lunedì 30 aprile 2012

GIUSTIZIA SOMMARIA



Mi è capitato più volte di parlare dei soggetti che sono alla base delle sceneggiature dei fumetti, e del lavoro che c'è dietro alla nascita di una storia. Ho accennato alle tante proposte che  arrivano sulla mia scrivania da parte di aspiranti autori, e ho dato dei consigli sul modo migliore di confezionarne una. Ho anche scherzato su quelli che, alla fine, il mio mestiere cominciano a farlo davvero e sulla vita che li attende. A forza di tornare sull'argomento, in più di uno mi hanno chiesto di pubblicare un mio soggetto, per vedere praticamente com'è che li scrivo. Ho promesso che l'avrei fatto entro la fine di aprile, e improvvisamente mi sono accorto che, in effetti, mancano poche ore allo scadere della promessa. Così, ecco qua un esempio scelto fra quelli più brevi, in modo che chi vuole possa davvero leggerlo dall'inizio alla fine riuscendo a capirci qualcosa anche senza aver letto gli albi di Zagor che ne sono venuti fuori. Si tratta della storia pubblicata sotto il titolo di "Giustizia sommaria", sugli Zagor Zenith 512 (dicembre 2003) e 523 (gennaio 2004), 136 tavole illustrate da Roberto D'Arcangelo. Non credo sia un'avventura particolarmente significativa, ma appunto per questo può servire meglio a dimostrare qual è lo standard di un racconto di "ordinaria amministrazione". In questo caso, dovendo far approvare il soggetto in redazione, ho scritto un testo abbastanza ben definito (a mio avviso, migliorato dallo sviluppo in sceneggiatura); oggi,  scrivo delle tracce molto più essenziali dato che ho acquisito una certa autonomia. Buona lettura!



GIUSTIZIA SOMMARIA

Soggetto per Zagor
di Moreno Burattini


Derry è un piccolo borgo cresciuto in pochi anni grazie al continuo afflusso di pionieri in cerca di nuove terre. La sua popolazione è eterogenea: famiglie giunte da ogni nazione europea con i flussi migratori che continuavano a trasferire gente in cerca di fortuna dal Vecchio Continente al Nuovo Mondo. Come accadeva in molti nuclei abitati di recente formazione, l'amministrazione statale non aveva ancora provveduto a crearvi le sue strutture periferiche: niente sindaco, niente telegrafo, niente sceriffo, almeno per il momento. I coloni di Derry si amministrano da soli, con assemblee pubbliche spesso dominate dall'irrazionalità.

Quando Zagor e Cico vi giungono per caso, una di queste assemblee è in corso: i più facinorosi tra i coloni stanno incitando la popolazione al linciaggio. Infatti, quattro o cinque bambini di Derry, nei precedenti mesi, sono scomparsi: l'ultimo rapimento è avvenuto il giorno prima. 

I sospetti di tutti sono puntati su una donna di origine ungherese (chiamata Margit Veszi) che vive in una capanna fuori paese, accusata di essere una strega soprattutto perché è "strana" e non appartiene alla comunità, viene da fuori, parla un'altra lingua, ha costumi diversi. La donna avrebbe rapito i piccoli utilizzandoli come vittime per le sue oscure pratiche negromantiche e le sue messe nere col demonio. 

Le famiglie dei piccoli scomparsi sono disperate, e i padri fomentano l'odio della gente contro la presunta strega. Una delle madri private del bambino, che chiameremo Shirley, non ha marito (è vedova): è la prima a cui è scomparso il figlio. E' l'unica che assiste alla scena restando muta, come impietrita. Zagor la nota, e la giudica positivamente per come viva il suo dolore con dignità, in silenzio, senza incitare alla vendetta.

La gente di Derry decide di mettere la strega al rogo.  C'è soltanto uno degli abitanti, tale Fosbury, che si oppone a questo tipo di processo sommario: lui la conosce e la ritiene un tipo strano, è vero, ma incapace di fare del male. I sostenitori dell'accusa però prendono il sopravvento, picchiano Fosbury per metterlo a tacere e si dirigono verso la casa della presunta strega per ucciderla.

Zagor interviene per evitare il linciaggio, e ci riesce solo asserragliandosi con Fosbury e Cico all'interno della casa di Margit Veszi: da lì minacciano con le armi chiunque tenti di avvicinarsi con torce e forconi. Zagor perquisisce la casa, trovando oggetti a dir poco inquietanti: libri con simboli strani, accessori di magia nera, resti carbonizzati di animali. In più la Margit Veszi non collabora: sembra essere fuori di testa, pronuncia discorsi dal senso ambiguo, pieni di oscuri riferimenti e preoccupanti minacce. Si potrebbe sospettare che sia davvero una strega! 

Fosbury continua a sostenere che la donna è così strana perchè ha subito numerosi shock: non ha mai accettato il trasferimento dalla sua terra natale al Nuovo Mondo, ha visto morire i genitori, eccetera. Gli indizi di pratiche negromantiche non dovevano confondere le idee: facevano parte della cultura originaria della donna, là in Ungheria, patria di molti zingari, certe cose sono comuni. Fosbury abita in una fattoria poco lontano e sua moglie ha spesso cercato di allacciare contatti con la povera donna sola e spaventata in un mondo ostile, e a volte c'è riuscita, vincendo la sua diffidenza, la difficoltà della lingua, il suo carattere scontroso.

La presunta strega, all'improvviso, cade come in trance e comincia a snocciolare frasi dal senso oscuro, ma che potrebbero essere indizi per ritrovare i bambini scomparsi. Il pericolo del linciaggio ha acuiti i sensi medianici che che donna possiede davvero. Non ha grandi poteri che vadano al di là di una vaga telepatia, ma fornisce a Zagor delle indicazioni per cominciare un'indagine.

Zagor parla agli abitanti di Derry: loro sono certo in gran numero e riusciranno prima o poi a catturare la donna, però in molti cadranno uccisi prima di riuscirci. Per evitare spargimenti di sangue, Zagor chiede un giorno di tempo per svolgere delle indagini e trovare i bambini scomparsi: se la sua inchiesta non darà frutti, la presunta strega sarà consegnata a chi la vuole uccidere. Gli abitanti di Derry che assediano la casa accettano. Fosbury e Cico restano a presidiare la costruzione, Zagor parte alla ricerca di indizi.

Intanto, attorno alla capanna, gli abitanti di Derry che stringono l'assedio sono molto nervosi e qualcuno comincia a chiedersi perchè attendere il ritorno di Zagor, dato che non ci sono dubbi sul fatto che l'ungherese sia la strega responsabile della scomparsa dei bambini. All'interno della costruzione, la donna, con gli occhi spiritati, fa strani riti magici evidentemente rivolti a danno degli assedianti. Cico guarda spaventato gli uomini fuori e la donna dentro e si chiede di chi debba avere più paura.

Le indagini di Zagor portano intanto sulle tracce di una banda di indiani: dalle oscure parole di Margit non si capisce che cosa c'entrino, ma potrebbero essere stati loro a rapire i bambini (a volte succedeva che i pellerossa lo facessero, o per farne schiavi, o per adottare dei figli dato che le tribù si spopolavano). Affrontati gli indiani (con uno scontro fisico, dato che i pellerossa, per un malinteso, non vogliono farsi avvicinare), Zagor riesce a interrogarli: costoro negano di sapere alcunchè dei bambini scomparsi.

Però, all'improvviso, uno degli indiani ricorda agli altri (e tutti lo ricordano) un episodio che li vide protagonisti, ma in senso positivo. Una donna bianca con un bambino erano finiti nel fiume, loro erano intervenuti per salvarli. Erano riusciti a evitare il peggio solo per la madre, il figlioletto era annegato. La donna era sconvolta, fuori di sè. Loro l'avevano lasciata sola con il suo dolore, a stringersi al petto il piccolo ormai morto. Dalla descrizione degli indiani, la donna è riconoscibile come Shirley, la vedova vista da Zagor a Derry.

Se dunque il figlio di Shirley è morto annegato, perchè la donna non l'ha detto? E che rapporto c'è fra questo fatto e la scomparsa degli altri piccoli? Zagor decide di raggiungere il più presto possibile la casa della vedova, che vive isolata in una fattoria fuori del paese. Lì, trova la donna completamente impazzita, che lo accoglie a fucilate per impedirgli di avvicinarsi alla casa. Lo Spirito con la Scure, naturalmente, riesce ad aver ragione della vedova e scopre il bandolo della matassa. Shirley, il cui equilibrio mentale era stato seriamente compromesso dalla morte del marito, era impazzita di dolore alla perdita del figlio. Incapace di arrendersi di fronte a quest'ultima scomparsa, aveva rapito uno a uno  quattro o cinque i figli degli altri abitanti di Derry, quasi per sostituire il proprio. I bambini erano tenuti prigionieri nella fattoria. 

Zagor libera i bambini, che sono stati accuditi con ogni cura dalla folle, e li riporta verso Derry insieme a Shirley, che prima di lasciare la propria casa, tornata lucida per qualche minuto, si reca a piangere sul punto dove ha sepolto il figlioletto morto.

Ma Zagor torna a Derry appena in tempo: prima che l'ultimatum sia scaduto, gli assedianti rompono gli indugi: assaltano la capanna, mettono fuori gioco Fosbury e Cico, si impossessano di Margit Veszi e, sempre più convinti che si tratti di una strega, la portano nella piazza principale del paese. Costruita una pira attorno alle sue gambe, le danno fuoco!

