mercoledì 25 aprile 2012

MISSION IMPOSSIBLE


Mi sono capitate fra le mani, negli ultimi giorni, due diverse pubblicazioni collegate fra loro da un link in grado di destare immediatamente il mio interesse (non che ci voglia molto, in verità). La prima, è stata un numero della rivista Ken Parker News (tredici numeri usciti nel periodo primavera 1996-primavera 1999), organo dell’Associazione Amici di Ken Parker, di cui sono stato, oltre che un iscritto della prima ora, un collaboratore. La seconda, è un albo a fumetti di una testata dalla vita piuttosto breve, ma senza dubbio interessante: Missions, della Casa editrice Fumetti d’Arte, datato 1987. La collana si proponeva, basandosi sulla collaborazione dell’Istituto Storico della Compagnia di Gesù, di raccontare a fumetti vicende ispirate ai viaggi dei missionari cristiani partiti verso terre lontane per evangelizzare le popolazioni indigene. Il n°2 della serie, intitolato “Huron”, narra per esempio di alcuni gesuiti che, nel tentativo di predicare il Vangelo, furono uccisi dai pellerossa del Nord Est alla fine del Seicento. La sceneggiatura era di Remo Pizzardi, i disegni di Maurizio Santoro: niente di particolarmente esaltante, ma pur sempre una storia insolita per argomento e ambientazione, peraltro raccontata in modo molto crudo e realistico (l’intento confessionale non inficia la narrazione). L’argomento è simile a quello affrontato dal film “Manto Nero” (Black Robe), del 1991, di Bruce Beresford: una pellicola assolutamente raccomandabile, per quanto meno celebre del più famoso “Mission”, del 1986, di Roland Joffé, con Robert De Niro, che ha però una ambientazione sudamericana. Io stesso mi sono ispirato a “Manto Nero” per sceneggiare un Maxi Zagor dal titolo “Il forte abbandonato”. 
 
Che collegamento c’è fra il n°2 di Missions e il Ken Parker News? E’ presto detto. La mia prima collaborazione con la rivista avvenne con un articolo intitolato “Gli indiani e il cristianesimo”, apparso peraltro con il mio nome riportato sbagliato (Mauro Burattini, invece di Moreno). Avevo scritto quel testo dopo una full immersion di alcuni mesi nella storia dei pellerossa, fatta per poter consegnare in Bonelli i testi di un libretto intitolato appunto “Gli indiani d’America”, che uscì in allegato allo Speciale Zagor n°4, “La fiamma nera” (giugno 1991). Si trattava di un dizionarietto alfabetico delle varie tribù indiane, pubblicato in seguito anche in Francia (a puntate, in appendice alla testata su cui comparivano le storie dello Spirito con la Scure). Per realizzarlo, mi sono letto diverse decine di libri (dando così inizio alla mia collezione di saggi sul West e sui nativi americani che oggi occupa una decina di scaffali). Inizialmente avevo pensato, però, di parlare dei pellerossa dividendo il mio libretto in capitoli basati sui vari argomenti (da dove venivano, quanti erano, quali erano i loro costumi, che lingue parlavano, eccetera). Fu così che scrisse i primi due capitoli, quando fui stoppato perché si preferì la suddivisione popolazione per popolazione. Il primo capitolo, introduttivo e generale, è comunque rimasto e lo potete leggere nell’opuscolo bonelliano. Il secondo, quello sui tentativi di conversione da parte dei missionari, saltò. Lo proposi così agli “Amici di Ken Parker”, che lo pubblicarono. A distanza di anni, lo sottopongo di nuovo alla vostra attenzione.


GLI INDIANI 
E IL CRISTIANESIMO
 di Moreno Burattini

“Eravamo un popolo senza leggi, ma in ottimi rapporti con il Grande Spirito, Creatore e Signore del tutto. Ci giudicavate selvaggi. Non capivate le nostre preghiere; né cercavate di capirle. Quando cantiamo le nostre lodi al sole, alla luna o al vento ci trattate da idolatri. Senza capire, ci avete condannati come anime perse, solo perché la nostra religione è diversa dalla vostra”.
Capo Indiano del XIX secolo


