venerdì 16 ottobre 2015

INDIANS





Moreno Burattini e Stefano Babini a Romics 2015
Durante l'edizione 2015 di Romics, la kermesse fumettistica che va in scena ogni anno a Roma, ho partecipato alla presentazione di "Indians", un libro di Stefano Babini e Lele Vianello edito con il marchio Dark Crow, una etichetta indipendente che fa capo direttamente ai due autori. In pratica, si tratta di una autoproduzione. Quando gli editori non sono in grado di garantire ai realizzatori di un'opera un dignitoso compenso per il loro lavoro, capita che scrittori e illustratori scelgano di investire su se stessi e stampare in proprio ciò che hanno ideato, con tutti gli oneri e gli onori che ne conseguono. 

Nel caso di "Indians", Babini e Vinello hanno fatto le cose in grande producendo un brossurato di 124 pagine a colori (di formato orizzontale) stampato su carta lucida di eccellente qualità, in grado di restituire al meglio la policromia dei disegni raccolti. Disegni senza firma, mescolati fra loro, così che diventa persino una sfida divertente capire chi dei due ha disegnato cosa, essendo i loro stili assimilabili e di diretta derivazione da quello prattiano. Il tema delle illustrazioni è quello sintetizzato dal titolo: gli indiani d'America. Che, come risulta chiaro sfogliando il volume, sono in realtà scelti come simbolo di libertà, di ribellione, di vita a contatto con la natura, di fierezza, di avventura, di magia. Ma anche di erotismo, bellezza, sogno, leggenda, visione.

Sono amico di Stefano Babini da molti anni e ammiratore da sempre di Lele Vianello. Mi ha fatto molto piacere ricevere da loro la richiesta di scrivere la prefazione del loro volume. L'ho fatta, e ho scritto anche un articolo in proposito per il catalogo della manifestazione romana in cui il libro è stato presentato. Per motivi di spazio, il mio testo ha dovuto essere accorciato (e forse ne ha guadagnato in efficacia e immediatezza). Perciò, pubblico qui di seguito la versione estesa, che traccia un excursus su come i nativi americani sono stati raffigurati dai pittori ottocenteschi.


I GUERRIERI DEL SOGNO
di Moreno Burattini

George Catlin
I primi ritratti di pellerossa realizzati dal vivo da un pittore, che poi li espose nelle Gallerie d’Arte di grandi metropoli come New York, Londra e Parigi, furono quelli di George Catlin.  Nato in Pennsylvania nel 1796, dopo aver esercitato per breve tempo la professione di avvocato, Catlin si dedicò alla pittura e, nel 1830, si trasferì a St. Louis, nell’attuale Missouri. In questa città ebbe la ventura di conoscere proprio William Clark, che vi si era stabilito al termine delle sue avventurose esplorazioni che lo avevano reso amico di numerosi pellerossa. Erano infatti tanti gli indiani che venivano e fargli visita e Catlin, vedendoli, ne fu affascinato al punto da chiedere loro di posare per dei ritratti. Nel 1832, il pittore volle intraprendere un viaggio nelle terre dei nativi, soprattutto in direzione delle Grandi Praterie. Raggiunse dunque Fort Union, che oggi è nel North Dakota, e lì ebbe l’occasione di dipingere guerrieri e squaw dei Piedi Neri, degli Assiniboin, dei Cree e dei Crow, le cui tribù erano stanziate attorno al Forte. Quindi, proseguendo il viaggio, Catlin raggiunse i Mandan e si fermò a lungo nel loro villaggio, al punto da poter dipingere e annotare ogni aspetto della loro vita sociale. Fu il primo bianco ad assistere alla cerimonia della Danza del Sole, un rituale di purificazione che prevedeva il digiuno e l’autoflagellazione per invocare le divinità ed entrare in contatto con loro. Nel 1833, a Pittsburg vennero esposti in una mostra i primi quadri del pittore raffiguranti capi indiani e scene di vita nei loro villaggi. Da quel momento la fama di Catlin crebbe in America e anche in Europa, si intensificarono i suoi viaggi e si moltiplicarono le sue mostre.
Il villaggio dei Mandan visto da Catlin

La Danza del Sole secondo Catlin

George Catlin. La caccia al bisonte 
Quella degli artisti del pennello ispirati dagli scenari western, intendendo tutti quelli a Ovest del Mississippi, a partire dall’acquisto della Louisiana dalla Francia, da parte degli Stati Uniti, nel 1803, fu una vera e propria scuola, ricca di talenti. La necessità  di conoscere ed esplorare gli immensi territori da poco acquisiti, che avevano più che raddoppiato il territorio federale, suggerì al governo di Washington di inviare numerose spedizioni con il compito di cartografare le nuove regioni e mappare la dislocazione delle tribù indigene. Al seguito di queste missioni si unirono artisti invitati a raffigurare in schizzi a matita o con acquarelli i paesaggi, la fauna, la flora e i villaggi delle popolazioni locali. Questi disegni fornirono le prime informazioni iconografiche sulle terre ancora sconosciute che si offrivano alla colonizzazione bianca, ed esaltarono l’immaginazione degli americani delle città dell’Est. Ben presto altri artisti cominciarono a viaggiare per proprio conto diretti verso occidente, obbedendo a un desiderio personale oppure spronati da committenti che chiedevano quadri con gli scenari grandiosi delle Grandi Praterie, le Montagne Rocciose o i canyon e le mese del Sud Ovest. 