Zagor giunge in città con i bambini liberato proprio mentre la donna si contorce fra le prime fiamme lanciando maledizioni. Con orrore, Zagor balza sulla pira e la strappa  al rogo mentre gli abiti già le prendono fuoco, gettandola in un abbeveratoio. Quindi, rabbioso, mostra a tutti i bambini ancora vivi, prova inequivocabile che l' ungherese non era una strega nè era responsabile delle misteriose scomparse. Stavano per uccidere una innocente!  L'odio cieco e irrazionale degli abitanti di Derry non è diverso dalla follia della donna che, privata del marito e del figlio, ha rapito i bambini altrui!  

Restituiti alle loro famiglie i bambini portati in salvo, Zagor sale con Margit sul carro di Fosbury: la donna deve essere portata da un medico. Con loro prende posto anche la folle Shirley, vigilata da Cico. Il carro se ne va, lasciando Derry sgomenta a riflettere sull'accaduto.


venerdì 27 aprile 2012

COMICS & GAMES

Non ho mai capito fino in fondo l’accostamento che di solito si fa tra i fumetti e i videogiochi. Anche la più grande manifestazione fumettistica italiana si chiama, rendendomi da sempre abbastanza perplesso, Lucca Comics & Games. A me, i due mondi sembrano diversi e inconciliabili come il cavolo e la merenda, o come gli asparagi e l’immortalità dell’anima. Probabilmente, visto il pressoché universale parere opposto (il resto del mondo li accosta sempre come se fossero un tutt’uno), sono io che mi inganno e non pretendo di aver ragione. Però, lasciatemi spiegare (se non altro per potermi, poi, dare torto) i motivi della mia perplessità.


Un esempio delle opinioni che vanno per la maggiore potrebbe servire come punto di partenza. Qualche giorno fa, conversando con un amico al tavolo di un ristorante, mi sento proporre questa argomentazione: “Il fumetto è morto. I ragazzi lo hanno sostituito con i videogiochi. Lo vedo tutti i giorni guardando mio figlio. E’ sempre davanti alla playstation. I fumetti sono fermi, immobili, silenziosi. I videgames invece sono spettacolari e dinamici. Se usa un wargame, mio figlio non gioca a fare la guerra, FA la guerra: entra in un mondo virtuale che sembra vero, in uno scenario iperrealistico. Con una simile concorrenza, perché dovrebbe leggere un fumetto con i sonori ‘bang’ e ‘boom’ scritti sulla carta? Che poi, si sa, leggere costa anche fatica”. Chi fa una simile considerazione, dunque, crede che esistano le storie di guerra e che ci siano due modi di raccontarle: uno freddo, statico e magari in bianco e nero, faticoso da seguire (la narrazione su carta), e uno ipercinetico e ipersonorizzato, immediatamente coinvolgente (il videogioco).  Il secondo modo, sarebbe inevitabilmente preferibile al primo. Mi chiedo allora se un qualunque wargame debba essere preferibile a “Un anno sull’altipiano” di Emilio Lussu, o a “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Erich Maria Remarque, e se raccontino meglio la guerra questi due romanzi (ambientati entrambi durante il primo conflitto mondiale) o piuttosto un qualunque videogioco in cui il giocatore deve sparare ininterrottamente contro qualsiasi cosa si muova. E’ chiaro che si tratta di due cose completamente diverse, che rispondono a differenti esigenze. Accostare i fumetti ai games con l'approccio di cui ho dato un esempio sopra, significa ritenere che i videogiochi siano la forma più evoluta dei comics, come il film a colori lo è delle pellicole in bianco e nero. Logicamente le giovani generazioni li preferirebbero. Ma non è così. Non siamo di fronte a due fasi di una evoluzione per cui il fumetto è la pikaia gracilens (il primo cordato) e il videogioco l'homo sapiens (o l'homo superior). Comics e games sono entrambi evoluti allo stesso modo, lungo percorsi diversi e, secondo me, molto distanti.

Io, personalmente (e so di esprimere un’opinione del tutto privata che non mette in discussione la bellezza, la grandezza e la validità del lavoro e delle passioni altrui),  trovo noioso quello che vedo quando mi soffermo a guardare i ragazzi di casa che giocano a uccidere i nemici (mostri, alieni, poliziotti, zombi, titani o passanti che siano) sullo schermo del televisore: alla fine, mi sembra, quasi tutti i videogiochi si risolvono in una serie di avversari da far fuori uno dopo l’altro in un tripudio di schizzi di sangue. Se poi il gioco consiste invece nel giocare a calcio, nel pilotare un aereo o nel combattere uno scontro di wrestling, il supporto affabulatorio è ancora più inconsistente, la storia proprio non c’è. Mentre scrivo, mio figlio sta usando la playstation per correre un rally in automobile. Davvero questa esperienza può corrispondere alla lettura di Ken Parker, o di Maus o di una storia di Magnus?  Non vedo come si potrebbe sostenere. Un videogioco di cui ho sentito parlare con entusiasmo consiste nel cercare di fare a fette con una spada della frutta che ci viene lanciata contro. Non colgo l’essenza del divertimento (ma mi rendo conto che è un problema mio). Il bello (o il brutto) è che alla fine si annoiano anche i giocatori. Ho già raccontato di come i ragazzi spesso dichiarino di non sapere che fare, di annoiarsi a morte. “Leggi un libro, guarda un film, ascolta un disco, dipingi, fai una passeggiata, comincia a scrivere un diario con la storia della tua vita”, suggerisco. A me non capita mai di non sapere che cosa fare. Come si fa ad annoiarsi con la casa piena di libri? La risposta che ho ottenuto l’ultima volta che l’ho fatto notare, sia pur detta con un sorriso, è stata: “Come siamo diversi, noi due”. “E’ vero, siamo diversi. Io non mi annoio, tu sì”, ho risposto. Io ho una biblioteca, lui la raccolta completa di Super Mario

Mi si dirà che esistono dei videogiochi in cui si racconta una “storia”. E’ vero, e ho visto qualcosa. E’ il caso, mi sembra di poter dire, di “Assassin’s Creed”. Ciò non toglie che, alla fine, sempre di nemici da far fuori si tratta: Super Mario magari deve eliminare dei pasticcini volanti, in altri casi si devono squartare degli orchi, ma non si esce da lì. Grazie al cielo, i fumetti e i romanzi (due forme di racconto che invece mi sento di accostare tra loro), hanno orizzonti un po’ più ampi. Non vorrei essere frainteso. Non sostengo che i migliori videogames non siano ben realizzati e in grado di divertire gli appassionati del genere. Sono convinto che ci siano autori geniali, meritevoli di premi e riconoscimenti. Quel che contesto è la vicinanza o la sovrapponibilità tra la fruizione di un videogame e la quella di un fumetto.

Anche nel caso in cui un videogame racconti una “storia”, questa non ha niente a che vedere con la “fabula” che caratterizza la narrativa, disegnata o in prosa che sia. Il perché è evidente: la “storia” di un gioco elettronico viene fruita da ogni giocatore in un tempo diverso. Quanto duri un combattimento durante il game non lo stabilisce l’ideatore del gioco, ma il fruitore finale. Se uno è un po’ imbranato (come sarei io se mi cimentassi nell’impresa), per risolvere una situazione o salire di livello ci mette una vita. Ho visto giocatori aggirarsi spada in mano in un labirinto, in cerca di un’uscita, e impiegarci delle ore per trovarla, sempre ritornando sui loro passi, sempre vedendo lo stesso scenario, sempre sfuggendo alle stesse minacce. Che palle. Nei romanzi, nei fumetti, nei film, invece, è il regista che stabilisce la durata di una sequenza. E dunque è come se io dovessi scegliere se sia meglio una scena girata dal genio di Hitchcock (con i fotogrammi contati al minuto secondo per creare una certa suspance e una certa tensione) o una filmata da un invitato al matrimonio che fa una ripresa con la sua videocamera indugiando per ore su tutti i commensali.

Se io ascolto una storia, fosse anche una semplice barzelletta, trovo diverso il racconto fatto da qualcuno che sa come si tiene desto l’interesse (e ha il dono dell’affabulazione) o da qualcuno invece che sbaglia i tempi e suscita soltanto sbadigli. Riconoscendo il talento del grande narratore, non vorrei mai essere io a decidere quanto farla lunga: voglio che sia lui a incantarmi, stabilendo le pause e le accelerazioni. Non voglio essere io a decidere dove andare, mi ci deve portare una guida! Il bello dei romanzi, del cinema e dei fumetti è appunto quello di farsi prendere fra le mani dallo scrittore, dallo sceneggiatore, dal regista che ci massaggiano, ci carezzano, ci stritolano, ci pizzicano come sanno fare perché quello è il loro mestiere.

Non ho mai sopportato le storie interattive, quelle con i “bivi”, in cui a un certo punto è il lettore a dover decidere che cosa fa il personaggio. Che assurdità! E’ il narratore che è pagato per dirmi quel che succede, perché devo farlo io?  Se un Pinco Pallino con poca fantasia può avere Stephen King a congegnargli un racconto che lo tenga avvinto dalla prima all’ultima parola, perché dovrebbe metterci lo zampino lui e stabilire come debba andare la trama? Io non vorrei mai che la narrazione di Dickens si interrompesse e lasciasse il posto a quella di un Ugo Bianchi qualsiasi. E’ intollerabile che i tempi di una storia non vengano decisi dal grande scrittore che la sta narrando. Una volta ho persino preso in giro le storie a “bivi”, scrivendo una storia di Cattivik disegnata da Giorgio Sommacal, intitolata “Opzioni”. Il buffo di quella parodia era che qualunque “bivio” narrativo imboccasse il Genio del Male per decisione del lettore, gli capitava sempre la stessa cosa.

