse da quelle che lui vorrebbe vederci imboccare. Temiamo sempre il suo giudizio anche se fingiamo di non tenerlo in considerazione perché tanto lui non può capire. Non gli diciamo mai che gli vogliamo bene, perché gli uomini si vergognano a dirlo. Però poi, invecchiando, ed è quello che succede a me in questi anni, ci guardiamo allo specchio e vediamo riflessa non la nostra, ma la sua faccia.

Quando mio padre ha compiuto settant'anni, gli ho scritto un biglietto che dice proprio questo.

Ogni mattina,
guardandomi allo specchio,
mi accorgo di quanto ti assomiglio, babbo.
E non ne sono sorpreso,
perché non ti assomiglio solo fuori,
ma anche, e tanto, dentro.

Come scrisse Vico Faggi in un suo verso, "Scopro in me la presenza di mio padre". Sono andato a recuperare un libretto del 1996 che sapevo di avere da qualche parte. Si intitola "A mio padre", e ha per sottotitolo "Le più belle poesie dei poeti italiani" (Newton & Compton), a cura di Luciano Lusi. Si tratta di una antologia di un centinaio di poesie dedicate al padre da un'ottantina di poeti e poetesse italiani, limitata però a quelli del Novecento (il più vecchio è Giovanni Pascoli, classe 1855). Ammetto, a mio disdoro, che per un buon ottanta per cento si tratta di nomi a me ignoti. Accanto a qualcuno più conosciuto, come Alfonso Gatto, Umberto Saba, Camillo Sbarbaro, Dario Bellezza o Piero Bigongiari, ecco Elena Clementelli o Giovanni Cristini o Tiziano Rossi, di cui vorrei sapere di più.

Ecco il testo in quarta di copertina: "Amato, temuto, ricordato, il padre è una delle figure più forti e presenti nella poesia di ogni tempo. La voce dei poeti del nostro secolo lo celebra in questa bella antologia, inno corale di straordinaria intensità. Un padre cui si rimprovera spesso l'assenza, e il cui comportamento determina talvolta il disamore e persino il disprezzo e l'odio. Ma anche un padre che viene cercato, magari soltanto nella memoria di lontane tenerezze, o in forme sostitutive che sanno svelarci - e molti poeti qui lo fanno esplicitamente - il bisogno della sua attenta presenza al nostro fianco".



Alcune poesie lasciano il groppo in gola, e stupisce come in molti abbiano scritto le loro liriche ricordando e piangendo il padre morto, più che parlandone di lui in vita. Il conflitto è sempre presente, come però l'ineluttibilità del legame. Toccante, da questo punto di vista, quella brevissima di Libero Bigiaretti:

Sei sceso sottoterra,
io aspetto la mia ora.
Tra noi non c'è più guerra
ma mi ferisci ancora.

Mi piacerebbe citarne tante, di poesie, ma so che non è questo luogo. Però, almeno una lasciatemela ricopiare. Perché è bellissima, la più bella scritta sull'argomento che io abbia letto. O forse mi sembra così bella soltanto perché, semplicemente, dice le cose che io vorrei dire al mio babbo e cioè che se anche mio padre non fosse mio padre, se anche fosse un estraneo, per com'è, per il suo "cuor fanciullo", lo amerei lo stesso. Beh, vorrei che anche i miei figli pensassero, un giorno, questa cosa di me.
La poesia che segue è di Camillo Sbarbaro, risale al 1914 e si intitola "Padre, se anche tu non fossi il mio".

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t'amerei.

Ché mi ricordo d'un mattin d'inverno
che la prima viola sull'opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l'appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.

E di quell'altra volta mi ricordo
che la sorella mia, piccola ancora,
per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia aveva fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura, ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l'attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l'avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo che eri il tu di prima.

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t'amerei.


(il disegno di Zagor che vede fra le fronde degli alberi il volto del padre è di Joevito Nuccio)

giovedì 17 marzo 2011

L'ALBO DEL MESE

Gli iscritti della mailing list "Ayaaaak" votano ogni mese le storie a fumetti delle testate bonelliane e di quelle "bonellidi", cioè pubblicate da altre case editrici ma con formati simili a quello della Bonelli. Periodicamente vengono poi resi noti i risultati. I voti espresso sui titoli datati gennaio 2011 hanno decretato "albo del mese" il mio Maxi Zagor "La banda aerea", disegnato dai fratelli Di Vitto che, dunque, possono festeggiare con me questo risultato.

