mercoledì 22 settembre 2010

LEI CHI?

Di recente, nel mio filo diretto sul forum SLCS, mi è stato chiesto come mai nei fumetti Bonelli si usi ancora il "voi" come allocutivo cortese al posto del "lei". In effetti, per un giovane lettore non abituato a sentir dare del "voi" fra persone che non si danno del "tu", potrebbero suonare strani, antiquati o peggio artefatti dei dialoghi di Tex, Zagor e persino Dylan Dog. L'unica eccezione in ambito bonelliano, se non mi sbaglio, è quello di Julia. Certo, per uno sceneggiatore che si sforzi di far parlare in modo congruo e realistico i propri personaggi, l'obbligo di rispettare una tradizione del genere potrebbe sembrare gravoso.

Ma vediamo i perché e i percome, almeno secondo quel che mi sembra di poter dire sulla base del buon senso: la tradizione l'ho trovata e cerco di giustificarla. I pronomi di cortesia 'lei' e 'voi' sono nati per evitare un riferimento diretto alla persona, quando questo poteva apparire scortese. Così si è cominciato a usare delle allocuzioni come 'sua eccellenza', 'sua signoria', 'vostra grazia', 'vostra magnificenza', tutte frasi al femminile. Così, si è consolidato l'uso del 'lei'. In alcune zone dell'Italia del Sud, comunque, si usa ancora abitualmente il 'voi' mentre il 'lei' e più presente nel Nord. Tutte le lingue europee contemplano pronomi di cortesia, che generalmente ricalcano fedelmente la seconda persona plurale: 'vous' in francese, 'usted' in castigliano, 'vocei'' in portoghese, 'vyi' in russo.

Durante il fascismo, l'uso del "lei" fu proibito perché era ritenuto di origine spagnola e quindi estraneo alla cultura nazionale. Fu imposto l'obbligo del "voi": questo diktat non fu granché efficace nella conversazione quotidiana (la gente, giustamente, parla come mangia) ma ha lasciato una pesante eredità a livello editoriale e nel doppiaggio dei film. A lungo si è continuato a leggere nei romanzi e a sentire al cinema di personaggi che si danno del "voi". Ora, il cinema degli anni Quaranta e Cinquanta è alla base della tradizione bonelliana: Tex dà del "voi" alle persone a cui ritiene di dovere della deferenza, perché nei film John Wayne dava del "voi" nelle pellicole doppiate in italiano.
E poiché Tex ha tracciato un solco e indicato un codice, ancora oggi ci rifacciamo a lui. Ormai, è tradizione che Tex e Zagor parlino così e sarebbe arduo cambiare, ci sarebbe un senso di straniamento, temo. In ogni caso, anche se io personalmente fossi convinto della necessità di passare al "lei", non potrei farlo senza una svolta editoriale complessiva della Casa editrice. Trovo comunque più grave il "voi" in Dylan Dog e negli eroi più moderni: in fondo Tex e Zagor vivono nell'Ottocento e si sa che lo "you" di allora non significava "tu", ma proprio "voi". E' la seconda persona plurale che si è imposta anche al singolare, sostituendo il "thou", seconda persona singolare caduta in disuso. Un altro dei motivi per cui Bonelli preferisce il "voi", è la minore ambiguità dell'allocuzione. Se io chiedo a uno: "Ma lei verrà?", chi è quel "lei"? Lui o sua moglie? Lei chi? Se dico: le dirò ciò che so, a chi intendo dirlo? A chi mi sta davanti, o a una terza persona di sesso femminile?

Se dovessi inventare un personaggio nuovo, però, e mi fosse data la stessa licenza concessa a Berardi per Julia, sicuramente userei il "lei" se si trattasse di un character di ambientazione contemporanea, perché vorrei poter scrivere dialoghi efficaci percepiti come colloquiali e spontanei, e non artificiosi.
Dell'argomento, ho parlato anche nella mia tesi di laurea. Così scrivevo: "Sergio Bonelli continua a imporre l'uso del 'voi' nei dialoghi dei personaggi della maggior parte delle sue testate, consuetudine ereditata dai primordi della casa editrice e da tutta una serie di opportunità (per esempio, la necessità di capire a chi ci si riferisca dicendo "lei": una terza persona, o quella a cui si parla?). Negli albi Bonelli, dunque, sia per un retaggio del passato, sia per consuetudine generalizzata, sia per evitare confusioni, i personaggi parlano dandosi del 'tu' o del 'voi', non del 'lei'. Lo sceneggiatore, ovviamente, scrivendo una storia di Tex o di Zagor o di Mister No è chiamato a prenderne atto e adeguarsi, anche nel caso dovesse ritenere la cosa poco aderente al linguaggio parlato davvero oggi in Italia. Così come, per consuetudine, dagli albi bonelliani è bandito il turpiloquio, anche nel caso in cui si mostri una furibonda rissa fra scaricatori di porto".