Perciò, se Lara Croft deve penetrare in una fortezza per compiere una missione, fatemi vedere, per favore, quel che le succede senza chiedermi che sia io guidarla, perché non so penetrare nelle fortezze e non mi importa un accidente di farlo. Dunque assisterò volentieri, piuttosto, a un film in cui Lara cerca la via d’uscita da un labirinto, sperando che il regista sappia gestire la cosa in modo da non farmi annoiare troppo (se la Croft passasse e ripassasse dieci volte nello stesso punto in cerca di un passaggio, vorrei indietro il prezzo del biglietto). C’è anche da considerare che il mio coinvolgimento in una vicenda che preveda il rischio per una eroina che combatte delle orde di cattivi è il fatto che io sia entrato in empatia con lei: dunque dovrei conoscere i suoi sentimenti, le sue debolezze, i suoi affetti. Non so se questo accada con i videogame. Di sicuro non accade con quelli in cui lottano due wrestler. E di certo, accade di più nei fumetti, nei romanzi, nei film, almeno in quelli in cui la trama conta se non di più, almeno quanto l’azione.

Infine, è evidente che la fruizione di un videogames monopolizza la mente frastornandola di suoni e di colori, obbligandola a gestire azioni e reazioni finalizzate al risultato di gioco, e dunque scollega il giocatore dalla realtà, senza fornire nulla in cambio. Si tratta quasi di un’opera di sottrazione. Si toglie qualcosa a chi gioca: lo si rapisce, lo si estranea, lo si monopolizza. Sono d’accordo sul fatto che lo si possa divertire e persino emozionare. Però, la cosa rimane fine a se stessa: come la masturbazione. La lettura, invece, arricchisce: come il sesso fra chi si ama. Il lettore è obbligato ad aggiungere del suo a quel che legge. Dà una voce al personaggio, lo colora, ne immagina i movimenti. La narrazione dello scrittore è quasi sempre evocativa. L’esercizio del leggere abitua a riflettere, a scrivere, a parlare, a ponderare i problemi. Anche quando un  fumetto o un romanzo ci portano in mondi di sogno, o in scenari fantasy, ciò che impariamo nell’esperienza fatta a contatto con i personaggi e le loro azioni (che non decidiamo noi, grazie a Dio), riusciamo a trasferirlo nella realtà ed è fonte di arricchimento spirituale e culturale. La narrativa è spesso rappresentazione della realtà, talvolta ne è la metafora, sempre offre spunti di riflessione. Leggere non può essere paragonato a giocare a un videogioco.

Quando io, esprimendo un parere personale che non comporta nessuna scomunica, affermo che i videogiochi scollegano il giocatore dalla realtà, non sottintendo un'opionione negativa. Sottolineo soltanto un dato di fatto. Di per sé, lo scollegamento dalla realtà può essere anche un'esperienza positiva come lo sono, per esempio, il sonno, l'estasi mistica, l'ascolto di musiche ipnotiche, il massaggio thailandese, il guardare la luna, il ballare staccando la testa. Nessuno mette in dubbio il valore catartico dell'estraniazione da se stessi. Ci sono anche stati di allucinazione in cui, invece, l'estraneazione è nociva, ma immagino che non ci siano videogiochi in grado di scatenare psicosi. Il punto è un altro: il produrre riflessi condizionati e il monopolizzare l'attenzione senza richiedere quella particolare forma di rielaborazione linguistica, semantica e semiologica tipica della lettura, rende il giocare alla playstaton più simile al ballare in discoteca la musica techno che applicarsi su un testo. E di sicuro non dà altrettante informazioni e non sviluppa le abilità di linguaggio e di articolazione del pensiero che invece serve ad allenare l'applicazione alla lettura. Il punto è sempre quello: non mescolare le due cose dando a intendere che leggere Dante o giocare a Super Mario siano la medesima cosa. Una volta che sia chiaro questo, si giochi pure e ci si estranei pure quanto si vuole. Io preferisco, comunque, il massaggio thailandese.


Non nego che anche da alcuni  videogiochi si possa imparare qualcosina. Tutto, del resto, può accendere la curiosità, ed essere fonte di conoscenza. Tuttavia il motivo per cui molti scelgono la playstation e snobbano il libro è, secondo me, perché tenere in mano un joystick è più facile che concentrarsi su un testo scritto, e questo non mi sembra un indice di elevazione culturale (poi magari mi sbaglio e il videogame con due wrestler che si picchiano è più istruttivo di Guerra e Pace). Non ho mai pensato, comunque, di impedire a qualcuno di piazzarsi davanti alla play, e neppure mai l'ho sconsigliato neppure ai miei figli. Ho semplicemente suggerito di dedicare un po' di tempo anche alla lettura, convinto che l'una cosa non escluda l'altra e che, soprattutto, la prima (il giocare ai videogame) non sia una forma evoluta della seconda, o che contenga in sé a seconda, o che sia alternativa alla seconda.


Dunque, non confondiamo i due universi. Leggere e giocare alla playstation sono due cose diverse. I fumetti non c’entrano nulla con videogiochi. Non dovrebbero essere in concorrenza come non sono in concorrenza il giocare a calcio e andare a teatro. Chi non legge fumetti (o libri) e gioca alla play, non è che se non giocasse alla play leggerebbe i libri. Semplicemente leggere non gli interessa, giocare sì, forse perché è più facile e meno impegnativo. Nel sentire comune, invece, si comincia a ragionare come se il fumetto fosse un videogioco con le animazioni alla pacman, per cui uno preferisce, giustamente, i giochi più moderni con gli scenari iperrealistici e magari in 3D.  Non è così! Giocate pure a tutti i games che volete, ma i fumetti sono moderni allo stesso modo. Semplicemente, sono cose diverse. A mio avviso, questa differenza andrebbe rimarcata in ogni circostanza, perché se si continuano ad accostare i comics e i games sarebbe come proporre a un ragazzo la scelta fra un film muto e in bianco e nero e uno con il sonoro e gli effetti speciali. E’ ovvio che il ragazzo sceglierà il secondo. Ma la scelta in realtà non c’è, come non c’è tra un panino di Mac Donald’s e una visita a un museo. Il problema è che se uno va sempre e soltanto da Mac Donald’s diventa obeso e non gli si accresce certo la visuale sul mondo e sulla sua bellezza. Leggere è bello e apre la mente, il cuore, la parola. Perché un’esperienza bella dovrebbe essere preclusa a un ragazzo, con la scusa che non gli interessa perché lui gioca alla play?  La scuola, la famiglia, la televisione, dovrebbero educare alla lettura come educano all’alimentazione. Vengano pure tutti i videgames che si vogliono, purché non si continui a dire che il giocare è una nuova forma di lettura. Non lo è.

mercoledì 25 aprile 2012

MISSION IMPOSSIBLE


Mi sono capitate fra le mani, negli ultimi giorni, due diverse pubblicazioni collegate fra loro da un link in grado di destare immediatamente il mio interesse (non che ci voglia molto, in verità). La prima, è stata un numero della rivista Ken Parker News (tredici numeri usciti nel periodo primavera 1996-primavera 1999), organo dell’Associazione Amici di Ken Parker, di cui sono stato, oltre che un iscritto della prima ora, un collaboratore. La seconda, è un albo a fumetti di una testata dalla vita piuttosto breve, ma senza dubbio interessante: Missions, della Casa editrice Fumetti d’Arte, datato 1987. La collana si proponeva, basandosi sulla collaborazione dell’Istituto Storico della Compagnia di Gesù, di raccontare a fumetti vicende ispirate ai viaggi dei missionari cristiani partiti verso terre lontane per evangelizzare le popolazioni indigene. Il n°2 della serie, intitolato “Huron”, narra per esempio di alcuni gesuiti che, nel tentativo di predicare il Vangelo, furono uccisi dai pellerossa del Nord Est alla fine del Seicento. La sceneggiatura era di Remo Pizzardi, i disegni di Maurizio Santoro: niente di particolarmente esaltante, ma pur sempre una storia insolita per argomento e ambientazione, peraltro raccontata in modo molto crudo e realistico (l’intento confessionale non inficia la narrazione). L’argomento è simile a quello affrontato dal film “Manto Nero” (Black Robe), del 1991, di Bruce Beresford: una pellicola assolutamente raccomandabile, per quanto meno celebre del più famoso “Mission”, del 1986, di Roland Joffé, con Robert De Niro, che ha però una ambientazione sudamericana. Io stesso mi sono ispirato a “Manto Nero” per sceneggiare un Maxi Zagor dal titolo “Il forte abbandonato”. 
 