Prevengo subito l'obiezione secondo la quale se una mailing list si chiama "Ayaaaak" vuol dire che è frequentata soprattutto da zagoriani. Non è assolutamente così, come ben sanno tutti quelli che vi partecipano, e anzi una delle mie recriminazioni più frequenti è che vi si parli più di John Doe che dello Spirito con la Scure, dato che i fan dell'eroe di Darkwood sono concentrati soprattutto nei due attivissimi forum italiani presenti in rete. Anzi, dato che su "Ayaaaak" la concentrazione di zagoriani è così bassa, ogni risultato ottenuto vale il doppio. Un'altra obiezione che sento fare è questa: si tratta di voti senza importanza perché espressi, in fondo, da poche persone. Verissimo. Ma allora anche i sondaggi di opinione fatti intervistando mille nominativi e poi esibiti con grande enfasi durante le trasmissioni TV si basano su campioni minimi rispetto ai milioni di italiani che affollano la penisola: è chiaro che l'opinione di chi si esprime rappresenta quella di moltissimi che non si esprimono e che ci saranno espressioni manifestate pro e contro proporzionali a quelle non manifestate. In ogni caso, un giudizio positivo espresso in pubblico, fosse anche di una sola persona, fa sempre piacere. Quando c'è un critico che parla bene di noi davanti a un uditorio, non è comunque un risultato di cui essere contenti? Eppure è il parere di una sola persona. E per concludere, che importa in quanti votano? Il conforto anche di un unico sostenitore fa sempre bene al cuore in un mondo dove le parole di apprezzamento sono sempre rare (e per questo preziose) e dove spesso ci sentiamo inadeguati e incompresi. Si tratta, in ogni caso, di un gioco: io sono contento anche se vinco una partita a Risiko.
Ecco comunque la classifica così come è stata pubblicata.

I voti di Gennaio 2011

Albo del Mese:
MAXI ZAGOR #15 La banda aerea 8,6

Ottimo Lavoro:
DYLAN DOG #293 Gli ultimi immortali 8,4
DAMPYR #130 La casa delle cicogne 8,3
Valter Buio #11 Riservami un valzer 8,1

Molto Bravi:
ZAGOR #546 (Zenith 597) Il villaggio della follia 7,4

Bravi:
CASSIDY #9 Verso sud 7,1

Sufficiente:
ALMANACCO DEL WEST 2011 La città del Male 6,6
ASTEROIDE ARGO #4 Un nuovo inizio 6,4
TEX #603 Faccia di cuoio 6,2

Manca qualcosa:
JULIA #148 E tutto finì in cenere 5,9
NATHAN NEVER #234 Il margine 5,8
John Doe #4 Una scala nel cielo 5,7

Bocciato del mese:
Pinkerton S.A. #5 Per un pugno di dollari 4,4

Non è la prima volta che una mia storia raggiunge questo risultato, battendo dunque tutti gli altri albi bonelliani e bonellidi del mese. Nel febbraio e nel marzo del 2009, per esempio, ho ottenuto il primo posto per due mesi di fila, con "Zagor contro Mortimer"e "La grotta dei bucanieri". Nel dicembre del 2007 ho vinto la classifica con "Il gigante di pietra".

Ma ci sono stati anche molti piazzamenti al secondo posto, nella categoria degli "ottimi lavori", per esempio con "Il ritorno di Digging Bill" nel luglio del 2010, o con "Plenilunio" e "Buio rosso sangue" nel gennaio e nel febbraio dello stesso anno (altra accoppiata). Mi hanno giudicato "molto bravo" nel marzo e nell'agosto del 2010. Tralascio gli anni precedenti, limitandomi comunque ad annotare che anche le storie di altri sceneggiatori zagoriani sono state spesso molto apprezzate, e per esempio il Maxi di Luigi Mignacco "Il vendicatore nero", disegnato da Mauro Laurenti, è ugualmente risultato "albo del mese" nel gennaio dello scorso anno.

Per curiosità, sul sito di riferimento della mailing list è stata stilata una classifica delle serie più votate del 2010, contenente 29 testate. Zagor è al primo posto fra i Maxi e al settimo fra le collane regolari. Però, se si tolgono quelle non bonelliane o che non escono più, è terzo (secondo se si considera che Tex e Lilith - strana accoppiata matrimoniale - sono primi a pari merito). La classifica completa è questa:

Classifica serie 2010

1 Magico Vento 8,02
2 Valter Buio 7,82
3 Greystorm 7,77
4 Lilith 7,75
5 Tex 7,75
6 Jan Dix 7,70
7 Zagor 7,35
8 Cassidy 7,23
9 Rourke 7,17
10 Harry Moon 7,13
11 Dampyr 7,08
12 John Doe 6,97
13 Demian 6,65
14 Julia 6,65
15 Martin Mystere 6,59
16 Diabolik 6,50
17 Dylan Dog 6,18
18 Caravan 6,12
19 San Michele 5,85
20 Nathan Never 5,66
21 Brendon 5,20
22 Pinkerton S.A. 5,10
23 Factor V 4,15
24 Cornelio 3,90
25 Radairk 3,43

Miglior Maxi: Zagor
Miglior Almanacco: Martin Mystere
Miglior Gigante: Tex
Miglior Speciale: Dampyr


A proposito di apprezzamenti, chi era presente sabato 12 marzo a Cartoomics, e ha partecipato all'incontro zagoriano con cui abbiamo iniziato i festeggiamenti del cinquantennale dello Spirito con la Scure, sa qual è stato il calore con cui un folto pubblico ha accolto Sergio Bonelli e Gallieno Ferri, in mezzo a tanti altri autori (me compreso, che presentavo la conferenza e ho moderato il dibattito). La sala era piena, gli applausi continui, l'atmosfera gioiosa, non sono mancati i momenti di commozione (come quando uno dei figli di Ferri, Fulvio, ha ricordato la sua infanzia accanto al padre che disegnava le prime storie di Zagor) e di risate (come quando Sergio Bonelli ha fatto un numero di cabaret strapazzando la prima striscia originale appartenente al preoccupatissimo Marco Verni). Le foto che testimoniano quei momenti che vedete qua accanto sono opera del solito Marco "Baltorr" Corbetta.