Karl Bodmer. La corsa dei cavalli.
Karl Bodmer (1809-1893), artista svizzero, e Alfred Jacob Miller (1810-1874), nativo invece di Baltimora, si ispirarono all’opera di George Catlin e, come lui, si occuparono principalmente di raffigurare pellerossa. La loro visione dei nativi fu sostanzialmente romantica: gli indiani vivevano in un paesaggio incontaminato, cacciavano i bisonti, si facevano guerra tra loro ignorando la minaccia degli uomini bianchi e trascorrevano il tempo in uno scenario bucolico in cui nulla lasciava presagire il dramma della decimazione e della deportazione nelle riserve. 

Alfred Jacob Miller. Caccia all'orso

Nella seconda metà del diciannovesimo secolo le cose cominciarono a cambiare. Nelle opere di pittori come Seth Eastman (1808-1875), William Ranney (1813-1857). Charles Deas (1818-1867) e Carl Wimar (1828-1862) le tribù dei nativi attaccano le carovane, scalpano i trappers e combattono con i soldati dell’esercito. Il sentimentalismo precedente lascia il posto alla cronaca storica e, per certi versi, alla “celebrazione” del “progresso” portato dall’avanzare della Civiltà nelle terre di frontiera.  

William Ranney

Ma i pittori che più molti altri seppero raccontare, con straordinaria efficacia e modernità, la conquista del West (al punto di essere ancora oggi attualissimi), furono Frederic Remington (1861-1909) e Charles Marlon Russell (1864-1926).  Nato nel nord dello stato di New York il primo, originario di Saint Louis il secondo, rifiutarono entrambi l’idea che l’arte dovesse “celebrare” qualcosa, e trovavano discutibile la retorica propagandistica del “destino manifesto” dell’uomo bianco chiamato a portare la fiaccola della verità nelle tenebre dell’errore. Così, ciascuno alla propria maniera e percorrendo strade diverse, si sforzarono (riuscendoci benissimo) di mostrare la realtà nuda e cruda, in opere in grado di suscitare contrastanti sentimenti da punti di vista differenti, perché la verità non è una sola ma è sfaccettata. Il West di Remington e Russell è vivo, emozionale,  e se raffigura uno scontro fra un bianco e un indiano non prende posizione, lasciando allo spettatore il compito di giudicare da che parte stare. 

Charles Marlon Russell. Nella terra dei nemici
Frederic Remington

Stefano Babini e Lele Vianello, invece, non hanno dubbi su come schierarsi: dalla parte dei nativi. Il loro cuore, lo si vede benissimo nelle pagine che seguono, palpita all’unisono con quello del Popolo degli Uomini (come gran parte delle tribù chiamavano se stessi). Rispetto ai pittori ottocenteschi, però, Babini e Vianello non hanno avuto bisogno, per raffigurarli, di vedere dal vivo gli indiani d’America (che peraltro, oggi, indossano i loro costumi tradizionali soltanto per i turisti). Non soltanto perché la documentazione disponibile agli illustratori contemporanei è imponente, ma perché più che dalla realtà hanno attinto dalla leggenda. Cento anni di cinema e di fumetti, centocinquanta di fotografie, duecento di romanzi, hanno sedimentato il mito. Il popolo rosso è entrato a far parte dell’immaginario collettivo: guerrieri, sakem, uomini della medicina, squaw sono ormai delle icone. Fanno parte del sogno di tutti noi. Ma il sogno, ormai, non è così distante dalla realtà come si potrebbe ipotizzare immaginando che la fiction abbia deformato la Storia. Il progressivo aggiungersi di informazioni e di dati ha fatto sì che l’immagine del nativo che si ricava dalla sedimentazione finisca sempre più per avvicinarsi alla figura del reale. Ma la cosa, per certi versi, non ha importanza: il pellerossa si può interpretare, senza tradirne l’essenza, come un simbolo (di libertà, di coraggio, di lealtà, di vicinanza alla natura, di spiritualità) e può avere valenza epica, con l’identificazione del guerriero armato di arco e di lancia come eroe romantico e come protagonista di avventure che tutti noi vorremmo vivere, sia pure catarticamente, al suo posto. Stefano e Lele hanno negli occhi (e nelle mani) i disegni di Hugo Pratt, maestro di entrambi, filtrati attraverso la loro personale sensibilità, le loro letture, le loro visioni. Ma anche Pratt si era nutrito di suggestioni precedenti. Il viaggio che state per iniziare in compagnia dei due autori va fatto a occhi aperti, sfogliando le pagine che seguono. Ma può proseguire a libro finito, con gli occhi chiusi.