Che collegamento c’è fra il n°2 di Missions e il Ken Parker News? E’ presto detto. La mia prima collaborazione con la rivista avvenne con un articolo intitolato “Gli indiani e il cristianesimo”, apparso peraltro con il mio nome riportato sbagliato (Mauro Burattini, invece di Moreno). Avevo scritto quel testo dopo una full immersion di alcuni mesi nella storia dei pellerossa, fatta per poter consegnare in Bonelli i testi di un libretto intitolato appunto “Gli indiani d’America”, che uscì in allegato allo Speciale Zagor n°4, “La fiamma nera” (giugno 1991). Si trattava di un dizionarietto alfabetico delle varie tribù indiane, pubblicato in seguito anche in Francia (a puntate, in appendice alla testata su cui comparivano le storie dello Spirito con la Scure). Per realizzarlo, mi sono letto diverse decine di libri (dando così inizio alla mia collezione di saggi sul West e sui nativi americani che oggi occupa una decina di scaffali). Inizialmente avevo pensato, però, di parlare dei pellerossa dividendo il mio libretto in capitoli basati sui vari argomenti (da dove venivano, quanti erano, quali erano i loro costumi, che lingue parlavano, eccetera). Fu così che scrisse i primi due capitoli, quando fui stoppato perché si preferì la suddivisione popolazione per popolazione. Il primo capitolo, introduttivo e generale, è comunque rimasto e lo potete leggere nell’opuscolo bonelliano. Il secondo, quello sui tentativi di conversione da parte dei missionari, saltò. Lo proposi così agli “Amici di Ken Parker”, che lo pubblicarono. A distanza di anni, lo sottopongo di nuovo alla vostra attenzione.


GLI INDIANI 
E IL CRISTIANESIMO
 di Moreno Burattini

“Eravamo un popolo senza leggi, ma in ottimi rapporti con il Grande Spirito, Creatore e Signore del tutto. Ci giudicavate selvaggi. Non capivate le nostre preghiere; né cercavate di capirle. Quando cantiamo le nostre lodi al sole, alla luna o al vento ci trattate da idolatri. Senza capire, ci avete condannati come anime perse, solo perché la nostra religione è diversa dalla vostra”.
Capo Indiano del XIX secolo


Fin da quando ci si rese conto che le terre scoperte da Cristoforo Colombo non erano le Indie, ma un nuovo continente, in Europa cominciarono a domandarsi chi fossero gli uomini che lo abitavano, i nativi americani troppo frettolosamente identificati con il nome di “indiani”. A dire il vero, c’erano delle perplessità anche sul fatto che fossero effettivamente uomini. Una delle prime descrizioni delle popolazioni del Nord America, in un testo inglese del 1511, parla di selvaggi simili alle bestie, che “vivono mangiandosi l’un l’altro e appendono le salme  per affumicarle come da noi la carne di maiale”. Per fortuna, Papa Giulio II (lo stesso che commissionò a Michelangelo gli affreschi della Cappella Sistina) riconobbe ufficialmente l’appartenenza degli Indiani d’America al genere umano e, cosa che risolse molti dubbi in proposito, dichiarò con la solennità del caso che anche loro appartenevano alla stirpe di Adamo ed Eva. Cioè, nascevano macchiati del peccato originale e non erano “preadamiti”, come qualcuno andava sostenendo in virtù della loro collocazione in un Nuovo Mondo, che sembrava rimasto isolato dal Vecchio fin dai tempi della creazione. Una bolla papale di Paolo III, invece, la “Sublimis Deus” del 1537, riconosceva definitivamente che, cannibali o non cannibali, anche i pellerossa avevano un’anima. Di conseguenza, bisogna preoccuparsi della loro conversione e della loro salvezza. 
 
John Robinson, guida spirituale dei Padri Pellegrini, rimasto però in Olanda alla partenza del Mayflower, dopo aver saputo dei primi scontri fra gli indigeni e i coloni sbarcati a Plymouth, così scrisse loro nel 1620: “Come sarebbe stato bello se ne aveste convertiti alcuni prima di ucciderli!”. Va detto che i pellerossa, sia nel Nord-Est che nel Sud-Ovest, per quanto potessero essere ritenuti “selvaggi” dagli europei e dai coloni americani, avevano un alto senso della spiritualità. Anzi: della religiosità, intesa come rapporto dell’umano con il divino. Divino che, secondo loro, si manifestava in ogni aspetto del creato; divino di cui le cose e gli essere erano materializzazione, estensione della forza creatrice. Non a caso gli indiani si sentivano parte integrante della natura, e vivevano in armonia con tutto ciò che li circondava. Tuttavia, ritenendo che la religiosità dei nativi doveva essere meglio indirizzata, nel 1649 fu fondata nel New England la Società per l’Evangelizzazione, che subito si occupò di tradurre la Bibbia in algonchino. Il 1649 è l’anno anche dei primi martiri fra i missionari bianchi recatisi presso le tribù del Nord Est: due gesuiti, padre Joan de Brebeuf e padre Gabriel Lallemant furono scorticati e poi bruciati vivi dagli irochesi. 
 
Nonostante i pericoli e gli insuccessi, i Manti Neri (così i pellirossa chiamavano i missionari) ottennero presto anche dei risultati: nel 1675 i nuovi battezzati erano quattromila. La conversione destinata a venire maggiormente ricordata anche nei secoli seguenti fu quella di Pocahontas, battezzata da John Rolfe, ma dalle testimonianze emergono non pochi dubbi sulle motivazioni che la  provocarono: sembra che vi fossero più ragioni politiche e di attrazione fisica che non sincere convinzioni religiose. Ciò, a conferma del fatto che le adesioni al cristianesimo da parte degli indiani non furono, molto spesso, frutto di autentica adesione al messaggio evangelico, né provocarono significativi cambiamenti nello stile di vita. Quando invece questo avvenne, fu a prezzo di un totale sradicamenti sociale e culturale dei convertiti. È il caso, per esempio, di Teedyuscung, guerriero Delaware convertito dai missionari Moravi: dopo il battesimo, avvenuto nel 1750, egli prese il nome di Gideon e lasciò il suo villaggio per stabilirsi con la sua famiglia presso i bianchi, adottando usi e costumi europei. C’è chi vede in questo un tentativo da parte di Teedyuscung di fare propria una cultura da lui ritenuta superiore, di sicuro più ricca e più potente. C’è anche, addirittura, il caso di una donna indiana portata dalla Chiesa agli onori degli altari. Si tratta della Beata Tekakwitha (registrata con questo nome nella Bibliotheca Sanctorum della Santa Sede); nacque nel 1656 a Ossernon, presso Fort Orange (odierna Albany), da padre irochese (pagano) e da madre algonchina (cristiana). Ricevette il battesimo nel 1676, cambiando il nome in Caterina, da alcuni missionari canadesi. Si dice che si appartasse nella foresta dove, presso una croce da lei tracciata sulla corteccia di un albero, restava a lungo in preghiera. Fece voto di verginità, passò attraverso terribili prove e si sottopose volontariamente a gravissime penitenze corporali, suscitando ammirazione fra i cristiani e sarcasmo fra gli indiani. Morì nel 1680 in odore di santità e rapidamente la sua fama si diffuse nelle regioni del Nord-Est, dove le sue reliquie sono ancora oggi venerate. La Chiesa dichiarò eroiche le sue virtù, beatificandola, il 3 Gennaio 1943. 

 
Le conversioni convinte e complete, come quella di Teedyuscung e Tekakwitha, quando ci furono, significarono il rifiuto della cultura e dell’organizzazione sociale pellerossa, come se il cristianesimo non potesse essere compatibile con la conservazione delle tradizioni indiane. Del resto, lo sciamanesimo, l’interpretazione dei sogni e dei segni, la morale sessuale, la concezione della vita e della morte, l’idea che i nativi americani avevano del mondo e delle forze della natura e del rapporto che l’uomo aveva con esse, costituivano un patrimonio di valori e di idee non soltanto contrapposto a quanto predicato dai missionari, ma anche profondamente legato con l’intera struttura sociale, per cui scardinando in un punto le credenze dei pellerossa, si provocava il crollo complesso dei punti di riferimento. Ecco perché le conversioni furono sempre poche, oppure, eccezioni a parte, soltanto formali, fatte per interesse o per compiacere i missionari. L’antropologo Wilcomb Washburn riconosce che ci furono casi di vere conversioni, ma anche queste non riuscirono a essere significative né a incidere sulla massa: i pellerossa convertiti finirono quasi sempre per essere isolati sia presso i bianchi che presso gli indiani. E in definitiva, nella maggior parte dei casi, la storia dei tentativi di convertire gli Indiani al Cristianesimo è una storia di fallimenti. Come si diceva, spesso si trattava di conversioni di comodo. Le missioni spagnole, per esempio, avamposti della “civilizzazione”, funzionavano come punto di scambio per merci, attrezzi e medicinali: la sincerità degli indiani che accettavano di convertirsi era discutibile, e gli stessi missionari la misero in dubbio nei loro scritti. In molti casi si poteva facilmente constatare come nei fatti la vita dei convertiti non si distinguesse in nulla da quella dei non battezzati. Anche quando gli indigeni cambiavano il loro modo di vivere, secondo molti antropologi ciò non rappresentava che un tentativo di identificarsi con i bianchi, ricchi e potenti. La maggior parte dei battesimi impartiti agli Uroni avvenivano in punto di morte, in quanto il battesimo nella fede cristiana era strettamente collegato, nella loro mentalità, alla morte stessa. L’opera instancabile dei missionari servì a diffondere nuove conoscenze tra i pellerossa, in alcuni casi addirittura li protesse contro i soprusi delle autorità, ma non riuscì mai, come essi speravano, a trascinare alla fede intere popolazioni. Questo soprattutto perché la con versione al cristianesimo comportava l’adozione di un modello culturale a loro del tutto estraneo. 
 