Fin da quando ci si rese conto che le terre scoperte da Cristoforo Colombo non erano le Indie, ma un nuovo continente, in Europa cominciarono a domandarsi chi fossero gli uomini che lo abitavano, i nativi americani troppo frettolosamente identificati con il nome di “indiani”. A dire il vero, c’erano delle perplessità anche sul fatto che fossero effettivamente uomini. Una delle prime descrizioni delle popolazioni del Nord America, in un testo inglese del 1511, parla di selvaggi simili alle bestie, che “vivono mangiandosi l’un l’altro e appendono le salme  per affumicarle come da noi la carne di maiale”. Per fortuna, Papa Giulio II (lo stesso che commissionò a Michelangelo gli affreschi della Cappella Sistina) riconobbe ufficialmente l’appartenenza degli Indiani d’America al genere umano e, cosa che risolse molti dubbi in proposito, dichiarò con la solennità del caso che anche loro appartenevano alla stirpe di Adamo ed Eva. Cioè, nascevano macchiati del peccato originale e non erano “preadamiti”, come qualcuno andava sostenendo in virtù della loro collocazione in un Nuovo Mondo, che sembrava rimasto isolato dal Vecchio fin dai tempi della creazione. Una bolla papale di Paolo III, invece, la “Sublimis Deus” del 1537, riconosceva definitivamente che, cannibali o non cannibali, anche i pellerossa avevano un’anima. Di conseguenza, bisogna preoccuparsi della loro conversione e della loro salvezza. 
 
John Robinson, guida spirituale dei Padri Pellegrini, rimasto però in Olanda alla partenza del Mayflower, dopo aver saputo dei primi scontri fra gli indigeni e i coloni sbarcati a Plymouth, così scrisse loro nel 1620: “Come sarebbe stato bello se ne aveste convertiti alcuni prima di ucciderli!”. Va detto che i pellerossa, sia nel Nord-Est che nel Sud-Ovest, per quanto potessero essere ritenuti “selvaggi” dagli europei e dai coloni americani, avevano un alto senso della spiritualità. Anzi: della religiosità, intesa come rapporto dell’umano con il divino. Divino che, secondo loro, si manifestava in ogni aspetto del creato; divino di cui le cose e gli essere erano materializzazione, estensione della forza creatrice. Non a caso gli indiani si sentivano parte integrante della natura, e vivevano in armonia con tutto ciò che li circondava. Tuttavia, ritenendo che la religiosità dei nativi doveva essere meglio indirizzata, nel 1649 fu fondata nel New England la Società per l’Evangelizzazione, che subito si occupò di tradurre la Bibbia in algonchino. Il 1649 è l’anno anche dei primi martiri fra i missionari bianchi recatisi presso le tribù del Nord Est: due gesuiti, padre Joan de Brebeuf e padre Gabriel Lallemant furono scorticati e poi bruciati vivi dagli irochesi. 
 
Nonostante i pericoli e gli insuccessi, i Manti Neri (così i pellirossa chiamavano i missionari) ottennero presto anche dei risultati: nel 1675 i nuovi battezzati erano quattromila. La conversione destinata a venire maggiormente ricordata anche nei secoli seguenti fu quella di Pocahontas, battezzata da John Rolfe, ma dalle testimonianze emergono non pochi dubbi sulle motivazioni che la  provocarono: sembra che vi fossero più ragioni politiche e di attrazione fisica che non sincere convinzioni religiose. Ciò, a conferma del fatto che le adesioni al cristianesimo da parte degli indiani non furono, molto spesso, frutto di autentica adesione al messaggio evangelico, né provocarono significativi cambiamenti nello stile di vita. Quando invece questo avvenne, fu a prezzo di un totale sradicamenti sociale e culturale dei convertiti. È il caso, per esempio, di Teedyuscung, guerriero Delaware convertito dai missionari Moravi: dopo il battesimo, avvenuto nel 1750, egli prese il nome di Gideon e lasciò il suo villaggio per stabilirsi con la sua famiglia presso i bianchi, adottando usi e costumi europei. C’è chi vede in questo un tentativo da parte di Teedyuscung di fare propria una cultura da lui ritenuta superiore, di sicuro più ricca e più potente. C’è anche, addirittura, il caso di una donna indiana portata dalla Chiesa agli onori degli altari. Si tratta della Beata Tekakwitha (registrata con questo nome nella Bibliotheca Sanctorum della Santa Sede); nacque nel 1656 a Ossernon, presso Fort Orange (odierna Albany), da padre irochese (pagano) e da madre algonchina (cristiana). Ricevette il battesimo nel 1676, cambiando il nome in Caterina, da alcuni missionari canadesi. Si dice che si appartasse nella foresta dove, presso una croce da lei tracciata sulla corteccia di un albero, restava a lungo in preghiera. Fece voto di verginità, passò attraverso terribili prove e si sottopose volontariamente a gravissime penitenze corporali, suscitando ammirazione fra i cristiani e sarcasmo fra gli indiani. Morì nel 1680 in odore di santità e rapidamente la sua fama si diffuse nelle regioni del Nord-Est, dove le sue reliquie sono ancora oggi venerate. La Chiesa dichiarò eroiche le sue virtù, beatificandola, il 3 Gennaio 1943. 