Se vi sembra strano che una tesi di laurea affronti anche un argomento del genere, c'è da dire che la mia era dedicata alla sceneggiatura dei fumetti. E' stata una tesi fortunata, circa la quale ho due divertenti aneddoti da raccontare. Il primo riguarda la discussione finale. Come sanno tutti coloro che si sono laureati, l'atto finale di un corso di laurea consiste nell'andare a difendere le idee esposte nella propria tesi davanti a una commissione composta da sette o otto professori dei quali soltanto due sono almeno in parte interessati alla faccenda: il professore che presenta il candidato ai colleghi come un allievo da lui seguito, e un controrelatore che per dovere professionale ha dovuto sorbirsi la lettura di quanto scritto dal candidato, di solito un testo pallosissimo. A tutti gli altri docenti, mentre il laureando parla, non gliene potrebbe fregare di meno. C'è chi rilegge la tesi del successivo candidato di cui magari è relatore o controrelatore, chi prende appunti per proprio conto, chi guarda il soffitto, chi dorme, chi sbadiglia, chi fa le parole crociate.
Quando mi sono presentato io (mi vedete in quell'occasione nella foto accanto), il mio professore, l'illustre esperto dell'umanesimo fiorentino del Quattrocento Mario Martelli (persona così illuminata da aver accettato di presentarmi nonostante volessi parlare di comics e avessi rifiutato di occuparmi della vita di Giannozzo Manetti scritta da Vespasiano da Bisticci), ha esordito dicendo ai colleghi che io ero l'unico caso che gli fosse mai capitato di studente citato con ben nove titoli nella bibliografia della propria tesi. Al che, tutti i professori hanno voltato la testa verso di me. Poi, ha spiegato che mi ero occupato della sceneggiatura dei fumetti. Tutti hanno sgranato gli occhi e drizzato le orecchie. Io ho cominciato a parlare e subito, a uno a uno, i docenti attorno al tavolo hanno cominciato a dire che una volta leggevano Tex, che avevano a casa la collezione di Alan Ford, o che andavano matti per Jacovitti. E io allora giù a spiegare che Jacovitti l'avevo conosciuto, che con Max Bunker avevo collaborato e che su Tex avevo scritto diversi articoli. Insomma, il tavolo davanti a cui ero seduto si è trasformato in una tavolata di amici cordiali che rinverdivano vecchi ricordi e dove tutti intervenivano per dire la loro. Risultato: centodieci e lode. Il controrelatore mi ha detto, a cose fatte, che non aveva mai visto una scena del genere.

Visto il successo, l'anno successivo pensai di far partecipare il mio testo a un concorso per tesi di laurea sul fumetto, il Premio Marchetti, attribuito a Roma nel corso di una manifestazione che si svolgeva alla vecchia Fiera, e che credo si chiamasse ExpoCartoon. Il bando diceva che il vincitore avrebbe avuto una targa e un assegno da cinquecentomila lire. Pochi giorni prima della premiazione vengo informato che ho vinto! Allora mi metto il vestito buono, e mi presento nella sala dove si consegnano i riconoscimenti, tra cui, se non sbaglio, anche gli ambiti Yellow Kid. Il programma dice che appunto, in quella sede, si darà un premio alla miglior tesi di argomento fumettistico e si ribadisce che il premio consiste nell'importo da me, a quel punto, agognato. Vengo chiamato sul palco, applausi, strette di mano di rito, grandi sorrisi, grande soddisfazione, tutto bene. La foto poco sopra è lì a testimoniarlo.
Sennonché, quando ricevo la targa, non mi danno nessun assegno. Ho pensato: vabbè, sarà nella scatola, lo troverò cercando meglio dopo che sarò tornato al posto. Mi siedo, frugo nella scatola: niente. Delle cinquecentomila lire, nessuna traccia. Vabbè, mi dico, mi faranno un accredito direttamente sul conto in banca, con un bonifico. Mi ripropongo di telefonare agli organizzatori del premio il lunedì successivo, dato che si era di sabato sera. Com'è, come non è, telefono più volte senza risultato: nulla! Gli organizzatori sembrano spariti. E difatti ho scoperto che il famoso lunedì, per non so quale tipo di problemi, l'intera struttura della manifestazione era stata smantellata e da allora in poi kermesse fumettistiche non si sono più fatte nella vecchia Fiera (che io sappia) e per quanto mi risulta il mio è stato l'ultimo Premio Marchetti assegnato. Purtroppo, senza assegno.