I missionari non riuscivano a separare religione e civiltà, e oltre a promuovere una nuova fede proponevano un radicale mutamento del modo di vivere che l’Indiano istintivamente rifiutava: “A scuola e nei campi, come in cucina, il nostro obbiettivo era quello di insegnare agli Indiani a vivere come i bianchi”, scrisse uno dei missionari. Le conversioni erano più facili e più frequenti là dove i bianchi erano meno numerosi, e dunque gli indiani vedevano in loro un pericolo minore. I Pellerossa erano tuttavia naturalmente portati a meditare sul soprannaturale e avevano un grande senso dell’onestà: non di rado si fermarono ad ascoltare con attenzione il messaggio cristiano, replicando con acutezza alle parole dei predicatori. Giacca Rossa, capotribù Seneca, disse al missionario Joseph Cram che se il Grande Spirito avesse voluto dare il Vangelo anche agli Indiani ne avrebbe fornita loro una conoscenza diretta e non avrebbe aspettato che fossero i bianchi a portargliela. Il sakem notò inoltre, acutamente, come  gli stessi bianchi non sapevano neppure mettersi d’accordo fra di loro sul modo corretto di interpretare la Bibbia. Poi, dato che Cram predicava anche nelle città dei bianchi, propose di stare a vedere quali effetti le sue predicazioni avrebbero avuto su di loro: “se scopriremo che gli fanno bene, che li fanno diventare più onesti, meno inclini alle truffe ai danni degli Indiani, allora potremmo prendere in considerazione le tue parole”. Disse infine Giacca Rossa: “Fratello, noi non vogliamo distruggere la vostra religione, né privarvene, vogliamo soltanto il diritto di godere della nostra”.

martedì 24 aprile 2012

VAMOS A LA PLAYA



Sono reduce dalla trasferta ad Albissola Marina, a due passi da Savona, per la manifestazione Albissolacomics di cui vi dato nell’articolo precedente qualche anticipazione. Si è trattato di un weekend davvero entusiasmante, non soltanto per me ma, credo, per tutti i partecipanti, autori o lettori che fossero. In un clima sereno e rilassato è stato possibile incontrare praticamente dietro ogni angolo un disegnatore o uno sceneggiatore, e in tante gallerie d'arte della cittadina sono state ospitate decine di mostre di artisti del fumetto, da Stano a Casini, da Ferri a Laurenti, da Sedioli a Frisenda passando per numerosissimi altri fra cui la lieta sorpresa di Alessia Martusciello, in grado di passare dalla Disney alla Bonelli come se nulla fosse. Lola Airaghi, Giancarlo Alessandrini, Fabiano Ambu, Claudio Chiaverotti, Alessandro Bocci, Marco Santucci, Stefano Andreucci... e tanti altri ancora, tutti riuniti in un chilometro quadrato. E che bello incontrare anche lì, tanta gente che legge il "coso" e il blog e me ne parla come se fossero due miei fumetti. Ci sono un po’ di cose da raccontare, e lo farò procedendo in modo aneddotico, così come ho fatto facendo la cronaca dell’ ultima Lucca Comics.

Baci e abbracci 
Trattandosi della prima edizione della kermesse, non si può che fare i complimenti ai due principali artefici del successo, che hanno saputo creare un evento praticamente dal nulla, e dargli una connotazione diversa e originale: Dario Isopo e Stefano Grasso. A quest’ultimo in particolare va il mio abbraccio perché un problema di ordine ortopedico l’ha immobilizzato su una sedia a rotelle una settimana prima del varo dell’iniziativa, cioè proprio quando c’era più bisogno di darsi da fare, e nonostante tutto è riuscito, in carrozzella e con le stampelle, ad essere sempre presente nella Piazza del Popolo, là dove aveva allestito il suo quartier generale. Stefano, dopo aver letto un mio commento pubblicato su Facebook, mi ha scritto: “Grazie per le belle parole Moreno, impareremo a migliorarci dall'esperienza fatta, in modo da rendere la manifestazione sempre più bella, per un pubblico ed autori fantastici, meritevoli di tutte le nostre migliori attenzioni. Un particolare grazie a te, che ti sei prestato così tanto nel darci una mano, con i tuoi interventi e consigli. Abbiamo anche avuto il grande onore di avere la visita inaspettata di Davide Bonelli, degno erede dell'indimenticabile Sergio. Grazie da parte di tutti noi”.  Auguri a te, Stefano, di tornare a camminare senza problemi il prima possibile. Un altro messaggio mi ha colpito, quello  di Andrea Cipollone: “Grazie, Moreno: e oltre a te grazie a tutti i fumettisti che ci rendono la vita migliore. Viva il fumetto, Viva la Bonelli, Viva Zagor (che segna la vita di chiunque lo incontra, proprio vero quello che hai detto oggi pomeriggio)”.


La carta capovolta

Uscendo da un ristorante, ho abbassato lo sguardo a terra e mi sono trovato davanti ai piedi una carta da gioco capovolta. Ho deciso che avrei interpretato come un segno del destino il numero e il seme che mi si fossero mostrati girandola. Raccolgo la carta, la volto ed è l'asso di picche. Ora, il due di picche è sicuramente un indice infausto. Ma l'asso? Ho posto la questione su Facebook: “Fermo restando che è soltanto un gioco, chi sa decifrare l'arcano?”. Ecco alcune delle risposte. Antonio Caravella: “Si dice che l'asso di picche rappresenti la Signora con la falce...”. Giuseppe Marinello:  “Significa che potresti scrivere una storia di guerra. ‘Asso di picche’, come certamente sai,  è un bellissimo fumetto di Ricardo Barreiro con i disegni di Juan Gimenez”. Caro Giuseppe, so anche di un “Asso di Picche” di Mario Faustinelli, Alberto Ongaro e Hugo Pratt.

Lola Airaghi, grande disegnatrice anche di tarocchi ed esperta di astrologia, mi scrive: “L'asso di picche corrisponde all'asso di spade e rappresenta l'intelletto. E’ collegato all'elemento aria e tutto ciò che lo fa muovere sono le idee. Se la carta era capovolta e la tua curiosità ti ha portato a girarla e l'hai guardata, se sarai curioso e prosegui andando più a fondo analizzando anche altri punti di vista su idee che arrivano, potrebbe farti arrivare l'idea vincente!”. Ovviamente, prendo per buona l’interpretazione della Lola. Però, certo, se mi dovesse capitare qualcosa di grave nei prossimi giorni e questo fosse l’ultimo post del mio blog, tenete in considerazione Antonio Caravella per farvi fare le carte anche voi perché vorrà dire che è uno che ci capisce.

Noi tanto buoni

Tra gli amici incontrati ad Albissola, c’è stato anche il grande Antonio Tubino. Di lui ho già parlato in un articolo intitolato “Noi tanto buoni”, in cui il titolo è l’anagramma del suo nome e, soprattutto, ben si presta al personaggio che è da decenni uno dei principali collaboratori della Settimana Enigmistica, nel novero dei vignettisti che ci rinfrancano lo spirito tra un enigma e l’altro. Le sue barzellette grafiche sono riconoscibilissime per lo stile grafico inconfondibile ma anche perché sono, regolarmente, le più divertenti della rivista. Tubino è venuto da Genova apposta per salutarmi, dopo aver letto sul giornale che ero tra gli ospiti della manifestazione. Mi ha detto di aver iniziato a comprare regolarmente la Collezione Storica di Repubblica e di non vedere l’ora che la collana inizi a pubblicare le mie storie. Caro Antonio, ci vorrà ancora un po’ di tempo: accadrà verso il n°150! Ovviamente, se la testata non chiuderà i battenti prima (ma io sono fiducioso che ci arriveremo). Al ristorante, Tubino ha disegnato per tutti i presenti, raccontando un aneddoto dopo l’altro delle sue esperienze come vignettista di lungo corso. “Una vignetta è tanto più buona, quante meno parole sono necessarie per far capire la battuta”, ha detto. Alla fine del pranzo, ci siamo accorti che eravamo rimasti gli ultimi nel locale, ma anche i proprietari e i camerieri si erano messi ad ascoltare.

Davvero?