 
Le conversioni convinte e complete, come quella di Teedyuscung e Tekakwitha, quando ci furono, significarono il rifiuto della cultura e dell’organizzazione sociale pellerossa, come se il cristianesimo non potesse essere compatibile con la conservazione delle tradizioni indiane. Del resto, lo sciamanesimo, l’interpretazione dei sogni e dei segni, la morale sessuale, la concezione della vita e della morte, l’idea che i nativi americani avevano del mondo e delle forze della natura e del rapporto che l’uomo aveva con esse, costituivano un patrimonio di valori e di idee non soltanto contrapposto a quanto predicato dai missionari, ma anche profondamente legato con l’intera struttura sociale, per cui scardinando in un punto le credenze dei pellerossa, si provocava il crollo complesso dei punti di riferimento. Ecco perché le conversioni furono sempre poche, oppure, eccezioni a parte, soltanto formali, fatte per interesse o per compiacere i missionari. L’antropologo Wilcomb Washburn riconosce che ci furono casi di vere conversioni, ma anche queste non riuscirono a essere significative né a incidere sulla massa: i pellerossa convertiti finirono quasi sempre per essere isolati sia presso i bianchi che presso gli indiani. E in definitiva, nella maggior parte dei casi, la storia dei tentativi di convertire gli Indiani al Cristianesimo è una storia di fallimenti. Come si diceva, spesso si trattava di conversioni di comodo. Le missioni spagnole, per esempio, avamposti della “civilizzazione”, funzionavano come punto di scambio per merci, attrezzi e medicinali: la sincerità degli indiani che accettavano di convertirsi era discutibile, e gli stessi missionari la misero in dubbio nei loro scritti. In molti casi si poteva facilmente constatare come nei fatti la vita dei convertiti non si distinguesse in nulla da quella dei non battezzati. Anche quando gli indigeni cambiavano il loro modo di vivere, secondo molti antropologi ciò non rappresentava che un tentativo di identificarsi con i bianchi, ricchi e potenti. La maggior parte dei battesimi impartiti agli Uroni avvenivano in punto di morte, in quanto il battesimo nella fede cristiana era strettamente collegato, nella loro mentalità, alla morte stessa. L’opera instancabile dei missionari servì a diffondere nuove conoscenze tra i pellerossa, in alcuni casi addirittura li protesse contro i soprusi delle autorità, ma non riuscì mai, come essi speravano, a trascinare alla fede intere popolazioni. Questo soprattutto perché la con versione al cristianesimo comportava l’adozione di un modello culturale a loro del tutto estraneo. 
 
I missionari non riuscivano a separare religione e civiltà, e oltre a promuovere una nuova fede proponevano un radicale mutamento del modo di vivere che l’Indiano istintivamente rifiutava: “A scuola e nei campi, come in cucina, il nostro obbiettivo era quello di insegnare agli Indiani a vivere come i bianchi”, scrisse uno dei missionari. Le conversioni erano più facili e più frequenti là dove i bianchi erano meno numerosi, e dunque gli indiani vedevano in loro un pericolo minore. I Pellerossa erano tuttavia naturalmente portati a meditare sul soprannaturale e avevano un grande senso dell’onestà: non di rado si fermarono ad ascoltare con attenzione il messaggio cristiano, replicando con acutezza alle parole dei predicatori. Giacca Rossa, capotribù Seneca, disse al missionario Joseph Cram che se il Grande Spirito avesse voluto dare il Vangelo anche agli Indiani ne avrebbe fornita loro una conoscenza diretta e non avrebbe aspettato che fossero i bianchi a portargliela. Il sakem notò inoltre, acutamente, come  gli stessi bianchi non sapevano neppure mettersi d’accordo fra di loro sul modo corretto di interpretare la Bibbia. Poi, dato che Cram predicava anche nelle città dei bianchi, propose di stare a vedere quali effetti le sue predicazioni avrebbero avuto su di loro: “se scopriremo che gli fanno bene, che li fanno diventare più onesti, meno inclini alle truffe ai danni degli Indiani, allora potremmo prendere in considerazione le tue parole”. Disse infine Giacca Rossa: “Fratello, noi non vogliamo distruggere la vostra religione, né privarvene, vogliamo soltanto il diritto di godere della nostra”.