Fra le cose che Bonelli ha detto c'è stata la conferma dell'incredibile tenuta delle vendite dello Spirito con la Scure in un contesto in cui tutte le tirature sono in calo. Personalmente, ho potuto dare notizia di alcune feste che si terranno in tutta Italia in occasione del cinquantennale, a partire da Parma per poi spostarci a Godega (Treviso), arrivando a Raiano (L'Aquila) e ballando poi sulla spiaggia di Rimini, soltanto per citare alcuni appuntamenti ormai certi, in cui sarà presente anche Graziano Romani con la sua band per proseguire il suo tour "Darkwood to Dreamland". Vi terrò aggiornati.

Proprio Graziano, anch'egli presente a Cartoomics, ha annunciato pubblicamente l'imminente uscita di un nuovo libro scritto a quattro mani con me. Dopo i saggi su Gallieno Ferri e Giovanni Ticci, la premiata ditta Burattini & Romani sta per uscire con un terzo titolo dedicato a Guido Nolitta, il creatore di Zagor e Mister No e lo sceneggiatore di alcune fra le più belle storie di Tex, e cioè lo stesso Sergio Bonelli. Se tutto va bene (incrociamo le dita) il libro, edito come al solito da Francesco Coniglio nella collana "Lezioni di fumetto", dovrebbe essere presentato a Napoli alla fine di aprile.

C'è un altro mio titolo in uscita, e si tratta di un romanzo. Il mio primo romanzo, addirittura: si tratta della raccolta in volume di una storia di Zagor scritta in prosa (una storia inedita, intendo, non la novelization di avventure già note) e apparsa a puntate sulla rivista Darkwood Monitor, molti anni fa: "Le mura di Jericho". Il testo è stato rivisto e corretto, e corredato di illustrazioni inedite, così come inedita sarà la copertina di Gallieno Ferri. A pubblicare il tutto, in primavera, sarà Cartoon Club, cioè la casa editrice di Fumo di China. Tornerò a parlarne a tempo debito.

Un'altra uscita che mi riguarda, sempre in primavera, sarà un Oscar Mondadori dedicato a Lupo Alberto, di cui ho firmato l'introduzione si richiesta e proposta dello stesso Silver, un autore con cui ho collaborato a lungo scrivendo decine e decine di storie del Lupo e di Cattivik ma anche decine e decine di articoli, redazionali, testi umoristici, rubriche per le sue testate. Sono contento di avergli lasciato un buon ricordo. "Quando rileggo le tue storie - mi ha detto di recente - le trovo sempre molto divertenti". Grazie della stima, Guido. A proposito di Cattivik e di Lupo Alberto, a Cartoomics ha incontrato di nuovo due vecchi amici che non vedevo da anni: Giorgio Sommacal e Laura Stroppi, disegnatori brillantissimi di molte delle mie sceneggiature per i personaggi silveriani. Laura è appena uscita con un nuovo, divertente albo del suo personaggio "Ghigo lo Sfigo", che vi consiglio assolutamente.


Vi consiglio anche di vedere le repliche della mia commedia "Il vedovo allegro", messa in scena dalla compagnia Recremisi di Ancona e che proseguono da oltre un anno. Credo che proprio durante la manifestazione zagoriana di Raiano sarà possibile vedere l'ultimo spettacolo a chiusura di una lunghissima turnée, presente l'autore. In questi giorni ho autorizzato una "traduzione" del testo in dialetto romagnolo e spero dunque di potervi dare presto la notizia di un nuovo allestimento (ma non diciamo gatto finché non è nel sacco). Chi volesse leggere il copione di questa mia fortunata opera teatrale, può scrivermi tramite i commenti in calce a questo articolo o lo può scaricare dagli appositi siti.

C'è altro? Oh, sì. Ci sarebbe da parlare del testo che sto scrivendo per l'introduzione allo zagorone, dell'articolo che ho già scritto per il catalogo della mostra zagoriana di Borrello, del libro su Cico che spero prima o poi di veder pubblicato dallo Zagor Club a cui l'ho consegnato da tempo, della storia su Massimo D'Azeglio che sto sceneggiando per una iniziativa di Lucca Comics legata ai festeggiamenti dell'Unità d'Italia e del lavoro di editor che porto avanti con una squadra di giovani autori impegnati con me nella medesima impresa, dell'enciclopedia zagoriana scritta dal mio amico turco Eren M. Paykal che mi sto interessando di far tradurre per cercare di pubblicarla anche in Italia. Ma sarà per un'altra volta.