Avrei dovuto partecipare a due dibattiti con il pubblico (uno con Gallieno Ferri e uno in ricordo di Sergio Bonelli, con Stefano Priatone) e invece mi sono trovato fra le mani un microfono anche in un terzo caso, non previsto, ma che mi ha felicemente coinvolto. Mancando il moderatore all’incontro con Paola Barbato sul suo fumetto on line “Davvero”, mi hanno chiesto di sostituire l’assente. Si sa che io con il microfono in mano ci vado a nozze e il problema non è invitarmi a parlare, ma farmi smettere una volta che ho iniziato, e così ho finito per far credere al pubblico di essere arrivato lì preparatissimo, con una lista di domande già pronte, mentre fino a cinque minuti prima non avevo la minima idea di quel che mi sarebbe capitato. Ovviamente, so abbastanza cose su “Davvero”, di cui ho anche parlato qui sul blog poco dopo l’inizio della serie, da essermi fatta una precisa opinione sul fumetto. Secondo me, si tratta di una grande idea e di un  progetto coraggioso, destinato a fare scuola: si tratta di una storia a puntate pubblicata due volte a settimana (il lunedì e il giovedì), sei tavole per volta, su un sito web accessibile a tutti e dunque leggibile gratuitamente. I testi sono di Paola Barbato, autrice di romanzi di successo e sceneggiatrice di numeri epocali di Dylan Dog,  ha voluto tentare una via nuova per pubblicare un racconto a fumetti “minimalista” (la cui protagonista è una ragazza comune) che avrebbe avuto difficoltà a venire accettato nei tradizionali canali editoriali. I disegni sono di giovani autori esordienti che si sono proposti per lavorare gratis (come gratis hanno lavorato alcune “guest star” che hanno collaborato al progetto), dato che l’iniziativa nasceva come esperimento senza immediato fine di lucro. Lungi dall’essere una forma di “sfruttamento”, come qualcuno ha temuto, il progetto rappresenta una formidabile vetrina per dei giovani talenti, chiamati a lavorare su una sceneggiatura professionale. Ce ne fossero, palestre simili dove farsi le ossa! Accanto a Paola Barbato c’era Matteo Bussola, coordinatore grafico di “Davvero” e i disegnatori Damjan Stanich e Gea Ferraris. Tra le notizie date al pubblico c’è stato l’annuncio che la prima serie chiuderà con la puntata n° 70 (invece che con la n°60), e che si prepara l’approdo su carta della serie, visto il successo di pubblico e visto l’interessamento (che si spera vada a buon fine) della Star Comics. E’ probabile che a Lucca Comics 2012 vedremo il primo numero di una serie da edicola, in bianco e nero, di “Davvero”, in cui confluiranno (stavolta pagati) alcuni dei collaboratori del progetto sul web.  La prima volta che mi sono occupato di "Davvero" qui sul blog, avevo appunto espresso il desiderio di leggere la serie su carta: non posso che esserne contento!

Vu’ comprà?

Sotto i portici del lungomare (a proposito: c’è sempre stato il sole) era allestito un mercatino del fumetto, con commercianti di antiquariato e qualche editore. Secondo me, c’era roba bella. Comunque, non potendo permettermi di spendere troppo comprando, come pure avrei voluto, qualche Zenith originale o qualche albetto a striscia dei più rari, mi sono limitato a mercanteggiare l’acquisto di alcune chicche. Innanzitutto, mi sono procurato il primo volume dell’edizione cartonata di “Cavalcando con Tex”, di cui sono uno degli autori ma che possedevo soltanto nella versione brossurata. Il librone cartonato, particolarmente ponderoso, raccoglie i primi due volumi dei cinque scritti da me e da Francesco Manetti a commento di tutte le storie di Aquila della Notte e dei disegni inediti della collezione di Giovanni Battista Verger. Poi, ho trovato a un prezzo d’occasione tre volumi delle Edizioni Di con le storie western giovanili di Paolo Eleuteri Serpieri. Quindi, mi sono fiondato su un Pecos Bill con la copertina di Franco Donatelli e su qualche numero di Billy Bis e di Ghibli che mi ricordano i tempi felici in cui c’erano riviste come l’Intrepido e il Monello.





Pubblicazioni speciali

Ad Albissola sono uscite alcune chicche editoriali. Innanzitutto, c’erano quattro cartoline inedite (tra cui una di Ferri) che era possibile far timbrare con uno speciale annullo filatelico (con i volti di Tex e di Zagor nel timbro). Poi, è stato messo in vendita uno spettacolare portfolio di grande formato, contenente tutte le tavole disegnate per la manifestazione dai numerosissimi autori ospiti e distribuite alla firma nelle sedi delle varie mostre personali nelle gallerie d’arte, più alcune altre a colori realizzate appositamente per il portfolio stesso. Visti i nomi degli autori, si tratta di un oggetto imperdibile. C’è stato anche un piccolo catalogo in bianco e nero, per il quale ho scritto un breve saggio dal titolo “La nona arte”.



A proposito di cataloghi e di miei articoli, Mauro Laurenti ha presentato un suo catalogo personale, dal titolo “Insalata mista”, in cui sono radunate tavole, illustrazioni e cover di oltre trent’anni di attività. Anche in questo caso, c’è una mia introduzione, intitolata “L’aura di Laurenti”. Vi consiglio di procurarvelo chiedendolo all’autore, che lo distribuisce personalmente. Come concludere questa cronaca se non con le stesse parole con cui tutti noi concludevamo i nostri temi scolastici in cui eravamo chiamati a descrivere una gita domemicale? Qualunque cosa fosse successa, dovunque fossimo andati, alla fine tornavamo a casa stanchi, ma felici.


venerdì 20 aprile 2012

VOULEZ VOUS UN RENDEZ VOUS?

“Voulez vous un rendez vous tomorrow?”: è così che comincia, come tutti sanno, il primo successo discografico di Amanda Lear, intitolato appunto “Tomorrow” e contenuto nel suo album di esordio, “I am a photograph”, pubblicato nel 1977. Fu uno dei primi dischi che comprai, se ben ricordo. Rammento anche di essere sempre stato affascinato dalla bellezza trasgressiva, equivoca e androgina della cantante (nata a Hong Kong da un padre britannico e da una madre russo-mongola). Del resto, la showgirl stregò anche Salvador Dalì, che per quindici anni la volle al suo fianco dovunque andasse. Fu proprio Dalì, pare, a inventare la leggenda, che giovò molto alla Lear in termini pubblicitari, sul presunto cambiamento di sesso di Amanda. Si diceva che in realtà lei fosse stata un uomo, che una operazione chirurgica aveva trasformato in una donna. Nel 1978, un celebre numero di Playboy edizione italiana, andato a ruba, rivelò che invece si trattava, senza ombra di dubbio, di una femminuccia fin dalla nascita. Ricordo perfettamente come io e i miei compagni (maschi) del liceo (avevamo sedici anni) facemmo una colletta per comprarci la rivista, che rimase a lungo nascosta nell’armadietto della classe, con grande scandalo delle compagne (femmine): fui proprio che mi incaricai di andare in edicola a compiere l’audace acquisto.  Ma perché vi racconto tutto questo? Perché se voulez-vous un rendez-vous tomorrow, io ve lo concedo. E anzi, dato che ci sono, ve ne do uno anche per dopodomani e per alcune date del prossimo, e ormai imminente, mese di maggio. Vediamo di che cosa si tratta. Prendete nota!

ALBISSOLACOMICS
Sabato 21 e domenica 22 aprile 2012 sarò ad Albissola (Savona), fra i tanti ospiti della prima edizione di Albissolacomics. Ho già spiegato di che cosa si tratta, e il sito della manifestazione vi potrà dare tutti i chiarimenti. Qui basterà ricordare che, in giro per la cittadina ligure, potrete incontrare oltre a me anche, artisti del calibro di  Giancarlo Alessandrini, Fabiano Ambu, Stefano Andreucci, Alessandro Bocci, Fabio Civitelli, Beniamino Del Vecchio, Maurizio Dotti, Gallieno Ferri, Giovanni Freghieri, Mauro Laurenti, Danilo Maramotti, Marco Santucci, Gianni Sedioli, Angelo Stano, Daniele Statella, Marco Torricelli e altri ancora (tutti con mostre personali allestite nelle gallerie d’arte della città). 
Però, se è proprio me che volete vedere, sappiate che sabato 21, dalle ore 15.30 alle ore 16.30, io e Gallieno Ferri saremo insieme nello spazio incontri per parlare di Zagor e dei suoi cinquantun anni di avventure. Domenica 22, invece, dalle 16.30 alle 17.30, parlerò di Guido Nolitta e di Sergio Bonelli con Stefano Priarone. Il tutto, con l’ausilio di foto e disegni proiettati su un maxi schermo. Tenete presente che nel museo civico si potrà anche ammirare, per la prima volta dal vivo, l’originale della copertina della prima striscia di Zagor. Inoltre, la manifestazione propone (oltre ai tanti disegni da far firmare agli autori, cartoline con speciali annulli filatelici e un portofolio) anche un catalogo per il quale ho scritto un breve saggio dal titolo “La nona arte”.


VIDEOCHAT IN RAI

Lunedì 7 maggio sarò a Roma, a Saxa Rubra, negli studi RAI. Sono stato invitato per partecipare a una videochat nell'ambito di una lodevole e meritoria trasmissione del TG3 dedicata ai fumetti, TG3 Comics.
Si tratta di uno spazio a cui hanno già partecipato Roberto Recchioni, Silvia Ziche, Zero Calcare, la mangaka Yoshiko Watranabe, il doppiatore di cartoni animati Fabrizio Mazzotta. Cercherò di non sfigurare di fronte a loro (le cui videochat potete vedere sul sito web della trasmissione). La chat, che inizierà alle ore 15, non sarà trasmessa via etere ma solo sul web, in diretta sul sito del TG 3 (www.tg3.rai.it) e per poi essere archiviata e quindi fruibile anche in seguito. Alle 16.30, però, andrò anche in onda su RAI GULP, nel GT Ragazzi, verso le ore 16.30. Anche un questo caso, il mio intervento sarà visionabile in differita grazie a un link.



ORVIETO COMICS FESTIVAL WESTERN

E' stato pubblicato il programma del festival western organizzato nell'ambito di Orvieto Comics, che si svolgerà nella bella città umbra il 12 e il 13 maggio 2012. Tanto per cominciare, sabato 12 maggio alle ore 18, suonerà Graziano Romani. Invece, domenica 13 maggio alle ore 12.00 si svolgerà dibattito sul fumetto western: “Duri a morire? Che futuro per gli eroi di carta?” con Moreno Burattini, Paolo Eleuteri Serpieri, Mauro Laurenti, i fratelli Cestaro, Lorenzo Bartoli (Sala dei Quattrocento). Serpieri, in particolare, esporrà in una mostra le sue tavole western; Bartoli presenterà la versione di John Doe catapultato nel Lontano Ovest. Ma anche il cinema sarà protagonista, con ospiti illustri e proiezioni di film imperdibili. Io ci sarò, voi fate il possibile per non mancare.

LEZIONE UNIVERSITARIA A VERONA

Mercoledì 16 maggio, dalle ore 10,10 alle 11,50, sarò invece a Verona, presso l'Aula T3 del Polo Zanotto dell'Università, via San Francesco. Terrò una lezione (aperta a tutti) su Zagor preso come esempio del modo con cui il fumetto racconta l’avventura e incarna, in tempi moderni, la narrazione delle gesta degli antichi che da sempre affascinano il pubblico. Già lo scorso anno ero stato a Verona, per parlare del cinquantennale zagoriano e presentare il mio romanzo "Le mura di Jericho", anche se in un ambito del tutto diverso.

TRASFERTA IN DALMAZIA

Dal 21al 27 maggio 2012, a Makarska, in Dalmazia, si svolgerà la nuova edizione del MaFest, il più importante festival fumettistico della Croazia. Quest’anno, tra gli ospiti italiani, ci saranno Stefano Casini, Pasquale Frisenda, Nicola Mari, Marco Verni (autore della locandina della manifestazione che vedete qui accanto) e il sottoscritto. Che mi ritroverò di nuovo fianco a fianco con uno sceneggiatore stratosferico che io considero uno dei miei miti personali: il belga JeanVan Hamme (XIII, Thorgal, Largo Winch).  Io e Marco Verni presenteremo il secondo Zagorone, “L’uomo che sconfisse la morte”, in uscita in Italia il 30 maggio: una storia che, a mio avviso, lascerà il segno e farà discutere. Ne riparleremo, ma se accettate un consiglio cercate di non perderla. In Croazia con noi verrà anche la troupe di Riccardo Jacopino, il regista che da qualche mese sta girando un documentario sullo Spirito con la Scure e che intende filmare anche l’entusiasmo dei lettori croati, dopo aver filmato quello degli italiani. Questo documentario si preannuncia come un evento: sarà proiettato a novembre a Lucca Comics e lo si potrà vedere, molto probabilmente, in due versioni (una più lunga e una più breve) sia in TV, che su DVD, che nelle sale del circuito Microcinema.

CONCORSO COVER RELOADED
Prende il via una nuova grande iniziativa promossa da Marco Grasso e Giuseppe Reina in collaborazione con la Scuola di Fumetto di Catania e con la rivista Fumetti al cubo. Si tratta di un concorso per disegnatori esordienti, di qualsiasi età e provenienza, chiamati a misurarsi con una personale rivisitazione delle copertine già edite degli eroi di carta. Per questa prima edizione la scelta degli organizzatori è stata quella di invitare i partecipanti a reinterpretare le mitiche cover di Gallieno Ferri per Zagor. Ogni artista, con qualsiasi tecnica, dovrà presentare entro il 24/05/2012 un elaborato inviando l'immagine in formato Jpeg (768x1024 px) a cover.reloaded@gmail.com. Ogni partecipante potrà presentare un solo elaborato. Il tutto verrà pubblicato in un apposito album di facebook alla pagina www.facebook.com/cover.reloaded  nella quale ci saranno periodicamente degli aggiornamenti.

I premi saranno questi:
1° classificato: articoli professionali della Winsor & Newton per un valore di 300 Euro
2° classificato: articoli professionali della Derwent per un valore di 160 Euro
3° classificato: articoli professionali della Letraset per un valore di 140 Euro  
Presidente di giuria sarà il disegnatore zagoriano Joevito Nuccio, ma della commissione farò parte anch’io, insieme al fondatore della Scuola di Fumetto di Catania, Angelo Pavone,  autori della rivista "Fumetti al cubo", e altri personaggi del mondo del fumetto e dell'arte in genere.   Il 27 maggio verranno scelti i tre migliori elaborati presso la galleria "Progetti d'arte" di Catania, alla presenza di Joevito Nuccio. Io interverrò in modo telematico. Nella stessa galleria verrà allestita una mostra di tavole originali della Bonelli.

Visitate la pagina www.facebook.com/cover.reloaded e anche il sito della rivista "Fumetti al cubo" edita dalla scuola di fumetto di Catania: www.fumettialcubo.com/cover-reloaded.html dove troverete regolamento e scheda di adesione. Giuseppe Reina scrive, presentando l’iniziativa: “Mettetevi in gioco! Il contest è rivolto a disegnatori non professionisti, amatoriali, ma soprattutto a chi ha velleità artistiche. Comunque la partecipazione è aperta a tutti, anche a chi non ha mai preso una matita in mano”.

Potrei continuare parlandovi di altre iniziative estive (a Ostuni, sul mare in Veneto, a Rimini, a Catania, al Festival delle Storie in Ciociaria) ma per adesso limitiamoci a queste, per non mettere troppa carne al fuoco. E comunque, dopo ci saranno gli eventi autunnali...







mercoledì 18 aprile 2012

TRENT'ANNI DOPO


Qualche giorno fa, ho scritto su Facebook: "Non fatevelo sfuggire, il n° 320 di Martin Mystère. E' l'albo del trentennale e contiene 66 pagine in più, quelle di una versione inedita del primo numero. Impossibile, per me, non tornare indietro con la memoria all'aprile del 1982 quando comprai 'Gli uomini in nero' e cominciai subito il conto alla rovescia dell'attesa dell'episodio successivo. 'Nel corso di trent'anni il BVZM è divenuto così riconoscibile da potersi trasferire in altre epoche o in altri mondi senza bisogno di dare spiegazioni e senza tema di perdere la propria identità', scrive Castelli a pagina 4. E in effetti ecco Martin Mystère protagonista di una avventura ambientata in un magico calderone di citazioni e suggestioni degli anni Trenta, in cui Java diventa King Kong, Travis è Dick Tracy e in Washington Mews sorge un grattacielo invisibile costruito dal professor Enigm di 'Topolino e il mistero dell'Uomo Nuvola'. Giancarlo Alessandrini è superlativo come e forse più di sempre, a partire dalla copertina. Buon compleanno, Martin!". La frase chiave, in questo commento, è "Impossibile non tornare indietro con la memoria". Martin Mystére è stato un fumetto importante nella mia vita. Mi ha regalato emozioni e divertimento, insegnato cose, fatto crescere professionalmente. Gli ho dedicato due libri e decine di articoli. Quello che vi apprestate a leggere, però, non è opera mia, ma di Saverio Ceri: è la nuova puntata della sua rubrica "Diamo i numeri", e si occupa non soltanto di Martin Mystère ma anche di Alfredo Castelli, ovvero il Buon Vecchio Zio Alfy, creatore del Buon Vecchio Zio Marty.

Diamo i numeri 18

BVZA/BVZM: 40-30
di Saverio Ceri

Nell'ottobre del 1971 prese il via, sul 127° albo della collana Zenith, l'avventura "Il dio del ghiaccio", meglio identificabile con il titolo "Molok!". Questo episodio è, a tutt'oggi, l'episodio di Zagor scritto dallo sceneggiatore più giovane. Il narratore in questione aveva all'epoca appena ventiquattro anni e nei quarant'anni successivi sarebbe diventato uno dei pilastri della casa editrice, tanto da raggiungere la Top 5 degli sceneggiatori bonelliani di ogni tempo. E' terzo nella classifica degli scrittori degli albi fuoriserie, nonché il "creatore" per eccellenza di extra bonelliani: si deve a lui, per esempio, l'ideazione degli speciali con albetti allegati e gli almanacchi. Stiamo parlando, ovviamente, del vulcanico Alfredo Castelli. In questi 40 anni, tavola dopo tavola il BVZA è arrivato ad accumulare ben 27.842,5 pagine, firmando (da solo o in compagnia) ben 217 sceneggiature.

I personaggi o le serie di casa Bonelli su cui Castelli ha lavorato li trovate qui elencati in ordine di tavole realizzate:

Martin Mystère 20264,5 tavole
Mister No 4274
Zagor 1991
Storie da Altrove 385
Zona X 372
Ken Parker 192
Dylan Dog 174
Pedrito el Drito 94
L'uomo di Chicago 48
L'uomo delle nevi 48

Alfredo Giuseppe Castelli (quante cose si scoprono con Internet) ha pubblicato su 22 testate della Casa editrice di via Buonarroti, 10 delle quali ha tenuto a battesimo. Nella lista qui sotto ne troverete però soltanto 21: la ventiduesima serie risulterebbe essere "I fumetti del Dottor Beruscus", ma non possedendo i due rarissimi numeri che la compongono, usciti nella primavera del 1986, non saprei quantificare in tavole l'apporto del poliedrico sceneggiatore. Ovviamente se qualcuno che possiede i due albi potesse colmare la lacuna, fornendomi i dati delle storie che vi sono contenute, sarei ben lieto di aggiornare la contabilità castelliana.

Martin Mystère 13855 tavole
Mister No 4238
Martin Mystère Speciale 2320
Zenith Gigante 1991
Collana Almanacchi 1250
Martin Mystère Gigante 1187,5
Martin Mystère Bis 502
Storie da Altrove 385
Zona X 372
Almanacco del Mistero 358
Martin Mystère Presenta 273
Maxi Martin Mystère 234
Ken Parker 192
Dylan Dog & Martin Mystére 160
Dylan Dog 94
Un uomo un'avventura 96
Grandi Comici del fumetto 94
Ken Parker Magazine 84
Il mystero delle nuvole parlanti73
Mister No Speciale 72
Orient Express 12

L'anno più prolifico dei quaranta trascorsi alla corte Bonelli è stato il 1982, quando furono date alle stampe 1865 tavole a firma Alfredo Castelli, record quasi bissato nell'anno successivo, quando il BVZA si è attestato sulle 1806 tavole. Nel 1984 ottiene il suo terzo miglior risultato con 1660 tavole. Anche nei due anni successivi seppur con risultati minori risulta essere il più prolifico scrittore bonelliano. Inevitabilmente con ben 5 vittorie consecutive Castelli si ritrova a essere anche il più pubblicato sceneggiatore del decennio bonelliano, tra l'80 e l'89 colleziona ben 12.538 tavole. Nel suo palmares del figurano anche due secondi posti e 4 terzi posti.

Per raggiungere questi risultati Castelli si é avvalso dell'apporto di 65 disegnatori, qui di seguito, per brevità, citiamo solo la top ten dei suoi collaboratori alle matite:

1° Alessandrini 4034 tavole
2° Bignotti 3080
3° Ricci 1543
4° Esposito Bros. 1178
5° Torti 1150
6° Cassaro Bros. 1143
7° Donatelli 1091
8° Filippucci 1024
9° Devescovi 9 35
10° Chiarolla 778,5

Da segnalare che il sodalizio con Giancarlo Alessandrini, il suo più assiduo compagno díavventura parte ben prima di Martin Mystère. Nel 1977 infatti firmano insieme "L'uomo di Chicago" per la prestigiosa collana "Un uomo un'avventura", si ritrovano poi su Ken Parker e infine danno vita al Detective dell' Impossibile.

Detective dell'Impossibile che guarda caso è il secondo protagonista di questa puntata di Diamo i numeri. Proprio in questi giorni infatti si festeggia il 30° anniversario del personaggio. In questi sei lustri della serie creata da Castelli e dei suoi spin-off sono state pubblicate 46.865 tavole, alle quali andrebbero aggiunte solo per rimanere in ambito bonelliano le 96 pagine apparse su Ken Parker Magazine e Orient Express, senza parlare delle centinaia di pagine realizzate per le decine di storie brevi realizzate per le più disparate occasioni. Se proprio si volesse essere pignoli le tavole di Storie di Altrove non sarebbero da accreditare al biondo eroe bonelliano; in questo caso il contatore si fermerebbe a "solo" 44.829 tavole più gli episodi extra-bonelli, insomma oltre 45.000 tavole nette per Martin Mystère.

Gli albi recanti in copertina il logo di Mystère sono stati a oggi 424, compresi gli albetti di Martin Mystère Presenta; in essi hanno trovato posto 344 storie, senza dimenticare le 4 storie brevi apparse su altre collane dell'editore. L'avventura più lunga è apparsa abbastanza di recente, si tratta di "Java addio", 308 tavole ad opera di Morales e De Cubellis apparse sui numeri 296-297 delle serie bimestale. Ancora più recente è la storia più breve: "I canali del tempo", solo 6 tavole, di Castelli e Filippucci, apparse sul Martin Mystère Presenta allegato al 27° speciale del BVZM. Fuori dai confini bonelliani però possiamo incontrare anche avventure di una sola tavola.

Le quasi quarantasettemila tavole di cui parlavamo poc'anzi sono state pubblicate su 11 collane. Queste:

Martin Mystère 32.738 tavole
Martin Mystère Speciale 3.536
Martin Mystère Gigante 2.924
Storie da Altrove 2.132
Almanacco del Mistero 2.112
Martin Mystère Bis 1.332
Maxi Martin Mystère 1.078
Martin Mystère Presenta 330
Martin Mystère One-Shot 309
Martin Mystère & Nathan Never 214
Dylan Dog & Martin Mystère 160

Per one-shot si intendono i due speciali "Il mystero delle nuvole parlanti" e "Generazioni" che non rientrano in nessuna delle collane fuoriserie del personaggio. Nel caso dei team-up con Nathan Never e Dylan Dog, il numero delle tavole è stato diviso in parti uguali tra i due protagonisti. Da non dimenticare anche l'incontro con Mister No uscito come ottavo speciale del personaggio di Nolitta e non contemplato in queste graduatorie. Senza tralasciare, anche se difficilmente quantificabili, le apparizioni del Martin Mystère del futuro sulle pagine di Nathan Never.

Il BVZM è senza dubbio il re dei team-up bonelliani, oltre a quelli già citati va ricordato infatti un quarto incontro, quello con Zagor, narrato ne "La scure incantata". episodio apparso sui numeri 242 e 243 della serie principale.

Altri 46, oltre a Castelli, gli sceneggiatori che si sono cimentati con il Detective dell'Impossibile, tra cui due donne. Questo l'elenco completo:

1° Castelli 20517,5 tavole
2° Recagno 5774,5
3° Morales 4111
4° Prosperi 1466
5° Vietti 1388
6° Santarelli 1384
7° Beretta 1382,5
8° Pasini 1133
9° Chiaverotti 955
10° La Neve 926

11° Mignacco 870
12° Russo A. 809
13° Bagnoli-Pfeiffer 600
14° Deplano 564
15° Pennacchioli 426
16° Ferrandino 376
17° Lotti 299
18° Pederiali 282
19° Palombi 245
20° Memola 235
20° Pagliara-Minutolo 235
22° Bonetti 216,5
23° Serra 199,67
24° Capone 188
24° Verrengia 188
26° Sclavi 178
27° Ongaro P. 172
28° Ruju 154
29° Berrini 141
29° Galoppo 141
31° Udina 138
32° Bertoli 120
33° Medda 104,67
33° Vigna 104,67
35° Abate 94
35° Bilotta 94
35° Cappi 94
35° Carpi 94
35° Gandolfi 94
35° Malagutti 94
41° Borgogno 92
42° Artibani 47
42° Faraci 47
42° Donato 47
45° Strufaldi 44

Dieci in più, quindi 57, i disegnatori che hanno messo le loro matite al servizio dell'eroe castelliano, tra cui quattro donne; eccoli in ordine di tavole:

1° Alessandrini 4902
2° Torti 4074
3° Esposito Bros. 3412
4° Devescovi 2368
5° Bagnoli (Henry) 2295
6° Ongaro P. 2007
7° Cassaro Bros. 1928
8° Romanini 1840
9° Coppola L. 1726
10° Ricci 1679

11° Grimaldi 1670,33
12° Filippucci 1364
13° Chiarolla 1336
14° Bignotti 1219
15° Morales 1214,33
16° Giardo 1172
17° Vercelli 1008
18° Orlandi 758
19° Arduini 751
20° Zancanella 672
21° Freghieri 642
22° Casertano 636
23° Villa 587
24° Tuis 524
25° Spada 523
26° Cardinale 513
27° Russo F. 480
28° Caracuzzo 440
29° De Cubellis 379,33
30° Cimpellin 376
31° Caluri 350
32° Deidda 331
33° Palumbo 324
34° Roi 316
35° Bastianoni D. 314
36° Gradin 308
37° Cesar 288
38° Coppola G. 235
39° Sicomoro 224
40° Colombi 219
41° Cedroni 188
41° Rinaldi P. 188
43° Siniscalchi 166
44° Camagni 154
45° Crivello 150
46° Piccoli 114,5
47° Montanari 97,5
48° Leoni 94
48° Pepe 94
50° Della Monica 80
51° Nisi 54
52° Palomba 27
52° Zanella 27
54° Brindisi 18
55° Sforza 8

Molta meno varietà tra i copertinisti. Quasi tutte le cover sono di Giancarlo Alessandrini, che in un caso, più unico che raro in casa Bonelli, ha realizzato una cover a quattro mani, quella dello speciale "Generazioni" condivisa con Lucio Filippucci: è così che si spiegano i curiosi "virgola cinque" che troverete qui sotto:

Alessandrini 406,5 copertine
Filippucci 5,5
Stano 2
Vercelli 2
Esposito Bros. 1
Cardinale 1

Da ricordare che i primi sei almanacchi, quelli precedenti al varo della Collana Almanacchi, non avevano una copertina originale, vera e propria, ma erano dei montaggi grafici realizzati da Castelli stesso, in un caso con la partecipazione straordinaria del "kappa boy" Andrea Baricordi. Sempre Castelli, da qualche anno é ritornato in qualche modo, co-autore delle cover curandone la grafica e la colorazione.

L'anno più ricco di tavole per Martin Mystère e derivati è stato il 2004, con 2002 pagine pubblicate. Lo sceneggiatore che più volte ha "vinto" la classifica annuale è ovviamente Alfredo Castelli con 24 successi, seguito da Carlo Recagno e Paolo Morales, rispettivamente con 4 e con 2 vittorie. Castelli ha anche il primato del maggior numero di tavole del BVZM pubblicate in un solo anno: 1167 pagine nel 1985. Tra i disegnatori il più "scudettato" è Rodolfo Torti, con sei successi annuali, 4 volte hanno vinto Giancarlo Alessandrini e gli Esposito Bros, 3 volte ciascuno invece si sono imposti i fratellli Cassaro, Paolo Ongaro e Giovanni Romanini. Il miglior score annuale è stato realizzato nel 1991 da Alessandrini con 349 tavole.

Termina qui questa doppia razione di cifre bonelliane. Alla prossima.

Saverio Ceri